Salute

8120 matti sorridono

Tanti sono gli ammalati affidati alle 602 cooperative sociali. Solo cinque anni fa gli assistiti erano 4170 e le strutture 279. immobilismo delle istituzioni.

di Cristina Giudici

Non ci sono più in Lazio, Sardegna ed Emilia Romagna. Ma i manicomi, nodo antico di una politica istituzionale incoerente e grottesca, resistono. Sono 34, secondo i dati forniti al Parlamento dal sottosegretario alla Sanità, Antonino Mangiacavallo, e ospitano ufficialmente circa 5080 pazienti. Ma i dati non rivelano gli inghippi e le bugie di alcune Regioni, giusto per non incappare nella penalizzazione prevista l’anno scorso dal ministero della Sanità, (il 2% di trattenuta del trasferimento alle Regioni del Fondo nazionale). Perciò il comitato permanente di psichiatria della commissione Affari sociali della Camera, che nel suo ultimo monitoraggio ha rilevato troppe false chiusure, ad autunno chiederà al governo di nominare dei commissari ad acta: per costringere così le Regioni alla riforma degli ospedali psichiatrici.
Intanto, però, a fianco dei residui manicomiali che non vogliono chiudere, le Regioni che non pagano le multe o non forniscono dati corretti, si è aperto un varco tracciato dalle cooperative sociali. Nel giro di due anni le cooperative sociali che operano nel campo dell’assistenza e della riabilitazione psichiatrica si sono moltiplicate. E in tutt’Italia nel 1999, sono state ben 602 le imprese non profit che hanno seguito 8120 pazienti psichiatrici, dando a molti tra loro una chance lavorativa.
A Bergamo, per esempio, cinque cooperative del consorzio Solco hanno gestito la fase della riconversione del manicomio della città che chiuderà i battenti a fine settembre. «Ci siamo organizzati seguendo le linee guida del ministero della Sanità, e cioè organizzando comunità di bassa, media e alta protezione, a seconda della gravità delle patologie», spiega Roberto Riva, coordinatore del progetto psichiatrico del Solco di Bergamo. «Ogni comunità non ha più di dieci ospiti e, oltre alle figure tradizionali dello psichiatria e degli infermieri professionali, abbiamo inserito anche numerosi educatori e volontari. In questo modo creiamo un contesto pseudo-familiare e favoriamo la loro integrazione nel quartiere. Ovviamente il nostro approccio è soprattutto pedagogico. Nelle comunità gestite dalle nostre cooperative ci sono giovani volontari e tirocinanti di vent’anni. Poi, oltre alla cura, sono attive anche una serie di attività culturali, come il cineforum o i viaggi estivi, che aiutano soprattutto chi non è grave a convivere con i propri disturbi. E contemporaneamente i cittadini capiscono che, dietro alla malattia mentale non c’è un buco nero, ma persone con volti e nomi».
Ma la novità del panorama psichiatria ’99/2000 riguarda anche il grado di professionalità raggiunto negli ultimi mesi dalle cooperative sociali. Mentre nei cosiddetti “residui manicomiali” resistono, arroccati, dottori e infermieri che difendono posti di lavoro, uso spropositato degli psicofarmaci e dell’isolamento dei pazienti, dal marzo dell’anno scorso, (ultima termine per la chiusura degli Op), centinaia di imprese non profit si sono organizzate, attraverso corsi di formazione e stage con psichiatri, per essere all’altezza della sfida e dribblare in questo modo i ritardi epocali in cui annaspano le istituzioni.
A Matera, dove da sempre l’alternativa è stata “il manicomio o il nulla”, il professor Rocco Canosa direttore di una Asl del dipartimento di salute mentale, ha già aiutato varie cooperative a nascere. «Si occuperanno della riabilitazione di alcuni pazienti psichiatrici attraverso l’inserimento lavorativo: la gestione di parchi e parcheggi oppure la ristorazione e la coltivazione biologica all’interno di un’oasi del Wwf, sulle sponde del lago di san Giuliano. Ma non finisce qui: la cooperativa Prust fonderà laboratori artigianali e formerà guide turistiche per gli antichi quartieri di tufo di Matera, i Sassi. «Continuiamo a convivere con la tipica anomalia italiana», afferma il professor Canosa, «da una parte ci sono i grandi manicomi di Bisceglie e Guidonia, i 18 ospedali psichiatrici del Nord che hanno solo cambiato nome ma continuano ad essere roccaforti di interessi, poteri e redditi. Dall’altra ci sono progetti avanzatissimi, che con pochi mezzi portano avanti l’intera riforma».
Allora il destino della chiusura dei manicomi è nella mani del non profit? «Si tratta di un trend in continua crescita», ammette Massimo Cozza, psichiatra e coordinatore della Consulta nazionale per la salute mentale. «Le cooperative sociali hanno fatto notevoli progressi nel campo dell’assistenza, portando fuori dagli ospedali il disagio psichico. Ora, però, devono prepararsi ad affrontare la fase riabilitativa. Negli anni scorsi, molte cooperative si sono lanciate sul mercato fornendo servizi a disabili e down, ma non hanno capito che il disagio psichico richiede nuove modalità operative. Soprattutto quando vi è una ricaduta da parte dei loro utenti che lavorano e producono, ma poi stanno anche molto male e sono preda di crisi acute»
Molti hanno capito la lezione, soprattutto nelle aziende ospedaliere che sono riuscite a costruire servizi psichiatrici alternativi ai manicomi. Come l’unità operativa psichiatria 25 di Mantova, dove Franca Bacchi, assistente sociale e Paolo Tortella, consulente dell’azienda sanitaria locale, hanno creato una banca dati per trovare lavoro ai pazienti psichiatrici nelle piccole aziende della zona, dimostrando ancora una volta che la società, anche quella profit, è sempre più avanti di quella politica. «Lavorare nel campo della salute mentale è come percorrere un fiume dove a volte c’è bisogno di sponde di protezione, senza mai perdere di vista però l’obiettivo finale: arrivare in mare aperto», dice Rodolfo Giorgetti che ha fondato un sistema di cooperative nel Friuli (con 1300 soci, fatturato 30 miliardi) per coniugare disagio psichico e imprenditorialità.
Un esempio? Le locande “buonedamatti” rilevate, ristrutturate e riaperte da ex pazienti del manicomio. «La psichiatria innovativa oggi viene messa in pratica dalle cooperative sociali», afferma Giorgetti. «Non a caso la finanziaria di quest’anno ha approvato uno stanziamento di 100 miliardi destinati all’imprenditorialità giovanile per finanziare anche cooperative di tipo B. Anche per questo si è stabilita una collaborazione molto proficua fra i centri diurni ospedalieri (previsti dalla riforma, ndr) e le cooperative. La presa in carico di un matto non vuol dire solo offrirgli assistenza, ma anche sapere come si trova in famiglia, quando torna a casa. Significa saper percepire i segnali di un peggioramento e aiutare i parenti a capire la sua malattia. Un processo possibile solo se c’è una rete fra infermieri, operatori, volontari, il quartiere e la città. I manicomi non basta chiuderli, bisogna anche saper sostituirli. Perciò, il prossimo passo da compiere è protocollare il rapporto fra enti pubblici e non profit, fra operatori e volontari. Solo in questo modo le sponde si abbassano, i matti vanno in mare aperto e noi vinceremo finalmente una fondamentale battaglia di civiltà».

