Non profit

Non profit, sì alla pace a patto che…

Parla il direttore generale di Confindustria. "Nessuna guerra al Terzo settore", parola di Stefano Parisi.

di Francesco Maggio

Il non profit, in questi anni, Stefano Parisi ha avuto modo di conoscerlo molto da vicino. E da osservatori privilegiati. È stato capo del dipartimento per gli Affari economici di Palazzo Chigi dal ?92 al ?97, in un frangente nel quale entravano in vigore due leggi fondamentali per la crescita del Terzo settore (la 266/91 sul volontariato e la 381/91 sulla cooperazione sociale) e il Governo, a sua volta, legiferava in tema di onlus con la cosidetta ?legge Zamagni? (d. lgs. 460/97). Ha condotto in prima persona, da city manager del Comune di Milano, la battaglia per l?assegnazione al capoluogo lombardo dell?Authority del non profit. Così, oggi che siede sulla poltrona di direttore generale di Confindustria, è profondamente convinto che, dopo la fase del pionierismo e della legittimazione, i tempi siano ormai maturi per un salto di qualità del settore. «A patto che», esordisce accogliendoci nel suo studio al settimo piano di viale Astronomia, «davvero esso voglia compiere la scelta del mercato e dell?efficienza». Vita: Perché questa condizionale? Stefano Parisi: Prima di risponderle, mi deve consentire una breve premessa. Vita: Prego… Parisi: Oggi il non profit svolge una funzione di grande rilevanza non solo sociale, ma anche economica nel nostro Paese, alla stessa stregua di quanto avviene in tutte le economie occidentali avanzate. La possibilità di dar vita ad attività produttive, come nel caso dei servizi alla persona, realizzate non nell?ottica del mero profitto, bensì finalizzate al benessere della collettività, rappresenta un?importante sfida per lo stesso mondo profit. Sono sempre più numerose, infatti, le aziende che scelgono di impegnarsi nel sociale e, d?altronde, già da tempo Confindustria si è incamminata lungo questa direzione, per esempio tramite Sodalitas di Assolombarda. Vita: Cos?è allora che non va? Parisi: Il punto è proprio questo. Dato il peso significativo che il privato sociale riveste nel Paese e, soprattutto, le enormi potenzialità di sviluppo che gli si prospettano, o il Terzo settore scioglie tutta una serie di nodi che sono giunti al pettine, oppure non riesce ad andare avanti. Vita: Quali sono questi nodi? Parisi: Ne citerò tre, per semplificare. Cominciamo dalla questione cooperative. Il nostro Paese ha una lunga tradizione in questo campo. Negli ultimi anni, però, i tratti autenticamente mutualistici del sistema cooperativo sono stati spesso sacrificati a vantaggio di finalità che con quelle originali hanno ben poco a che vedere. Perché allora queste realtà devono continuare a beneficiare di agevolazioni fiscali e contributive che finiscono con il ledere i principi della libera concorrenza? Secondo punto: attualmente, in Italia, la spesa per il welfare è per oltre il 75% destinata alla sanità e alle pensioni. Nel caso della previdenza poi, essa ammonta addirittura al 15% del Pil. La nostra struttura di welfare, in altri termini, è talmente ingessata da non lasciare spazio a politiche per la famiglia, per gli anziani, per i disabili, per la disoccupazione. Noi non abbiamo risorse per fare politiche sociali avanzate. Terzo nodo: le donazioni. Le agevolazioni concesse alle imprese che vogliono donare fondi a organizzazioni non lucrative sono semplicemente ridicole. Perché, per esempio, negli Stati Uniti le aziende possono dedurre tutto e da noi pressocché niente? Vita: Il non profit, allora, cosa dovrebbe fare? Parisi: Dovrebbe fare innanzitutto una scelta di campo limpida a favore del mercato. Condurre un?operazione chiara di screening, all?interno del mondo cooperativo, delle cooperative vere da quelle fittizie, del non profit vero da quello di convenienza. Dovrebbe poi portare avanti una battaglia convinta per la modernizzazione del Paese, la riforma della previdenza e la liberazione di risorse a vantaggio di politiche di welfare che