Tante sono in Italia le persone colpite. Una diagnosi ogni quattro ore. Due su tre donne. Molti gli under 30. Per loro la sclerosi è sempre più una sfida. Quella di rendere possibile una buona vita. Senza rinunciare a nulla. Comprese imprese che sembrano impossibili
Diceva don Abbondio che il coraggio, uno, non se lo può dare. Sull’altro ramo del lago di Como, quasi due secoli dopo Manzoni, si dice esattamente il contrario. Siamo alla sede comasca dell’Aism, l’Associazione italiana sclerosi multipla. La presidente nazionale, Roberta Amadeo, è di qua. Con lei ci sono altri quattro soci, con diagnosi più o meno recenti. Uno solo è un uomo, Agostino: non è un caso, visto che sui 58mila malati italiani, una diagnosi ogni quattro ore, due su tre sono donne. Una sola è in carrozzina, Roberta: non è la più anziana, però è quella con la diagnosi più lontana nel tempo. Oggi la tempestività della diagnosi e le nuove cure a base di interferone riescono a tenere molto a bada il progredire della malattia, così che – spiega lei – «l’immagine più rappresentativa di una persona con SM oggi non sono io ma Stella, che ha 34 anni e la sclerosi multipla da 13, eppure non ha bisogno nemmeno di una stampella». Primo mito da sfatare.
Quale coraggio
Il secondo è quello di una persona disperata: vuoi la qualità della vita che le nuove terapie riescono a regalare, vuoi le prospettive legate alla ricerca, vuoi il fatto che una malattia che ti colpisce tra i 20 e i 30 anni (il 40% dei malati italiani è under 30), con una vita intera davanti, ti preclude la possibilità di arrenderti, il fatto è che le persone con sclerosi multipla oggi sono sempre più reattive, combattive, coraggiose. Prendono in mano la loro vita. Che vuol dire attraversare il deserto o fare il giro del mondo, certo, «ma soprattutto», continua Roberta, «io leggo la stessa determinazione nel vivere la quotidianità, in chi si alza la mattina, si sente più stanco del solito e invece di chiamare il medico e farsi fare un certificato, va al lavoro; in chi fa l’università, magari mettendoci un anno in più; nei giovani che cercano un lavoro coerente con gli studi che hanno fatto, che non si vogliono accontentare; in chi il lavoro se lo inventa, si mette in proprio e cerca di sfondare; nelle tante donne che affrontano una gravidanza».
Lo dice bene Maria Teresa, per tutti Titti, tre figli, 46 anni e cinque di diagnosi: «Se possono vivere la mia vita a 60, perché devo accontentarmi di 50? Perché gli altri si aspettano da me che io viva da malata? No, grazie».
Oltre la diagnosi
La mazzata tra capo e collo certo c’è. Quella diagnosi che sempre più spesso arriva prestissimo, quando tutto è ancora in nuce, tutto è ancora sogni, progetti e aspettative. «Di SM avevo sentito parlare solo in uno spot tv, c’era una persona dentro un masso, usciva solo la testa, e una voce fuori campo diceva “La sclerosi multipla ti ferma, fermiamo la sclerosi multipla”, ero terrorizzata», ricorda Titti. Rosy, che oggi ha 52 anni, per anni e anni la sua diagnosi non l’ha confessata a nessuno, né alla figlia, che allora aveva solo 8 anni, né sul lavoro: «Avevo paura del pietismo della gente, ci ho messo un sacco di tempo ad accettare di muovermi con la stampella, l’ho fatto solo quando ho capito che era il mezzo che mi consentiva di liberare energie per lavorare ai miei veri obiettivi».
La rabbia, la paura, la solitudine, la mancanza di interesse per alcunché, il vivere alla giornata. Ci sono passati tutti. Quel che ti fa cambiare, a un certo punto, «è la voglia di riprenderti ciò che è tuo», dice Rosy. O il fatto «che ti accorgi che ti stai rovinando la vita da solo, anche se la malattia non l’ha ancora fatto», ribadisce Titti. Determinante, in questo senso, pare sia avere uno “shock al contrario”: cioè incontrare un malato di SM che è attivo, positivo, vitale. Vedere persone che combattono e che ce la fanno. È per questo che loro cinque sono qua, oggi. «E anche per questo oggi Aism non chiede tanto alle persone “cosa possiamo fare per te?”, ma “cosa tu puoi fare per Aism, per gli altri, per te stesso?”. È un approccio completamente diverso, che però sta dando grandi risultati», conclude Roberta.
Chi se lo fila un disabile?
Nel 1992, al momento della diagnosi, Agostino aveva 36 anni, faceva l’agente di commercio (ha continuato a farlo fino al 2005) e aveva un figlio di appena 2 anni. La moglie lo ha lasciato dopo poco. «È stato un colpo durissimo, mi sono sentito indesiderabile», dice. Dal 2004 Agostino ha una nuova compagna, con cui convive. Anche il rapporto con il figlio è stato recuperato alla grande, dopo gli anni in cui lui gli teneva il broncio «perché papà non giocava mai al pallone con lui» e quelli in cui – come tutti, su questo il parere dei tre genitori presenti è unanime – i figli vogliono essere serviti in tutto e per tutto, come ogni adolescente. Un tema caldo, quello dei figli, su cui Aism ha un progetto ad hoc, mirato per fasce d’età: si va dalla comunicazione della diagnosi a una vacanza genitori-figli.
Anche Stella aveva un fidanzato, al momento della diagnosi. «Avevo 22 anni, la prima cosa che gli ho detto è stata “trovatene un’altra”. Lui invece è stato straordinario. Poi ci siamo lasciati, perché avevamo idee diverse». Stella oggi ha 34 anni: la diagnosi le è stata fatta nel 1997, si è licenziata e ha trovato un lavoro meno faticoso dal punto di vista fisico, oggi fa l’impiegata part time. Da due anni convive con il suo nuovo compagno e le piacerebbe avere un figlio. «Io mi sento coraggiosa: ad alzarmi e andare a lavorare, ad essere andata via di casa, a salire su un palco a parlare di Aism, io che sono una da retrofila. E questo coraggio me l’ha dato la malattia, il desiderio di far conoscere la nostra realtà, di dare speranza e di dire quanto serva investire sulla ricerca».
Il futuro e la ricerca
Già, la ricerca. Ci sperano tutti. Qualcuno non per sé, perché «so benissimo che nulla mi farà tornare a correre», ma tutti per i più giovani, «la speranza è di bloccare la malattia subito dopo la diagnosi». Anche per la loro quotidianità, per affrontare la vita con coraggio, «conta molto sapere che c’è qualcuno che sta dedicando tutta la sua vita per me, per la mia malattia». In fondo le terapie a base di interferone, che sono riuscite a rallentare la sintomatologia e hanno cambiato così tanto la qualità della vita, vengono da lì. E solo 15 anni fa non c’erano. Certo qui non c’è nessun facile entusiasmo, tutti ci vanno con i piedi di piombo e temono un po’ “l’effetto Di Bella”. Però tutti saranno in piazza, ai banchetti di Aism, a raccogliere fondi. Ci mettono la faccia. Per un mondo libero dalla sclerosi multipla.
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