I manicomi e il gioco delle tre carte

Le false chiusure dei manicomi. Le multe che le Regioni continuano a non pagare. Il nuovo progetto “Obiettivo salute mentale” che verrà votato dal Consiglio dei ministri in ottobre. Questi i nodi irrisolti su cui Giuseppe Lumia, deputato dell’Ulivo e membro del comitato permanente per la psichiatria, annuncia la guerra d’autunno. Parola d’ordine: chiedere al governo la dismissione di tutti gli ospedali psichiatrici.
Allora onorevole, qual sarà la prossima mossa?
Non dare tregua al governo. Fare nuovi monitoraggi in tutti gli ospedali e in tutte le Regioni, e chiedere che quelle inadempienti vengano multate.
Ma cos’è che non ha funzionato fino ad oggi?
Ci sono tre questioni sul tappeto: la verifica della qualità dei nuovi servizi di psichiatria perché credo che il processo di dismissione proceda, anche se molto lentamente. Poi bisogna costruire una banca dati per capire dove sono andati a finire i ventimila degenti che erano nei manicomi e infine svelare il sistema delle false etichette, punendo i responsabili.
Cosa vuol dire?
In molte Regioni gli ospedali psichiatrici si sono trasformati in case di riposo private o in comunità che di nuovo hanno solo un più ridotto numero dei pazienti. Si riciclano, diventando tanti piccoli manicomi.
E allora che fare?
Dobbiamo riuscire a trovare un meccanismo per responsabilizzare le Regioni che riescono a non pagare la penalità del 2% perché a loro volta fanno pressione attraverso la Conferenza Stato Regioni su altri temi legati alla sanità.
Parla di lobbies?
Negli ex Op ci sono in gioco interessi enormi, posti di lavoro oltre alle secolari tradizioni di segregazione dei malati mentali, mentre fuori ci sono già migliaia di servizi psichiatrici di ottima qualità. Si tratta di una situazione che non è ancora omogenea, per questo motivo bisogna investire di più nei dipartimenti di salute mentale e nelle cooperative sociali.
Quali sono le vie d’uscita?
In autunno si voterà il nuovo progetto Obiettivo salute mentale che fornisce le indicazioni guida per i servizi psichiatrici e alza la soglia della spesa delle Regioni per la salute mentale al 5%. Poi interverremo in sede finanziaria per obbligare il governo a impegni veri. E se le Regioni non forniranno dati esatti sulle chiusure, chiederemo al governo la nomina di un commissario straordinario che intervenga con decisione. Non accettiamo più situazioni come quella del Veneto, dove da un giorno all’altro la Regione ha miracolato migliaia di pazienti. Dicono di me che sia un castigamatti? Quest’anno ne vedremo delle belle. Costi quel che costi.

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