Nel 1989 la caduta del Muro di Berlino rappresentò una svolta epocale nei rapporti internazionali: finiva la guerra fredda e, contemporaneamente, un ordine internazionale che, al di là delle reciproche diffidenze, aveva comunque trovato un certo equilibrio; se ne apriva un altro, dai connotati molto incerti. Per Papa Wojtyla, quindi, si aprivano le porte per un ordine internazionale caratterizzato da “un lungo periodo di razionalità e di dialogo, solidarietà e pacifiche soluzioni degli attriti internazionali”. Non era passato un anno dalla fine della guerra fredda che le speranze di Giovanni Paolo II andarono in frantumi: il 2 agosto 1990 l?Iraq del dittatore Saddam Hussein invadeva il Kuwait. Il nuovo ordine internazionale si apriva all?insegna della guerra. Saddam aveva bisogno di petrolio. Convinto che gli Stati Uniti non si sarebbero opposti al suo espansionismo, invase il Kuwait. Ma fece male i suoi calcoli.
Giovanni Paolo II non era il solo a vagheggiare un possibile ordine internazionale. Anche il presidente americano George Bush aveva la sua idea in proposito: crollato il comunismo, il mondo doveva essere governato in modo da non tollerare più ingiustizie internazionali. Ma a chi sarebbe spettato governare il mondo? Evidentemente all?unica superpotenza rimasta in piedi dopo 42 anni di guerra fredda. La decisione di intervenire immediatamente contro Saddam dimostrava a tutti che la superpotenza americana aveva il consenso e i mezzi per governare da sola il mondo. Per questa grande operazione di giustizia internazionale aveva bisogno, però, dell?avallo del massimo organo di arbitrato internazionale: l?Onu. Le Nazioni Unite condannarono l?aggressione da parte dell?Iraq e predisposero sanzioni economiche e militari al regime di Saddam. Di fondamentale importanza, però, fu la risoluzione n. 678 approvata il 29 novembre 1990, con la quale gli Stati Uniti ottennero l?autorizzazione da parte delle Nazioni Unite all?uso della forza per liberare il Kuwait. Unione Sovietica e Cina non si opposero.
25 dicembre 1990. Un?avventura senza ritorno
Il Papa fu uno degli oppositori della guerra nel Golfo. Ma fu anche un deciso oppositore di Saddam. La posizione ufficiale della Santa Sede fu spiegata chiaramente da Giovanni Paolo II all?Angelus del 26 agosto 1990: “Siamo stati testimoni di gravi violazioni del diritto internazionale e della Carta dell?organizzazione delle Nazioni Unite, come dei principi di etica che devono presiedere alla convivenza tra i popoli. [?] L?ordine internazionale [?] è gravemente minacciato”.
La condanna all?aggressione dell?Iraq al Kuwait era chiara ed inequivocabile. Così come l?appello a “coloro che detengono le sorti dei popoli affinché” sapessero “trovare”, attraverso “un dialogo costruttivo [?] una giusta soluzione per le odierne difficoltà”. Una guerra rischiava di avere drammatiche ripercussioni in tutto il Medio Oriente. Tutti fattori che obbligavano Giovanni Paolo II ad insistere per una soluzione pacifica della vertenza. In questa guerra tra le posizioni più interessanti di Giovanni Paolo II ci fu la storica presa di distanza di un Papa dall?Onu.
All?Onu (ma anche a Saddam, la cui invasione, lo ribadiamo, era stata condannata in modo chiaro dal Pontefice) Giovanni Paolo II ricordava, nel messaggio ?Urbi et Orbi? del 25 dicembre, che “la guerra è un?avventura senza ritorno. [?] Si persuadano i responsabili” che solo “con la ragione, la pazienza e con il dialogo, e nel rispetto dei diritti inalienabili dei popoli e delle genti, è possibile individuare e percorrere le strade dell?intesa e della pace”. Nell?udienza generale del 16 gennaio 1991, quando l?ultimatum dell?Onu a Saddam per l?evacuazione del Kuwait era scaduto, Papa Wojtyla usò toni anche più accorati: “Mai più la guerra, avventura senza ritorno, mai più la guerra, spirale di lutti e di violenza; mai questa guerra nel Golfo Persico”. Il fatto era clamoroso: molti si chiesero se Giovanni Paolo II intendesse realmente sconfessare le Nazioni Unite proprio quando stavano finalmente intervenendo “come il Vaticano auspicava da decenni”, rovesciando una linea costantemente tenuta dai suoi predecessori.
Ma era veramente così? La presa di distanza di Giovanni Paolo II dall?iniziativa armata dell?Onu non equivaleva assolutamente a una sua sconfessione. Quello che Giovanni Paolo II non vedeva di buon occhio era il fatto che l?intervento dell?Onu contro Saddam fosse troppo scopertamente pilotato dagli americani.
