Formazione

54esima Giornata mondiale dei malati di lebbra

Si celebra ogni domenica di fine gennaio: VITA ha intervistato Sunil Deepak, responsabile dell’ufficio scientifico di AIFO, in prima linea nella lotta alla malattia. Di Francesca Lancini

di Redazione

«Ho iniziato a occuparmi dei malati di lebbra in India, quando studiavo medicina. Queste persone mi vivevano accanto. Una mia vicina di casa e una nostra inserviente dovevano nascondersi per evitare lo stigma sociale e il rischio di essere segregate». A parlare, in occasione della 54esima Giornata mondiale dei malati di lebbra, che si celebra ogni domenica di fine gennaio, è Sunil Deepak, responsabile dell?ufficio scientifico dell?associazione italiana AIFO, in prima linea nella lotta alla malattia. Deepak, originario di Lucknow, capitale dell?Uttar Pradesh, nel nord-dest indiano, lavora con AIFO da circa venti anni. In questo periodo, i progressi per sconfiggere il morbo di Hansen, così chiamato dal nome del suo scopritore, sono stati notevoli: la lebbra si può guarire, ma continua a colpire centinaia di migliaia di persone nel mondo, soprattutto i più poveri fra i poveri. Secondo gli ultimi dati dell?Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 2005 sono stati registrati circa 300mila nuovi casi. «Come la malattia del sonno, la filariasi o la leishmaniosi, la lebbra resta una malattia dimenticata delle fasce più vulnerabili, che spesso vivono in condizioni di miseria e d?igiene insufficiente», accusa il medico. «Le industrie farmaceutiche e gli enti di ricerca non stanziano fondi e non se ne occupano come dovrebbero». Secondo Deepak servono test per diagnosticarla prima che appaiano i sintomi, ovvero durante un periodo d?incubazione lunghissimo che può durare da cinque a dieci anni e in cui la persona malata può essere già contagiosa. Ma è necessaria anche una cura più breve, oltre che efficace. La polichemioterapia, una combinazione di farmaci scoperta nell?82 e usata in modo uniforme dal ?91, deve essere somministrata per almeno dodici mesi: una vera impresa in zone remote o martoriate dalla guerra. «Qui – continua Deepak ? c?è bisogno di personale medico e paramedico. In Africa, per esempio, la situazione è resa più drammatica dall?Aids, che ha ucciso un?intera generazione di forza lavoro». I servizi sanitari scarsi e inaccessibili, tuttavia, non sono l?unica causa della continua diffusione della malattia. Ci sono anche barriere invisibili che costringono gli infetti a nascondersi e a non farsi curare. «Nel sud del mondo i pregiudizi verso la lebbra, vista fin dai tempi antichi come una maledizione, sono ancora fortissimi», ci spiega l?operatore di AIFO. «I malati spesso perdono il lavoro, sono cacciati da casa e da scuola, non possono sposarsi o sono lasciati dal partner». «Abbiamo paura della lebbra, perché fa pensare alla morte», ha detto il missionario del Pime in India Carlo Torriani. Parole dure per descrivere un morbo che progressivamente provoca insensibilità, danneggia i tessuti, determina mutilazioni e danni permanenti a pelle, nervi, arti e occhi. Oggi circa 14 milioni di persone, anche se guarite, subiscono le conseguenze fisiche e sociali della malattia. Non bisogna, tuttavia, dimenticare ? come riporta l?OMS – i buoni risultati raggiunti negli ultimi quattro anni, quando il numero di nuovi casi è diminuito in media del 20%, con un picco del 27% nel 2005. «Ciò è merito soprattutto delle associazioni e solo in parte dei governi, i quali si sono impegnati a debellare la lebbra solo negli ultimi dieci anni», spiega Deepak. Oggi il 60% dei nuovi malati si trovano in India, mentre al secondo posto di questa triste classifica compare il Brasile con 39mila nuovi casi. Altri paesi dove la malattia continua a provocare molti nuovi malati sono Indonesia, Bangladesh, Nepal, Mozambico, Madagascar, Repubblica democratica del Congo, Nigeria, Angola, Etiopia, ecc. Nel 2005, 109 paesi del mondo hanno denunciato nuovi casi di lebbra, molti di loro continuano ad avere un numero esiguo ma costante di malati, per esempio in America: Argentina (348), Bolivia (114),Cuba (208), Ecuador (116), Colombia (585 infetti) e Stati Uniti (166). E l?Italia? Qui i lebbrosari non esistono più, ma ci sono quattro strutture ospedaliere per la cura, con centri residenziali per la riabilitazione, a Genova, Cagliari, Messina e Gioia del Colle. I nuovi malati sono meno di dieci all?anno e fra loro non troviamo autoctoni, ma immigrati e persone che hanno vissuto a lungo all?estero. Oggi la tendenza di chiudere i lebbrosari, vere e proprie colonie di emarginati, per sostituirli con strutture più adeguate si sta diffondendo anche nei Paesi poveri. Ne è esempio la comunità di «Santa Marcellina» di Suor Maura Lacerda, nello Stato brasiliano di Rondonia: «Undici anni fa trovai una colonia di malati abbandonati a se stessi. Adesso, invece, siamo una comunità di 150 persone con un ospedale per la cura della lebbra e di altre malattie, una scuola, un asilo, una capannone per lavorare». Suor Maura partecipa all?iniziativa «testimoni di solidarietà» dell?AIFO, che in questi giorni sono venuti dal Brasile per tenere incontri di sensibilizzazione sulla lebbra. E per chi vuol fare un?offerta, oggi domenica 28 gennaio in molte piazze italiane ci sono i banchetti AIFO col miele di piccoli produttori di Croazia e Zambia, confezionato in sacchetti di iuta da ex malati di lebbra di Bangalore.


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