Cultura

2010 futurabili

di Giuseppe Frangi

Il non profit in Italia oggi è una realtà difficilmente circoscrivibile. Un iceberg per alcuni; pulviscolo diffuso secondo altri.
Ma il suo know how in beni relazionali e i suoi modelli organizzativi aprono grandi spazi per il futuro prossimo. Sapremo raccoglierli?
Un fenomeno può essere definito dai suoi numeri. Oppure dalla domanda che lo riguarda. Il non profit italiano dal punto di vista dei numeri è un mondo difficilmente circoscrivibile, sia perché ha confini poco definiti sia perché è in continuo cambiamento. Le analisi statistiche invecchiano in fretta e molte volte producono numeri che sono in conflitto con quelli di altre statistiche. Non è una difficoltà di lettura che riguarda solo l’Italia.
Lo hanno potuto constatare anche in Gran Bretagna: il mese scorso il gruppo di ricercatori di Delta Economics and Market Researchers IFF Research ha smentito i dati di un rapporto governativo svelando che le imprese sociali in UK sono 232mila e non 65mila: le imprese sociali sono quelle che perseguono finalità di interesse generale e cambiamento sociale, attraverso la produzione di beni e servizi che scambiano in regime di mercato e che pongono limiti alla distribuzione di ricchezza presso i soci. Anche in Italia recentemente l’Istat ha pubblicato una ricerca che ha portato allo scoperto numeri che stavano nascosti sotto la coperta: le statistiche sull’assistenza residenziale e socio-assistenziale. Il 53% di queste strutture è gestito da soggetti non profit. Se poi andiamo nel dettaglio si scopre che nel 37% dei casi si tratta di imprese sociali, ma le percentuali salgono, e di molto, guardando a singoli servizi come le comunità alloggio (50%), le comunità socio riabilitative (58%) fino a strutture particolarmente complesse come le Rsa (38%).
Sono numeri-campione che non possono avere pretesa di completezza, ma che danno l’idea di quel grande iceberg che è il non profit italiano: ciò che affiora è solo una piccola parte di quello che lo costituisce. Una ricerca di Unioncamere di tre anni fa stimava in 800mila i posti di lavoro del sistema non profit, pari al 3,5% dell’occupazione nazionale.
Oltre che iceberg, questo mondo si presenta anche sotto forma di “pulviscolo”: lo definisce così il recentissimo Libro verde realizzato dal Forum del terzo settore. E l’immagine è efficace, oltre che pertinente: le “realtà istituzionali” che lo compongono sono ben 221mila, attorno a loro ruotano, secondo le valutazioni dell’Annuario statistico italiano 2008, circa 5,4 milioni di persone (cioè il 9% degli italiani sopra i 14 anni; ma al Nord la percentuale sale all’11,4%). Ma sono molto di più quelle che sostengono una realtà associazionistica, senza necessariamente partecipare alla sua vita (9,5 milioni, cioè il 9% della popolazione). Di queste 221mila realtà ben 94mila sono associate tra di loro in una delle 53 reti nazionali secondo un modello organizzativo che è molto più evoluto di quanto l’orizzontalità pulviscolare di questo mondo non lasci presagire. In realtà le reti, secondo stime attendibili, sono almeno tre volte tante. Come sottolinea il Libro verde del Forum del terzo settore, la realtà è quella «di organizzazioni caratterizzate da una pluralità di interrelazioni reciproche». Un modello retto su legami, che rappresenta un valore aggiunto non quantificabile nelle dinamiche sociali di oggi. Manca solo la coscienza piena di essere un modello…
Ma se questa è la fotografia, dai contorni un po’ sfumati, del presente, ben più impegnativa e vasta è la proiezione sul futuro. Gli ambiti che si presentano come alveo naturale per l’azione del non profit aumentano a dismisura. Quale altra forma organizzativa può darsi, ad esempio, quell’enorme mondo del “welfare fai da te” che oggi viene gestito e governato senza una regola? Le 700mila badanti che sono a servizio nelle case dove gli anziani non sono più autosufficienti, ormai rappresentano, per dimensione, una realtà persino superiore a quella del Servizio sanitario nazionale (che ha circa 670mila addetti). Quale modello organizzativo può difendere e valorizzare il loro lavoro? O entra in gioco un modello profit che per sua natura privilegerà la massimizzazione dei profitti smontando in prestazioni i beni relazionali oppure il non profit cercherà di dire la sua, con una logica opposta, ma non per questo anti economica.
Si potrebbe tracciare una mappa delle opportunità che il futuro prossimo riserverà all’economia sociale. E se ne scoprono tantissime. Cultura, educazione, sicurezza come prevenzione, integrazione sono alvei naturali per l’azione del non profit. Ambiti che solo dentro dinamiche “dolci” saranno in grado di reggere all’urto di una modernità che, se sottoposta a diktat mercantili, è destinata ad essere una modernità sempre più feroce.


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