vedrebbero poi lo stesso non profit protagonista. Infine, sulle donazioni, il Terzo settore dovrebbe far sentire alta la sua voce. Vita: E invece cosa succede? Parisi: Accade che, per esempio, molte cooperative sociali per lavorare preferiscono di gran lunga la via dei rapporti, non di rado ambigui, con la pubblica amministrazione piuttosto che confrontarsi sul mercato in un sistema di concorrenza. Oppure che il Terzo settore alzi le barricate pur di entrare a far parte del Cnel. Vita: Veramente sul Cnel è stata Confindustria che, assieme ai sindacati, ha presentato ricorso contro la semplice applicazione di una legge dello Stato, la 383/2000… Parisi: Sul Cnel bisogna intendersi. Si tratta di un organismo per far parte del quale bisogna rispettare determinate regole di rappresentanza. Un?azienda per essere iscritta a Confindustria paga una certa quota annuale e poi l?associazione deve dimostrare alla Camera di commercio di avere titolo di rappresentanza. Allora chiedo: che titoli di rappresentanza ha il non profit in tema di politica dei redditi? Cosa c?entra con i sistemi di contrattazione collettiva? Il vero problema del non profit non è, a mio avviso, quello di stare seduto al tavolo del Cnel, quanto piuttosto di definire chiaramente le linee di azione che intende seguire per contribuire a modernizzare e sburocratizzare il Paese, per rendere il sistema più competitivo. Vita: Non negherà però che proprio grazie alla costante opera di moral suasion del non profit, temi come la finanza etica, la responsabilità sociale d?impresa sono riusciti a farsi largo, seppur con molto ritardo rispetto ad altri Paesi, anche in Italia? Parisi: Non c?è dubbio che il Terzo settore abbia importanti meriti in proposito. Sono molto favorevole allo sviluppo della finanza etica, così come ritengo la responsabilità sociale d?impresa un fattore strategico di successo per le stesse. Anche su questo punto, però, vorrei essere chiaro. Posto che sono anni che conduciamo, da soli, è bene ribadirlo, una dura lotta per l?emersione del sommerso, che una buona parte delle imprese associate a Confindustria già redige il bilancio sociale, ci tengo a dire che la battaglia che conduciamo a favore di una flessibilità che consenta a tanti giovani di entrare finalmente nel mercato del lavoro è essa stessa una testimonianza di responsabilità sociale d?impresa. Noi, rispetto agli Stati Uniti che hanno un tasso di occupazione del 75%, abbiamo il 52. In questo Paese il 48% della popolazione attiva non lavora. Questo divario, poi, se parliamo di Mezzogiorno, si amplia a dismisura. Relegare le attività sociali esclusivamente a una nicchia che è quella dell?assistenza è sbagliato. L?attività sociale vera è quella di allargare la torta della ricchezza generale per fare in modo che il numero più alto possibile di persone possa averne una fetta. Un portatore di handicap che sta chiuso in un istituto muore. Un disabile che lavora è una risorsa. Il problema allora è come rendere le persone più attive, come mettere i giovani in condizione di giocarsi le loro chance professionali, di creare le condizioni affinché ci siano risorse sufficienti per portare avanti politiche occupazionali serie, evitare che le persone vadano in pensione a 55 anni. Il non profit, su questi temi, da che parte sta? Vita: Ma il Terzo settore ha cercato il dialogo con Confindustria? Parisi: In modo alquanto sporadico e difensivo. Prevale più la difesa delle prerogative esistenti che non la volontà di progettare insieme una società più equa e un Paese più moderno. Vita: Confindustria vorrebbe il dialogo? Parisi: Certamente sì. Di più, vorremmo il non profit alleato. Ma se il Terzo settore vuole sottrarsi all?esame del mercato, se preferisce, per esempio, incamminarsi su corsie preferenziali fatte di rapporti diretti con la pubblica amministrazione per poter poi magari ottenere in gestione commesse, a prescindere dalla qualità dei servizi erogati, allora non ci siamo.


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