Economia

2022: quali nuove sfide per l’impresa sociale italiana?

di Laura Orestano

Un outlook sul nuovo anno con una lente di ingrandimento sul Terzo Settore in Italia: a che punto siamo, quali nuove esigenze, quali opportunità di dialogo e collaborazione con la pubblica amministrazione?

Ne ho parlato con Flaviano Zandonai, sociologo e Open Innovation Manager del Gruppo cooperativo CGM, grande conoscitore del Terzo Settore in Italia, nella piacevole chiacchierata che trascrivo a seguire.

Laura:

Flaviano, dal tuo osservatorio, quali sono i temi trainanti su cui spenderci nel prossimo anno?
Un outlook sul 2022?

Flaviano:

C’è un tema che potrebbe sembrare di nicchia, ma che ha una rilevanza generale, anche perché è un percorso di medio periodo. Riguarda i processi di riorganizzazione delle imprese sociali, un fenomeno che probabilmente proseguirà anche nel 2022. Nel nord Italia le imprese sociali diminuiscono di numero – ed è una notizia, dopo anni di crescita costante – ma aumentano in termini di contributo occupazionale e valore economico.

Sono quindi in atto processi di ristrutturazione organizzativa, come fusioni o acquisizioni di rami aziendali che hanno ricadute sia sulle organizzazioni che sui mercati e sui contesti in cui esse operano, in particolare nel welfare.

Questa tendenza è particolarmente evidente nell’Italia centro-settentrionale dove l’impresa sociale è nel pieno della sua fase di maturità anche a nuovi servizi e rinnovati rapporti con le pubbliche amministrazioni. Nelle aree meridionali si registra invece una tendenza differente: le imprese sociali crescono in modo molto pulviscolare, c’è generatività del settore, che cresce in termini quantitativi ma permane in uno stato embrionale.

È interessante quindi guardare a questa duplice evoluzione, che vede effervescenza a Sud e una ristrutturazione “industriale” delle imprese sociali nelle aree centro-settentrionali.

Rispetto a questo quadro un ruolo importante è giocato dall’ecosistema di supporto all’impresa sociale che non è più basato solo su reti e agenzie promosse internamente come ad esempio consorzi o organizzazioni di rappresentanza, ma può contare su realtà consulenziali, centri di ricerca, fondazioni, soggetti come SocialFare che oltre all’erogazione di fondi offrono accompagnamento e capacity building.

Laura:

Stai dicendo che, a fronte di una spinta – o necessità – riorganizzativa, i confini si stanno modificando o ampliando. Io non amo il concetto di confine, ma se c’è una consapevolezza da avere è anche quella del limite – delle risorse, ad esempio – entro cui il mondo dell’impresa sociale si è trovato per un periodo. Tu vedi in questo senso un possibile scavallamento?

Flaviano:

Sì, a patto di sapersi attrezzare da un punto di vista organizzativo per affrontare le sfide che abbiamo di fronte. Penso ad esempio al PNRR. Il tema è: il Terzo Settore, oggi, è effettivamente in grado di assorbire e impiegare in maniera efficace le risorse disponibili? La questione riguarda la capacità di investimento e di creare impatto.

Quali sono, da questo punto di vista, le condizioni organizzative, gestionali, di competenza e di dotazione tecnologica necessarie per giocare la partita?

C’è uno spostamento oltre il confine, ma occorre prima un assessment delle proprie capacità e intenzionalità, prima di “buttare il cuore oltre la siepe”.

Laura:

Avendo molta esperienza in termini di sviluppo di mercato, noi sappiamo che il mercato ha i suoi tempi. Come vedi l’aggancio fra questa fase di riorganizzazione delle imprese sociali e il timing dettato dal PNRR? Pensi ci sia un rischio di perdere questa occasione?

Quanto tempo occorre alle imprese del Terzo Settore per compiere una riorganizzazione efficace mentre passa il treno delle risorse disponibili? C’è un fattore critico?

Flaviano:

Sì, molto critico, soprattutto se si tratta di andare a cercare queste risorse non solo attraverso gli strumenti di allocazione competitivi, come i bandi. Sarebbe meglio attivare processi di co-progettazione e condivisione dei percorsi, ma chiaramente questo è un ulteriore elemento di complessità. Co-progettare è già di per sè complesso, se poi esiste anche un deficit di competenze e di predisposizione culturale in questi termini da parte di tutte le parti coinvolte – pubbliche amministrazioni, ma anche soggetti del settore – questo allunga ulteriormente i tempi.

