Famiglia

8 marzo: Anilda, giornalista rifugiata

Anilda Ibrahimi è una giornalista. Nel suo paese, l'Albania, la sua professione ha voluto dire l'esilio. Da cinque anni in Italia, Anilda, trentenne, e' una rifugiata.

di Redazione

Anilda Ibrahimi è una giornalista. Nel suo paese, l’Albania, la sua professione ha voluto dire l’esilio. Da cinque anni in Italia, Anilda, trentenne, e’ una rifugiata. ”Ma io ce l’ho fatta” dice per sottolineare che ”i rifugiati non sono sempre persone disperate che elemosinano i pasti. Ma gente costretta a lasciare il proprio paese, che vuole però ricominciare una vita e si impegna per questo”. Anilda sì, ce l’ha fatta: ”io sono ben integrata in Italia. Ho un lavoro e tanti amici, ho pubblicato libri di poesie. Insomma, la mia è una vita normale”. Costretta alla fuga da Tirana quando lavorava al quotidiano nazionale ‘Il nostro tempo’, perseguitata dal regime di Berisha, Anilda – una laurea in lettere e un master in comunicazione – e’ giunta in Italia insieme a sua figlia di due anni nel marzo ’97. Ha chiesto ed ottenuto il riconoscimento di rifugiata. Ora, dopo un periodo di attività nella comunicazione sociale, si occupa di altre donne, quelle che come lei sono fuggite da luoghi che rendevano la vita difficile ed impossibile. Una realtà nella realtà, quella delle donne rifugiate, che conta 24 milioni di persone (la maggior parte sono donne e bambini) in fuga da guerre, torture e persecuzioni. Le donne, e con esse i bambini, sono le più vulnerabili, vittime due volte. E’ a queste che va il pensiero di Anilda, una che ce l~ha fatta, per l~8 marzo. Lei lavora a Roma al Centro italiano per i rifugiati (Cir), una ong che realizza progetti di intervento e sostegno. I rifugiati in Italia sono 23 mila. Anilda si occupa del primo contatto con il pubblico: le prime informazioni alle donne per un’indicazione pratica, un’assistenza sociale o legale. ”Mi piace molto questo lavoro – afferma – perche’ mi appaga l’idea di dare voce a chi è stato costretto a fuggire, che per questo e’ debole e che oltre al trauma dell’esilio vive umiliazioni e problemi di integrazione”. Fra i rifugiati le donne sono quelle che ”hanno il peso maggiore, hanno un confronto quotidiano con i servizi per via dei figli, dalla scuola alla struttura sanitaria”. La festa della donna, percio’, che significato può avere? ”Non serve un giorno l’anno per riconoscere i diritti. La battaglia delle donne rifugiate e’ un fatto quotidiano e costante. Ma va bene se e’ un’occasione per sensibilizzare”. E i problemi pratici per i rifugiati, anche qui da noi, sono tanti: a cominciare dal fatto – ricorda – che l’Italia e’ l’ unico paese europeo a non avere ancora una legge sull’asilo politico e che ”il ddl Bossi-Fini non aiutera’ i rifugiati perche’ non rispetta i diritti umani e pone grossi limiti all’integrazione”. Fra le tante donne rifugiate, il Cir ha dato un volto ad alcune di esse raccontandone la storia. Josephine, ad esempio, ventottenne congolese. Vedova con quattro figli, durante la presidenza di Kabila, fu portata in un posto di polizia e rinchiusa in una cella senza finestre. Per tutto il tempo che restò lì venne violentata e torturata dai suoi carcerieri che minacciavano di ucciderle i figli. I militari volevano sapere dov’era suo zio, un esponente del partito di Mobuto e ritenevano che lei lo sapesse. Gli interrogatori per la donna proseguirono incessantemente, senza possibilità di dormire o lavarsi. Riusci’ a lasciare la prigione solo dopo che un amico dello zio corruppe le guardie, fu accolta insieme ai figli in una missione cattolica, si procuro’ documenti falsi e lasciò il Congo per l’Italia dove chiese asilo. Oggi Josephine e i suoi figli sono stati riconosciuti rifugiati. Oppure Magda, una giovane vedova dell~Eritrea, fuggita dal suo paese per salvare la figlia, Rim, dalla mutilazione genitale, una tortura che lei aveva dovuto subire in tenera età e che riguarda nel mondo 130 milioni fra donne e bambine. Le donne anziane del villaggio giorno dopo giorno insistevano perche’ Rim facesse ‘l’intervento’. Magda non poteva immaginare quella scena. Risentiva nella mente le nenie tradizionali che di li’ a poco sarebbero state coperte dalle urla strazianti della sua bambina. Le avrebbero tenuto aperte le gambe e con un coccio di vetro o una lametta da barba le avrebbero ”inciso l’anima” per sempre. Di fronte all’insistenze delle anziane, Magda decise di vendere tutto quello che aveva, compro’ un passaporto e fuggì in Italia con la figlia, il cui nome significa liberta’. A sostegno delle donne rifugiate vittime di violenza, il Cir ha in corso un progetto (”Marika”) che realizza insieme a partner nazionali e internazionali. Fornisce assistenza legale, psicologica o sociale. Nel 2001, ha trattato 40 casi di donne vittime di ogni sorta di violenza e provenienti principalmente dall’Africa. Tutte hanno richiesto asilo in Italia e molte hanno ottenuto lo status di rifugiate.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA