Cultura

4 clandestini morti in un container a Livorno

Ancora quattro clandestini trovati morti un container nel porto di Livorno. A commento un articolo di Lanfranco Caminiti dedicato a tutte le morti invisibili, in Afghanistan o a Roma

di Lanfranco Caminiti

Livorno. ore 17,30. Quattro clandestini, sembra di origine rumena, trovati morti all’interno di un container nel porto di Livorno. Il container, sembra dovesse essere per una nave diretta in Canada. Lanfranco Caminiti stamane ci ha inviato un articolo dedicato a tutte le morte invisibili, a tutte le vite perdute Johnny Micheal “Mike” Spann era uno dei due o tre americani presenti nella fortezza di Qala-i-Jihangi che funzionava da carcere a Mazar-i-Sharif, nel nord dell’Afghanistan, per tenerci i talebani che si erano arresi dopo il lungo bombardamento aereo della città e l’assedio dei mujaheddin e un’evidente impossibile resistenza. Di un altro americano, “Dave”, non abbiamo notizie precise: sembra sicuro ci fosse, non si sa a che titolo, non sembra ci fosse. Il terzo era John Walker, un estroso giovane californiano colto da misticismo che aveva abbandonato una certa agiatezza per raggiungere l’Afghanistan: lui è sopravvissuto a quell’inferno. Il compito di Mike Spann era interrogare i prigionieri – a questo era stato evidentemente addestrato – per raccogliere informazioni militari sulla situazione della zona ma anche probabilmente per avere indicazioni rispetto i due ricercati numero uno: Osama bin Laden e il mullah Omar. Da quanto finora si è potuto capire rispetto gli eventi di Qala-i-Jihangi, un gruppo di talebani si è improvvisamente ribellato, ha sopraffatto dei guardiani e ha riconquistato la fortezza. Che cosa abbia spinto alla disperata rivolta quegli uomini non è ancora chiaro, ma sembra che temessero per la loro sorte, poco fidandosi di coloro che li avevano conquistati: le notizie di precedenti stragi di prigionieri inermi già circolavano. Non è neppure chiaro se la presenza di Mike Spann e dell’altro militare americano fosse un elemento di preoccupazione in più o un minimo di garanzia: di certo, contro Mike si sono scagliati per primi. La riconquistata libertà è comunque durata poco: i bombardieri americani sono arrivati subito e hanno raso al suolo il carcere: una ottantina di prigionieri sono sopravvissuti infilandosi nei punti più sotterranei del luogo. Johnny Micheal “Mike” Spann era il marito di Shannon Spann, e il figlio di Johnny e Gail Spann di Winfield, Alabama, una cittadina di 4.500 abitanti. Lascia un figlio di appena sei mesi, Jacob, avuto dalla seconda moglie, e due figlie, Alison, and Emily, di 4 anni, nate dal primo matrimonio. Mike Spann aveva 32 anni. Era entrato nella Cia nel giugno del 1999, provenendo dal Corpo dei Marines. La cerimonia religiosa di addio si è svolta nella chiesetta di Winfield che Mike frequentava da ragazzo. Uno dei suoi insegnanti, Mildred McGuire, ha ricordato come il piccolo Mike “volesse sapere ogni cosa riguardo Dio”. Il suo allenatore della squadra di football del college, Joe Hubbert, ha detto che Mike già allora aveva ben chiaro il proprio futuro: la laurea in diritto alla Auburn University, il servizio nel Corpo dei Marines e poi una carriera nell’Fbi o nella Cia. Il Corpo dei Marines ha mandato una rappresentanza militare, guidata dal suo capitano a Camp Lejeune, Nord Carolina, che ha fatto gli onori presentando la bandiera. La congregazione riunita nella chiesetta ha cantato gli inni amati da Mike: “To Canaan’s Land” and “I’ll Fly Away”. Qualcuno ha ricordato come il suo film preferito fosse “Top Gun”. Sarà sepolto con tutti gli onori nel Cimitero nazionale