Volontariato

22 milioni di scarpe andata e ritorno

Delocalizzazioni. Le strane strade del made in Italy.

di Ida Cappiello

I love italian shoes: questa scritta apparirà presto nelle vetrine dei negozi di scarpe, per spiegare ai consumatori che la qualità italiana non è solo estetica ma anche sociale. In una campagna pubblicitaria, l?Anci, l?associazione degli industriali calzaturieri italiani, ha seguito l?esempio della Fiat, invitando i consumatori a comprare italiano per «difendere un modello di civiltà della produzione» rispettoso dei diritti dei lavoratori. Un modello ben diverso da quello dei grandi gruppi multinazionali, i cui metodi di sfruttamento sono finalmente diventati pubblici. Gli industriali ce l?hanno con i cinesi, che non producono più solo per prestigiosi marchi sportivi, ma cominciano a esportare calzature in pelle, in diretta e spietata concorrenza con il made in Italy più classico, ancora leader internazionale.
«Dall?inizio dell?anno le richieste di importare scarpe cinesi sono aumentate del 1.800%», si lamenta Renzo d?Arcano, imprenditore veronese della calzatura che eroicamente produce ancora tutto in Italia. «Per questo abbiamo chiesto all?Unione europea di reintrodurre misure di difesa. Qui non si tratta di protezionismo ma di difendersi da un colosso che può permettersi di praticare tutte le forme di dumping, da quello sociale a quello valutario, perché è una grande potenza politica e i governi hanno paura di reagire. Anche ai consumatori chiediamo di sostenerci: invitiamo a comprare italiano per scegliere una qualità etica, oltre che di prodotto».
Una cosa che i consumatori non sanno però è che una scarpa «made in Italy» può essere realizzata in Ucraina o in Albania per buona parte del ciclo produttivo, nel rispetto della legge. Spiega l?apparente mistero il presidente dell?Anci, Rossano Soldini: «è vero, è possibile delocalizzare alcune fasi della produzione, nel rispetto delle norme europee che permettono di definire made in Italy le calzature realizzate nei confini nazionali per quanto riguarda l?orlatura, cioè la formatura della tomaia, un?operazione specializzata, che dà valore al prodotto: la cucitura invece, può essere fatta ovunque ».
Questa possibilità è stata ampiamente sfruttata, come dimostrano i dati pubblicati in tabella: nel 2004, quasi 22 milioni di paia di scarpe hanno viaggiato ?andata e ritorno? soprattutto dalla Romania e dall?Albania, ma anche, in misura crescente, dalla stessa Cina, mentre Paesi come Polonia e Ungheria perdono quota, probabilmente perché il costo del lavoro, per le maggiori tutele, è diventato troppo alto. La qualità etica allora è tutta da dimostrare, visto che non sono disponibili dati sui fornitori delle nostre imprese.
L?Anci chiede un atto di fiducia: «La maggioranza degli imprenditori italiani ha stabilimenti controllati direttamente, seguiti da tecnici interni e allineati ai nostri standard». Altre ricerche però, sempre in casa Anci, dicono che il controllo sulle fabbriche d?oltreconfine non è affatto la regola. E il subappalto a terzisti ?sospetti?, d?altro canto, non è affatto l?eccezione, come testimonia Giuseppe Guagnano, segretario della Filtea-Cgil per la provincia di Lecce, dove operano due importanti nomi della calzatura di lusso, Adelchi e Filanto: «Entrambe queste imprese impiegano circa un migliaio di lavoratori ciascuna qui in Puglia, e altrettanti oltreconfine, attraverso società controllate. Per Adelchi si parla addirittura di diverse migliaia. Ma il vero problema sono i terzisti, ai quali si ricorre massicciamente, e che costituiscono una zona assolutamente grigia».

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