Politica

2011, fuga da Milano

di Franco Bomprezzi

Seguo a distanza di sicurezza due camionette della polizia. Siamo a Milano. Mezzanotte e dintorni. Corso Lodi. Sto tornando a casa, alla Bicocca, dall’altra parte della città. Sono stato incuriosito, in piazzale Corvetto, da queste due camionette quiete e in fila indiana. Il lampeggiante che gira lentamente su se stesso, luci blu che si diffondono spettrali a illuminare ogni angolo del piazzale, vuoto e buio. Serrande abbassate, qualche sacco di immondizie qua e là, una bottiglia di plastica rotola spinta da una improvvisa brezza e fa rumore. Già: si sente il rumore di una bottiglia vuota di plastica, annoto mentalmente. Decido di seguire i poliziotti, non mi sembrano ansiosi né sospettosi, procedono lentamente lungo corso Lodi, vetri abbassati, forse stanno conversando fra di loro. Non c’è anima viva. O quasi. Su una panchina, nei giardinetti che accompagnano centralmente il lungo viale che dalla periferia risale verso il centro, noto tre persone di colore: prendono il fresco della mezzanotte, illuminati dalla brace delle sigarette. Chissà che cosa stanno pensando di Milano, di questa situazione strana. Continuiamo verso il centro, in lontananza emerge dall’oscurità porta Romana. Penso a Gaber, per un attimo.

Non sono milanese, ma ho scelto questa città, come tanti “immigrati” entusiasti di venire a vivere nella metropoli europea, nella città del lavoro, del futuro, delle idee nuove. Volevo fare il giornalista qui. Lo ero già, ma in provincia, a Padova. Mi pareva una città quieta, forse troppo. Ora non so più. Flashback di poche ore. Pomeriggio assolato, semaforo rosso. Si avvicina una zingara, giovane donna dai lineamenti floridi. Mi vuole lavare il parabrezza. Non mi sembra vero. Erano spariti i lavavetri da tanto tempo. Le chiedo come si chiama. “Andrea” risponde sorridendo, e aggiunge tirando fuori due foto da non so dove: “Questi sono i miei figli, devono mangiare, non ho soldi…”. Ovvio, chiede soldi, è normale. Però sorride e mi lava bene il parabrezza, viene dalla Romania, sprizza una allegria contagiosa.. Mi saluta con uno squillante “Ciao!!!”. Mi lascia stupito e interdetto. Bah, penso fra di me: sono il solito benpensante che vuol vedere solo la parte buona, dietro quella ragazza chissà quanto marcio, quanta delinquenza, e via così. No, mi dico. Lei è una bella persona, punto e basta. Qualcun altro no, e questo è altrettanto vero. Ma se ogni tanto abbassiamo il vetro e proviamo a parlare, forse scopriamo un mondo meno ostile e lontano di quanto ci sembri.

Attraverso le strade di Milano di agosto, tutte uguali nella loro tristezza metodica. Non c’è vita, non c’è sorpresa. Il casino accettabile è quello dei ragazzi “nostrani” alle colonne di San Lorenzo, o, dall’altra parte, in corso Como. Bottiglia di birra in mano, a gruppi stropicciati e sudati, bivaccano per evitare una solitudine ancora peggiore della noia alcolica. Piazza del Duomo è priva di bussola, non si sa dove dirigersi, il punto di attrazione è il maxischermo che rimanda pubblicità rumorosa. Frotte di turisti si fotografano sullo sfondo del Duomo, i bar sporchi e invasi dai piccioni propongono tristissimi happy hour a prezzi da boutique. La Galleria sembra abitata dai fantasmi, nelle mansarde, nelle finestre buie dei soppalchi chiusi, mentre in basso una umanità sdrucita e stanca prova a immaginare fasti d’altri tempi.

Mi muovo in carrozzina e appena esco dal sentierone pedonale che va dal Castello a San Babila inciampo in bitorzoli di pavimentazione sconnessa, in binari del tram che diventano trappole per le mie ruote, mi inerpico su marciapiedi alti e sconnessi. Ripiego mestamente sullo struscio sbarrierato. Torno sui miei passi, salgo di nuovo in auto e torno nel mio quartiere futuribile, la Bicocca, dove l’Università riempie di giovani le strade, ma non adesso, non ad agosto. Le macchine sfrecciano in viale Pirelli come a Montecarlo, qui non c’è neppure un rallentatore a scoraggiare. Cerco di scendere nella piazzetta pedonale ideata dal grande urbanista Gregotti, ma l’ascensore è fuori uso, e anche chi potrebbe usare la scala mobile non ha maggiore fortuna. Pazienza. Domani andrà meglio, lo ripareranno.

Rientro a casa, qui tutto funziona. Ma da qualche mese hanno messo telecamere dappertutto. “Area videosorvegliata”, c’è scritto. Perché? In dieci anni non mi ricordo un solo furto in appartamento, ma forse sono distratto. Ho capito. Sta vincendo l’industria della paura, dello smarrimento, della solitudine. A casa prendo in mano tre telecomandi, accendo il televisore, il decoder digitale, il decoder della parabola. Ora sì che sono tranquillo. Nel bunker. Per fortuna c’è Internet, il web, il blog, il forum, facebook, linkedin, e poi lo smart phone. Che progresso, che meraviglia. Compriamo le nostre paure, rinunciamo a vivere in questa bellissima Milano decadente, che potrebbe resuscitare in un attimo, riempirsi di colore e di rumori umani, se solo per una sera tutti uscissimo di casa sorridendo, e cercando di scambiare due parole con le persone che incrociamo. Potremmo perfino imparare le lingue, lo spagnolo, il cinese, l’arabo, in cambio di qualche dritta sull’italiano, che non guasta davvero. E invece viviamo nel coprifuoco, imposto e accettato. Un antifurto mi scuote dal vaniloquio mentale. Lo avrà fatto scattare un gatto lasciato solo in casa a Ferragosto. Poverino.


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