di Arlington. Di lui, George Tenet, direttore della Cia, ha detto che sarà ricordato come un “American hero”. Nei giorni successivi all’eccidio di Qala-i-Jihangi, la Croce rossa internazionale ha potuto raccogliere i corpi dei prigionieri, sembra fossero più di seicento. Moltissimi avevano le mani legate dietro la schiena, molti erano stati mutilati, a tutti erano stati sottratti i fucili, ovviamente, poi gli orologi o altri oggetti personali, tra cui le scarpe [quest’ultimo sembra proprio il gesto ricorrente di tutte le guerre dell’umanità]. L’assenza di documenti personali rende improba qualsiasi identificazione, ammesso poi che questo interessi qualcuno. In genere, i corpi vengono infilati in grandi buste di plastica bianca che sono chiuse con del nastro adesivo largo, quello da pacchi, e segnate con un numero. I corpi vengono poi portati in spiazzi appositamente adibiti e interrati in una fossa comune: anche volendo – ma non sembra che questa sia una preoccupazione significativa del momento in Afghanistan -, non c’è attualmente una qualunque idea di cimitero e persino quelli esistenti sono stati sventrati dalle bombe americane. Durante la ricomposizione dei corpi di Qala-i-Jihangi e il loro trasloco verso la fossa comune, una delle grandi buste di plastica bianca, la numero 63, si è aperta e – sembra incredibile – uno degli addetti a questo improbo lavoro di inumazione ha riconosciuto il morto. Un?orribile cicatrice, ricordo dei combattimenti contro i sovietici, ha consentito l’inusuale riconoscimento: essa attraversava il viso che, benché tumefatto e impastato di fango, lasciava proprio in evidenza quel segno. Non è che fossero proprio amici né tanto meno parenti, ma qualche notizia si è riuscita a raccogliere dalle sue parole. Il suo nome era Naqib Fahim e aveva circa trent’anni: era di etnia pashtun, sposato con tre mogli. Sembra avesse più figli ma il suo amico si ricordava solo di una bimbetta, Guljana, che lo voleva seguire dappertutto. Naqib era il quarto fratello di una famiglia povera: forse per questo era stato spinto a frequentare una madrassa, una scuola coranica, a Qetta, dove almeno gli era garantita una ciotola di cibo. Aveva, come si è detto, combattuto giovanissimo contro i sovietici e poi era diventato un “guardiano della morale”: in questa veste, inflessibile, il suo amico si ricordava di qualche episodio, di cui era stato testimone: aveva strattonato per strada una donna che a suo avviso portava le maniche del burqa troppo corte, mostrando mani e avambracci, e aveva bastonato un giovanotto che indossava un maglione rosso, a suo avviso troppo vistoso e immorale; una volta, dietro una spiata, era anche entrato in una casa dove si diceva che le donne si riunissero per aggiustarsi i capelli, ma non aveva trovato nulla di compromettente, forse erano state svelte a nascondere tutto. Questo era quanto il suo amico della Croce rossa poteva dire di Naqib. Nonostante il riconoscimento, Naqib è stato interrato nella fossa comune, non era proprio possibile fare altrimenti: il suo amico si ripromette di indicare a Guljana, se e quando la incontrerà, dove è sepolto suo padre. Insieme ad altri 599 Naqib o Muhammed o Abdelkharim. Mike Spann e Naqib Fahim sono morti entrambi nell’inferno di Qala-i-Jihangi. Niente delle loro vite aveva qualcosa di comune e, quindi, niente della celebrazione delle loro morti ha qualcosa che si assomigli. La morte non livella un bel niente. Eppure, il senso tragico di queste morti sta tutto nelle loro esistenze, nella banalità delle loro vite. Vite ordinarie: un giovanotto dell’Alabama che gioca a football, diventa marine e poi entra