Laura:

Anche il capacity building cambia. Noi come SocialFare acceleriamo competenze e impresa a impatto sociale, e posso dire che l’accelerazione di mindset è un obiettivo ancora più difficile da raggiungere.

Flaviano:

Oggi chi fa accompagnamento allo sviluppo e al cambiamento organizzativo utilizza solitamente uno strumentario di impostazione quasi ingegneristica, che lavora soprattutto sugli elementi formali: ruoli, funzioni, organigrammi, ecc.. Ma se si guarda al pensiero innovativo di questi anni su come devono cambiare le organizzazioni, si fa leva soprattutto su competenze soft ed elementi processuali. Non so, da questo punto di vista, quanto il mondo consulting sia in grado di sostenere questo approccio, che deve saper incidere fortemente anche sulla voglia di rimettere mano alle proprie organizzazioni, guardando anche ai sostrati culturali su cui si fondano e si ri-producono.

Il sense-making, lo stare in un’organizzazione perché produce significato, è una sfida attuale che va affrontata sul piano processuale e non solo lavorando a livello formale o tecnologico. La cooperazione in questo senso è emblematica: forse in questi anni è stata trattata soprattutto come involucro giuridico – organizzativo – spesso soprattutto per salvaguardarne la “purezza” del modello – e troppo poco guardando al suo meccanismo sociale fondante: lo scambio mutualistico. Se si adotta quest’ultima prospettiva molte cooperative possono ri-diventare tali e altre organizzazioni possono assumere connotati cooperativi anche se giuridicamente non lo sono.

Laura:

Questo mi aggancia ad un altro tema. Se cambiano le organizzazioni, e se queste sono le sfide delle organizzazioni che costituiscono un ruolo importante nell’economia italiana, anche l’amministrazione pubblica non può guardare a queste organizzazioni come le guardava tre anni fa.

Tu hai contezza di questo tipo di cambiamento?

Flaviano:

Sì, ho l’impressione – e formulo un’ipotesi da verificare – che negli ultimi anni quei settori della pubblica amministrazione che operano soprattutto in alcuni ambiti come welfare e cultura che fanno da catalizzatore per il cambiamento sociale abbiano spesso addirittura una proattività maggiore rispetto al Terzo Settore. Stimolano a cambiare obiettivi e missioni, a co-progettare (questo elemento è inserito nella norma del Terzo Settore, ma avrebbe potuto anche stare nella riforma della PA).

Spesso sono i funzionari pubblici a stimolare processi di innovazione sociale. Basti pensare, ad esempio, i patti di collaborazione per la cura dei beni comuni. Si potrebbe pensare che siano stimolati dal basso (cioè da cittadini e movimenti) oppure da un qualche amministratore “illuminato”, ma in realtà c’è una componente importante di funzionari e dirigenti pubblici che lo ha fatto, forse anche perché consapevole dei limiti della struttura pubblica e quindi portata a premere perché gli enti del Terzo Settore facciano quel salto di innovazione.

Laura:

All’Ashoka Changemaker Summit (che si è tenuto a Torino il 2 dicembre 2021, ndr) mi è stata fatta proprio una domanda sull’attore pubblico e concordo con te sul fatto che ci sia non solo molta competenza ma anche molto stimolo a piegare e modificare un po’, se vogliamo, un’abitudine del Terzo Settore in una sorta di domanda/offerta regimentata in una liturgia che non cambia da tempo…

Flaviano:

…liturgia che peraltro è stata creata dalla stessa PA. Se vuoi, si può spostare lo stesso ragionamento anche nelll’ambito filantropico, pensando al lavoro con le fondazioni negli ultimi anni.

Però ora il funzionario pubblico o della fondazione si rende conto che occorre cambiare e cerca di incentivare il Terzo Settore ad un approccio più partenariale, di investimento, progettuale.

Laura:

Anche nella mia interazione con fondazioni bancarie e con dirigenti di grandi città che stanno cercando di accelerare il tema preliminare al PNRR, io ho proprio questo riscontro: è come se queste grandi organizzazioni si fossero fatte un’autoanalisi, e anche un po’ un mea culpa, verso il superamento di un quadro a cui loro stesse hanno contribuito.

