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Guerra chiama guerra, così esplode la Palestina.

La guerra non è mai una soluzione, aumenta l'odio e la povertà

di Giuseppe Frangi

Se si voleva una dimostrazione che la guerra porta solo altra guerra, la drammatica escalation in Israele chiude ogni discussione: nonostante il suo ministro degli Esteri Simon Peres abbia cercato di mitigarne le parole, Ariel Sharon, dopo gli attentati dell?1 e 2 dicembre, ha parlato apertamente di guerra. Carneficine che s?aggiungono ad altre carneficine, un elenco di massacri che si allunga a dismisura. E poi, sullo sfondo, come ha acutamente sottolineato Sergio Romano, le alleanze che vacillano: il multilateralismo, risposta positiva alla tragedia delle Twin Towers, rischia infatti di andare in pezzi davanti al precipitare della situazione palestinese. La guerra, insomma, si prepara a divorare tutti gli spazi, già così ridotti, rimasti alla politica. E anche se domani si arrivasse al sospirato arresto di Bin Laden, la situazione non cambierebbe di molto. Cosa potrà mettere attorno a un tavolo Arafat e Ariel Sharon? Chi potrà spegnere le micce dell?odio e della reciproca intolleranza tra israeliani e palestinesi? La guerra, tra i tanti disastri, ha anche quello di corrompere i cuori, di piegarli alla sopraffazione dell?altro e del diverso. Il conflitto in Israele non è fatto solo di morti e di rappresaglie terrificanti, non sta solo nella cifra pur terrificante …di oltre mille morti, da quel 28 settembre 2000 in cui Ariel Sharon, allora leader del Likud, visitò provocatoriamente la spianata del Tempio dando il via alla seconda Intifada (dei mille morti, 800 sono palestinesi e oltre 200 sono israeliani). No, la guerra sta anche in altre cifre, destinate a lasciare, nella migliore delle ipotesi, una lunga scia di dolore e di altre tragedie: 60 per cento di disoccupazione tra la popolazione attiva dei territori palestinesi, 1 milione di dollari persi nel 2001 da quella fragile economia a causa dei posti di blocco israeliani che impediscono commerci e transazioni. Dall?altra parte, 9,3 per cento di disoccupazione, livello record dal 1993, 50mila posti persi nel settore turistico, un disastro economico che gonfia le fila dello Shass e degli altri partiti ultraortodossi.
I fondamentalismi fomentano le guerre, e alla fine se ne nutrono per rafforzare il proprio potere di ricatto. Questo sta accadendo in Palestina. L?Arafat che il 18 luglio 2000 rifiutò l?accordo con Barak, era un Arafat vittima di un complesso fondamentalista. L?allora ministro degli esteri di Barak, Shlomo Ben-Ami, in un libro appena uscito, racconta che Arafat fu vittima di una ?teologizzazione della politica?: «Alzò il processo di pace ad altezze mitologiche, a delle altezze islamiche da cui non poteva più scendere».
E il fondamentalismo intransigente è il cuore della politica di Sharon. Come dice un intellettuale ebreo e certamente non filo palestinese quale Alain Finkielkraut, lasciare che i coloni sempre più spavaldamente sfreccino a 100 chilometri all?ora sulle strade dove, invece, i palestinesi passano interminabili ore ai posti di blocco, è un modo cinico di incendiare gli animi. Si chiede Finkielkraut: «Chi non ha voluto che gli accordi di pace di Oslo si traducessero immediatamente in pratica di vita quotidiana?».
Atteggiamenti che tolgono spazio alla politica e lasciano la forza come unico strumento per arrivare a una soluzione. Ma la logica della forza, giorno dopo giorno, si trasforma in violenza sempre più cieca, in guerra. E vede, come unico sbocco, l?eliminazione dell?avversario.
Non siamo solo noi ad avere questa irriducibile convinzione che la pace sia la via più ragionevole per risolvere ogni tipo di violenza e per dissipare anche le più terribili minacce. Domenica 2 dicembre, sulle pagine del Corriere della Sera, Paolo Conti, inviato tra i soldati italiani che fanno parte della forza di stabilizzazione della Nato a Sarajevo, ha raccolto, tra le tante bellissime testimonianze, anche questa del maresciallo capo Giuseppe Morvillo, 40 anni di cui 22 di servizio: «Ormai conosco bene questa terra, eppure non riesco a capire fino in fondo come e perché scoppiò quel conflitto. La guerra? Qui c?è la prova che non è mai una soluzione. Aumenta l?odio, poi la povertà, provoca distruzione dei mezzi di produzione e quindi del lavoro».
Grazie, maresciallo, per questa semplice lezione di pace.

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