Formazione

2002 fuga dalla tv

Carlo Freccero, il funambolico direttore di Raidue, lancia il suo j'accuse sulla crisi di ascolti, di fascino e di prestigio della televisione (di Maurizio Caverzan)

di Redazione

2002, fuga dalla televisione. Si potrebbe intitolare così, parafrasando un vecchio film di John Carpenter, lo scenario che Carlo Freccero traccia prendendo le mosse dall’11 settembre e analizzando gli effetti di quella che il direttore di Raidue, un intellettuale prestato alla televisione e proprio per questo a suo modo eversivo, chiama «rivoluzione estetica». è una riflessione che parte da lontano, carica di suggestione e di intuizioni che tracciano un filo rosso tra le manifestazioni no global, l’attacco alle Torri gemelle, la crisi argentina. Che fa capire, per citare Fukuyama, che la storia non «è finita», ma «è ricominciata». E che, forse, non si sono ancora pienamente compresi gli effetti dell’attentato alle Twin Towers: come se ancora non sapessimo fino a dove potrebbero allargarsi i cerchi di quel macigno gettato nello stagno dell’Occidente. La parola a Freccero: «L’11 settembre è accaduto qualcosa che va oltre la forza distruttiva di un demenziale attacco terroristico. Per noi che viviamo nel cuore del capitalismo si è incrinata un’estetica. Mi spiego: prima di quel fatto dominava l’iperbole del pensiero moderno, nel quale pure convivono culture diverse, ma tutte unite dal comune denominatore del primato del fattore economico. C’erano solo avvisaglie di critica, rappresentate dalle manifestazioni no global. L’e11 settembre ha definitivamente infettato la nostra spensieratezza programmatica. La spensieratezza dell’Occidente. Nelle immagini di quel giorno, l’Occidente si è simbolicamente trasformato in un cumulo di macerie. Da allora, la bella vita è finita». Freccero collega gli effetti delle manifestazioni no global a quelli del terrorismo di Bin Laden: «In entrambi i casi è emersa l’altra faccia del consumismo. Come avevano denunciato No Logo e altri libri, tutti hanno potuto rendersi conto che il potere seduttivo della firma, il plusvalore immateriale della marca (tipo la Nike) presuppone il valore materiale dello sfruttamento. Finalmente queste due immagini, che dovevano restare confuse, nascoste nel feticismo della griffe, ci sono arrivate distinte, separate. Anche i reportage della tragedia argentina ci hanno trasmesso questa separazione». Dunque, una rivoluzione estetica che fa ricominciare la storia: tutto è accaduto per la forza d’urto di quelle immagini, viste e moltiplicate migliaia di volte, di due aerei che entravano nelle Twin Towers: un boomerang mediatico del primato del pensiero economico. «è esattamente così. Quel giorno in televisione è cominciata una campagna pubblicitaria alla rovescia. Per anni, per decenni, noi abbiamo bombardato i Paesi sottosviluppati con la propaganda del lusso, della seduzione e del narcisismo. Anche il Muro di Berlino, in parte, è crollato a causa di questo bombardamento. Dall’11 settembre le macerie dell’Occidente si contrappongono all’imperativo categorico del consumismo. Al libro di Samuel Huntington Lo scontro delle civiltà, vorrei aggiungere un capitolo con questo titolo: La guerra di civiltà è una guerra di immagini. Tra le armi non convenzionali che si adoperano oggi, quella più forte è l’uso dei media. L’Occidente pensa di risolvere il problema della diseguaglianza sociale attraverso la pubblicità, attraverso la propaganda del pensiero unico che invece ha cominciato a mostrare il suo volto tragico, il girone infernale dello sfruttamento». Lo strumento di questa propaganda è la televisione, ma oggi si registra una diminuzione del pubblico televisivo (in Italia si parla di mezzo milione di telespettatori in meno, ma qualcuno azzarda cifre più alte), soprattutto di quello giovane, che legge, usa Internet, sceglie altri media. «Nella società civile cresce la consapevolezza che occorre introdurre dei limiti al liberalismo selvaggio. Che occorre tornare a praticare la solidarietà. Il pubblico cosiddetto culturalizzato non può più accontentarsi della televisione del consenso, quella che vive solo della quantità e non della qualità dell’audience. Oggi è come se la tv fosse tornata a ciò che era negli anni 70: un apparato di Stato, un apparato di consenso. Invece, ogni prodotto televisivo dovrebbe rappresentare una minoranza, germinare qualcosa di differente. I giovani, i no global, chi frequenta le librerie pratica percorsi comunicativi differenti e fatica a riconoscersi nella tv tradizionale perché sceglie il prodotto specifico e non il mezzo in quanto tale». è la strada delle televisioni tematiche e satellitari, dell’uso del video come terminale di altre funzioni. «Se non riesce a specificare meglio la sua offerta, la televisione rischia di riprodurre la stessa spaccatura che ormai è evidente nella società civile. Da una parte il pubblico anziano che vive dentro il mulino bianco, legato ai cerimoniali di ricordi, una tv nostalgica, sedativa. Dall’altra il pubblico che vive la scuola, l’università, la discoteca, il pub come altrettante comunità, come altrettanti siti: è il pubblico della frammentazione che solo Internet riesce a convocare e rappresentare. Se vuole guardare avanti, anche la televisione generalista deve assorbire la lezione di Internet. Deve introdurre un livello di comunicazione politico-culturale più elevato. Accettando e rilanciando elementi di critica, il rischio del santorismo, dei “grilli” parlanti, dell’ironia, dello sberleffo. È l’unico modo per uscire dal meccanismo del consenso, dalla caricatura della persona che ne fanno il marketing e la pubblicità: seminare germi di comunicazione differente, rappresentativa delle minoranze. Hanno detto che Raidue ha fatto campagna elettorale con i comici. L’analisi va rovesciata: certi comici hanno sostituito la latitanza della politica e sono riusciti a intercettare e identificare una domanda e un bisogno presenti nella società civile. La stessa cosa, per esempio, non è riuscita al mondo del volontariato, e della solidarietà sociale, un mondo ricco di contenuti, in costante espansione, anch’esso in fuga dalla televisione perché non adeguatamente rappresentato. L’unico tentativo in atto, infatti, quello del mio amico Giovanni Anversa, manca di carisma comunicativo e quindi di visibilità». Freccero ha completato la sua riflessione, chiuso il cerchio della sua analisi e delle sue utopie. E la speranza di aprire una breccia nella televisione del consenso e del consumo, di frenare la fuga dal video, non è poi molta. Le nuove nomine dei dirigenti Rai incombono e lui stesso rischia di essere il primo espulso da un sistema televisivo che, mai come in questo momento, è sembrato a circuito chiuso. «Chi avesse la volontà politica di realizzare una televisione moderna, che guarda avanti e si apre alla differenza», è la risposta di Freccero, «dovrebbe avere il l’ardire di sopportarmi».


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