Flaviano:

Penso che la priorità del Terzo Settore italiano oggi sia fare un grande lavoro di assessment: cosa vogliamo e cosa siamo disposti a fare. Un assessment organizzativo e di capacità, da fare non in modo indotto e richiesto da parti terze, ma fatto con il protagonismo del Terzo settore stesso. Altrimenti continua ad alimentarsi questa retorica del Terzo Settore che sarebbe in grado di operare nelle value chain delle grandi imprese, di fare co-progettazione su qualsiasi tema con l’ente pubblico, di dialogare alla pari con qualunque soggetto, e magari non è completamente vero.

Lo dico perché se uno è autoconsapevole delle proprie capacità può spingere e costruire una narrazione più realistica del Terzo Settore, funzionale ad affrontare sfide nuove.

Laura:

Sono d’accordo, lo sforzo da fare nel 2022 è proprio di accompagnamento, di supporto a questo auto-assessment organizzativo, che deve essere affrontato con un approccio pratico di trasformazione.

Cosa so fare, dove voglio andare, di quali competenze mi devo dotare: questo modifica anche la capacità di interlocuzione con i decision makers, scavallando anche una rappresentanza che è vecchia, se non per approccio, perché è molto esperta della liturgia passata.

Flaviano:

Credo che questo sia anche un modo per rimettere mano ai corpi intermedi, alle rappresentanze: il tema c’è, è sempre più rilevante e rimane solo parzialmente risolto. Una modalità ad esempio potrebbe essere di aprirsi e partecipare alle coalizioni di scopo che abbiamo visto svilupparsi in questi anni. Qualcuno lo ha fatto – ad esempio sui temi della povertà e della disuguaglianza – e farlo in modo autentico offre la possibilità a queste reti di misurarsi su obiettivi chiari, di stare dentro ad alleanze diversificate, di recuperare un dialogo, ad esempio, con il mondo della ricerca, di formulare politiche basate su elementi di conoscenza condivisi.

Laura:

Il 2022 si prospetta insomma come anno di grande elaborazione.
E se dovessi riassumere in una parola le prospettive 2022?

Flaviano:

A me il ragionamento sull’assessment ha acceso una lampadina.
Lavorare sulla valutazione, la capacità, su un maggiore realismo e consapevolezza di sé… sarebbe un bel trampolino per dire “effettivamente possiamo saltare fin là, magari non oltre, ma lì sì”.

Laura:

E questa è una dimensione necessaria per disegnare nuove dimensioni del fare, nella ricerca, nella sperimentazione, nell’Innovazione Sociale. C’è qualcosa che vorresti aggiungere?

Flaviano:

Sì, penso che tante di queste cose potrebbero succedere proprio a Torino. Trovo che, anche nelle sue contraddizioni, questa “densità” di iniziativa torinese debba generare qualcosa.

In generale, la localizzazione di questi fenomeni potrebbe anche servire a dotare il paese nel suo insieme di queste infrastrutture e competenze. Questo è un tema sollevato anche spesso da Calderini: queste competenze per lo sviluppo sono sempre più iniquamente distribuite, e non si tratta soltanto della solita dinamica nord-sud. Invece sarebbe interessante che, capitalizzando una serie di apprendimenti da chi si è trovato a fare da pioniere su queste iniziative, ci fosse poi un trasferimento di queste competenze ecosistemiche anche in altri luoghi, altrimenti non facciamo che ampliare i divari.

Laura:

Tornando al tema della densità di iniziative che c’è a Torino così come in altre parti di Italia, penso sia importante sottolineare che questa non deve diventare concentrazione e presidio, ma deve essere pronta ad una sua evoluzione ecosistemica. Da Torino potrebbero partire delle dorsali nazionali che però trovino la loro specificità in questa lotta comune orientata a rimettere in marcia la mobilità sociale, per lavorare sul tema delle disuguaglianze.

All’Ashoka Changemaker Summit i giovani che sono saliti sul palco hanno portato esempi di esclusione e relative proposte e soluzioni di inclusione, lo stesso hanno fatto le donne, le persone disabili, rappresentanti del nord e del sud del mondo, …è la maggioranza che è esclusa.

La società è cambiata e non ci siamo presi cura abbastanza di accelerare le cuciture per mantenere la rete resiliente.

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