E’ uscito il nuovo, corposo rapporto Istat sulla vita quotidiana delle famiglie italiane. La solita ricchissima miniera di dati: dal consumo di bevande gassate all’utilizzo dei servizi sanitari. Il tutto datato a fine 2008 quindi alle porte della crisi (o un poco oltre la soglia). Si nota un dato di generale impoverimento, quindi non congiuturale, che investe i consumi ma anche la socialità (il mio gruppo di indicatori preferito): si vedono meno gli amici, si fa un pò meno di volontariato e si partecipa con minor frequenza alla vita associativa. Nessuna debacle per carità – almeno niente in confronto ad altri indici come la pratica religiosa che diminuisce vistosamente – però il quadro non è positivo. Anche su questo dovrebbero investire le politiche pubbliche. Che a ben guardare quando pensano alla famiglia lo fanno soprattutto come soggetto di consumo: dai bonus energia ai voucher sociali fino agli incentivi per la cucina e il motorino. Ma decisamente non basta. Bisognerebbe stimolare anche l’associazionismo e la co-produzione di servizi altrimenti il rischio è che si crei una specie di “social divide”, dove una parte minoritaria delle famiglie italiane può contare su un portafoglio di capitale sociale e fiduciario, mentre la maggior parte no, o almeno non nella stessa misura. E si sa che i network comunitari e associativi fanno la differenza non solo rispetto ad un’astratta “qualità della vita”, ma su temi e scelte cruciali: il lavoro, l’educazione, la cura, ecc. Il tutto considerando che le forme di autoproduzione e autoconsumo sono socialmente e anche economicamente più sostenibili rispetto allo schema d’offerta che divide rigidamente il consumatore dal produttore. E di questi tempi direi che non è male.
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