Mondo
Guerra impura
Si invoca la laicità, ma si prega su Facebook. Si vorrebbe reagire, ma si producono solo hashtag. Nel frattempo, c'è chi spinge per l'unica soluzione data come possibile: la guerra. Ma contro chi e per conto di chi? Chi trae profitto dal caos globale non aspetta altro
di Marco Dotti
La caduta dell’Unione Sovietica e la fine dell’equilibrio tra potenze ha segnato tra le tante cose la scomparsa della nozione classica di guerra. Al "campo largo" di battaglia si sono sostituiti conflitti locali permanenti che hanno realizzato un primario obiettivo: seminare il panico nelle grandi città.
Nelle città abita il panico
Chi avesse nutrito qualche dubbio rispetto a questa lettura, ha dovuto attendere venticinque anni e i fatti di Parigi di venerdì scorso per risvegliarsi dal torpore. Come ha osservato Papa Francesco, questo è solo un frammento di una guerra globale-totale, asimmetrica e impura, che si conduce con gli algoritmi della finanza, con l'uso politico delle migrazioni e con quello geopolitico del terrore.
Spiega un critico attento come Paul Virilio che "all’iperconcentrazione delle megalopoli si aggiunge non solo l’iperterrorismo di massa" ma anche una delinquenza panica e paranoica che "riconduce la specie umana alla danza di morte delle origini e la città torna a essere una cittadella, detto altrimenti: un bersaglio per tutti i terrori, domestici o strategici”. Lo stalker e il terrorista sono due facce di questa stessa medaglia.
Abitiamo città edificate nel terrore, non se ne scappa. Oggi, 4 europei su 10 vivono in una città, in percentuale significa il 40,2% della popolazione europea, ma nel Regno Unito questa percentuale sale al 58%. Colpire la città, non significa colpire al cuore uno Stato o un'idea di comunità o un'idea di libertà, laicità, bla bla bla. Colpire una città significa innescare un ordigno panico che è strutturalmente concepito per esplodere qui e ora. Ciò che cambia, in questo qui e in questo ora, sono i termini quantitativi e di prossimità: quante vittime? Quante vicine a noi? Quanta empatia suscitano?
Dall'empatia all'indifferenza
Ai confini dell'Europa, le cose non cambiano ma l'empatia degrada in indifferenza. Lo abbiamo visto a Beirut, il 12 novembre, poche ore prima della tragedia di Parigi, quando una bomba ha ucciso 50 persone, ferendone oltre 200 nel quartiere sciita della città: il più grave attentato di matrice sunnita dai tempi della guerra civile che dilaniò il Paese con "qualche" ingerenza francese, anche allora.
Qualcuno ha parlato – non a sproposito, riferendosi a ciò che agita movimenti, Stati, istituzioni e fazioni del mondo islamico – di fitna. Fitna è la sedizione che il Corano definisce ancor più temibile della strage perché mina i fondamenti della comunità (umma). Ed è interessante il fatto – messo in risalto dagli analisti – che gli attentati parigini abbiano preceduto di poche ore il previsto e poi annullato arrivo a Parigi e Roma del Presidente della Repubblica Islamica dell'Iran Hassan Rouhani. Nel mondo islamico che "noi" leggiamo come unitario e privo di conflitto si agita da tempo lo spettro di una guerra civile totale. Dovremmo tenerne conto.
non possiamo più ragionare di una guerra pura, semplicemente perché la nozione di guerra ha cambiato natura. Non esistono più «guerre pure», ma una guerra totale e «impura» nata dalle diverse esigenze e dalla diversa struttura della dissuasione armata. Questa dissuasione non ha più di mira i soli militari, anzi direi che si indirizza essenzialmente ai civili. Vengono da questo salto di paradigma nella natura della dissuasione fenomeni inconcepibili, solo venti o venticinque anni fa, quali il Patriot Act o le prigioni di Guantanamo
Paul Virilio
Guerra impura
La nozione di "grande guerra classica", quella che, secondo i dettami del generale prussiano von Clausewitz, altro non sarebbe che "la prosecuzione della politica con altri mezzi" non esiste più, si è dissolta. E questa dissoluzione, ha condotto il nostro mondo direttamente tra le braccia del terrore e del disequilibrio terrorista. Ma il terrorismo è solo una parte di una guerra asimmetrica globale che si sta conducendo giorno dopo giorno, sempre con altri mezzi.
Tra questi mezzi, ci sono anche le reazioni. Che sono una parte essenziale nella produzione del terrore. Così, va ribadito come dopo l'11 settembre 2001 si è determinata la cornice all’interno della quale progressivamente sono appassite tutte le proposte politiche di centro-sinistra in Europa. All'interno di questa cornice si è sancita l’indiscutibilità di alcuni cardini dell’ordine internazionale, che sono divenuti il vero dio di cui non si può bestemmiare il nome.
È in corso una guerra», dice, «e quando c’è una guerra bisogna organizzarsi per vincerla
Massimo D’Alema
Dentro questo frame, che non contrasta in alcun modo ma conferma la logica della guerra impura, sta passando e si sta rafforzando proprio in queste ore, ora dopo ora, per voce di politici, showmen, giornalisti e vallette – fanti e caporali di un conflitto circolare condotto con molti, troppi mezzi – l'idea che la guerra sia l'unico modo per difenderci.
Dinanzi a scenari internazionali così complessi e interconnessi, crediamo davvero sia questa la risposta da dare?
Solo un secolo fa, nel giro di poche settimane, una delle nazioni più democratiche e civili venne psicotizzata a mezzo stampa e in un battibaleno l'opinione pubblica più pacifista d'Europa diede il via a un disatro globale di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. Il caos genera caos, se la ragione non si mette di mezzo.
Produttori di morte e produttori di hashtag
Non abbiamo il "chi", ma solo il "cosa" e il "come". Eppure, il "chi" diventa la nostra ossessione. Parliamo di Isis, ma non ne sappiamo molto, se non che è una strepitosa macchina di rivendicazioni ex post a cui i giornalisti europei danno incredibilmente e altrettanto straordinariamente credito.
L’operazione mediatica dell’Isis è sofisticatissima, certo. Utilizza una comunicazione che si riferisce a più target contemporaneamente, mandando quindi un messaggio diverso a pubblici diversi. Riesce a ottenere più finanziamenti, a far arruolare i giovani, a spaventare i nemici, a seminare il panico in Europa. Mirano a moltiplicare il loro ascendente attraverso fenomeni di risonanza mediatica.
L'Isis riesce a fare una serie di cose che, però, a conti fatti, conducono sempre al punto di partenza: allo schema ideologico della guerra di civiltà. I manipolatori puntano a questo. Puntano alla mobilitazione totale e permanente.
E noi? Noi produciamo pensiero, mobilitazione vitale e positiva, reazione o siamo fermi agli hasthag alle preghiere laiche e alle bandierine su facebook?
Stiamo speculando sul "chi" e perdiamo di vista che, in realtà, è una dimensione globale della guerra impura che va tenuta in considerazione e contrastata prima di ogni altra cosa. Il "chi", casomai, riguarda i nostri governi, amministrati sempre più da figure tragiche o grottesche. Le abbiamo sotto gli occhi, le responsabilità degli Hollande, degli Erdogan, dei Sarkozy, dei Tony Blair e via discorrendo, eppure… Eppure li assolviamo.
Il terrorista è intercambiabile, sostituibile – venga esso dal Belgio o dal Benin, poco importa – all'interno di una logica che così facendo continuerà a sfuggirci.
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