nella Cia; un giovanotto del sud dell’Afghanistan che entra in una madrassa, combatte i sovietici, diventa taliban, schiatta sotto le bombe del demonio americano. Cos?altro può fare un ragazzo di Winfield, Alabama? Cosa altro può fare un ragazzo di Jalalabad, Afghanistan? Vite esemplari per la loro ordinarietà, quasi fossero personaggi di fumetto, archetipi. Cattive sceneggiature. Vite predestinate, predeterminate. Vite perdute. Come quella di Alì Daud Sway. Alì Daud Sway era senza lavoro e viveva ad Artas, un villaggio vicino Betlemme. Aveva 44 anni ed era padre di otto figli. L’uomo era noto come simpatizzante dei movimenti islamici. Fino a poco prima dell’attentato era afflitto da problemi economici. Alì Daud era un kamikaze palestinese che si è fatto saltare in aria alla fermata dell’autobus della linea 18, nel centro di Gerusalemme. L’autobus era passato solo pochi istanti prima che Alì Daud si facesse esplodere e quindi l’impatto della bomba è stato meno devastante. Non ci sono stati morti, ma moltissimi feriti. Il più grave è Ariel Schwildner, un giovanotto di vent’anni che presta servizio nell’esercito ma che era in licenza: veniva dai Territori occupati e nell’ultima settimana aveva avuto il suo da fare e con i coloni e con i palestinesi. Si salverà, ma è dubbio che possa tornare a fare il militare. Questa volta, comunque, i rabbini che sono adibiti, per osservanza religiosa, a raccogliere tutti i pezzettini dei corpi delle vittime ebree per fortuna non hanno dovuto lavorare: ultimamente il loro compito si fa sempre più duro, perché è a volte difficile distinguere tra un pezzo della carne di un qualche palestinese che si è fatto saltare in aria e quello di una vittima ebrea spappolata dal suo attentato. Poteva avere un destino diverso Alì Daud Sway? La sua, come quella di Mike Spann, di Naqib Fahim, di Ariel Schwildner, non era una vita “già scritta?. Anche quando sembra che scappino dai loro “destini” attraversando mari e pianure, cosa faranno se riescono a scampare alla morte in un container all’aeroporto di Heathrow o in una barchetta al largo dell’Australia? Puliranno i cessi di una qualche stazione del metrò o rifuggeranno per l’ennesima volta qualche loro schifezza culinaria che titilla i nostri palati alla ricerca dell’esotico, questo faranno. E non sono già scritte le nostre vite, quelle di dove c’è il sogno delle infinite possibilità, tra pendolari licenziamenti, master e corsi di aggiornamento, teste svuotate, schiene piegate, gadget e villette a schiera, mutui e tartine? Non era già scritta, appunto, la vita di Mike Spann, proprio nel cuore del “dream”, del “global way of life”? Quale onnipotente pezzo di merda ha truccato i dadi della partita? Chi è che va in giro a vendere biglietti falsi della lotteria? Io invece, io vorrei poter vivere per un giorno nei sotterranei di Bucarest, vorrei poter gridare per un giorno “signorsì, signore” in un addestramento dei Marines, vorrei poter scommettere per una volta un mucchio di soldi al Nasdaq di Wall Street, vorrei per un momento guardare il mondo da una finestrella del burqa, vorrei poter far nulla sotto un albero in Madagascar, vorrei lavorare a un grande progetto industriale. E vorrei pure tirare qualche pompino sull’Ardeatina, a un prezzo giusto, s’intende. Questo vorrei, tenendomi strette le morti di Mike Spann, Naqib Fahim e Alì Daud Sway e la buona sorte di Ariel Schwildner. Le nostre vite, tutte le nostre vite gridano vendetta. Pezzi di carne gettati qui o là. Le nostre morti, tutte le nostre morti ormai sono poca cosa. Pezzi di carne gettati qui o là.


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