Così Papa Wojtyla si esprimeva il 12 gennaio 1991 al Corpo diplomatico: “Gli Stati riscoprono oggi, in particolare grazie alle diverse strutture di cooperazione internazionale che li uniscono, che il diritto internazionale non costituisce una sorta di prolungamento della loro sovranità illimitata, né una protezione dei loro soli interessi o anche delle loro imprese egemoniche. È in verità un codice di comportamento per la famiglia umana nel suo insieme”. Nello stesso discorso aggiungeva: “è bello che l?organizzazione delle Nazioni Unite sia stata l?istanza internazionale che si è rapidamente imposta per la gestione di questa grave crisi”.
Che cosa fare di concreto sul piano diplomatico per evitare che una sola superpotenza dominasse il mondo intero? Individuare un?altra entità politica che le facesse da contrappeso: l?Europa unita. “L?epoca del confronto e della divisione in Europa è passata”, diceva Giovanni Paolo II nel discorso al Corpo diplomatico del 12 gennaio 1991. Di fronte alla nuova situazione internazionale dominata dagli americani, “un dovere si impone: la solidarietà europea”, sia nell?aiutare i Paesi europei ex comunisti ad uscire dalla crisi economica, politica e sociale, sia nel coinvolgerli in un progetto di unione europea già iniziato dagli Stati membri della Cee, la quale doveva dotarsi quanto prima di una politica estera e di difesa comune. Mai nessun pontefice aveva insistito tanto sull?urgenza di un?unione europea come Giovanni Paolo II.
15 gennaio 1991 l?ultimo appello
Il 15 gennaio Giovanni Paolo II fece l?ultimo appello per scongiurare la guerra: inviò due messaggi, uno al dittatore iracheno e l?altro al presidente americano George Bush, nella sua qualità di capo di Stato del Paese maggiormente impegnato nelle operazioni militari nel Golfo. Il giorno dopo, 16 gennaio, Wojtyla telefonò a Bush e gli disse che continuava a pregare per una soluzione pacifica del conflitto. Ma fu tutto inutile. Il 17 gennaio 1991 cominciava la guerra nel Golfo: aerei americani iniziarono, nella notte, a bombardare Bagdad.
Come per i suoi predecessori, la prima preoccupazione di Giovanni Paolo II fu per i sofferenti. Nell?udienza generale del 23 gennaio, ad esempio, così intervenne dopo il bombardamento missilistico contro Israele da parte dell?Iraq: “Esprimo, in particolare, solidarietà con quanti, nello Stato di Israele, soffrono per i deprecabili bombardamenti dei giorni scorsi e di ieri. Allo stesso modo sono vicino alle popolazioni dell?Iraq e degli altri Paesi coinvolti, anch?esse sottoposte a terribili prove”.
Ciò che più spaventava il Papa era la straordinaria potenzialità delle armi utilizzate. Il 6 febbraio, all?udienza generale, disse: “In questo terribile conflitto non venga fatto ricorso a nuovi strumenti di morte. Penso, in particolare, alle armi chimiche e batteriologiche, il cui uso è stato più volte minacciato ed è tanto temuto”.
La preoccupazione per le vittime del conflitto, per una sua possibile estensione e per l?impiego di armi devastanti determinavano una decisa insistenza da parte di Giovanni Paolo II a chiedere la fine della guerra: durante gli scontri aerei di gennaio e febbraio 1991 e i brevi scontri di terra dal 24 al 28 febbraio, egli fece ben 25 appelli per una giusta pace nel Golfo. Questo suo impegno per la pace fu inevitabilmente strumentalizzato. Il fatto che molti pacifisti bruciassero nelle piazze del mondo le bandiere a stelle e strisce, senza preoccuparsi di condannare l?aggressione dell?Iraq al Kuwait, era la dimostrazione pratica di questo pregiudizio, non di rado spinto fino all?odio contro gli Stati Uniti. Al contrario, la condanna della Santa Sede e di Giovanni Paolo II all?aggressione irachena era stata chiara, e ribadita nel discorso al Corpo diplomatico del 12 gennaio, cinque giorni prima dello scoppio della guerra: non si poteva rimanere indifferenti di fronte “all?invasione armata di un Paese e a una violazione brutale della legge internazionale, [?] sono fatti inaccettabili”, altrimenti “è la legge della giungla che finirebbe per imporsi”.
Nell?Angelus del 20 gennaio, Wojtyla aveva indirizzato un appello ai belligeranti affinché arrestassero “al più presto il conflitto, cercando, poi, di rimuovere le cause che l?hanno provocato”. Ai pacifisti, Giovanni Paolo II ribadiva, a volte, la necessità della guerra, avvertendo che “il ricorso alla forza per una giusta causa”, era perfettamente ammissibile “nel caso in cui questo ricorso fosse proporzionato al risultato che si vuole ottenere”, dopo aver ben ponderato “le conseguenze che azioni militari, rese sempre più devastatrici dalla tecnologia moderna, avrebbero per la sopravvivenza delle popolazioni e dello stesso pianeta”.
Il grande appello alla pace ecumenica
Il dialogo ecumenico costituì un importantissimo pilastro per l?azione di pace di Wojtyla, non solo da un punto di vista di convivenza e collaborazione religiosa, ma anche in difesa delle minoranze cristiane in quelle regioni. Una presenza che aveva dato vita a una rete di scuole e di università che accoglievano giovani di tutte le religioni e di tutte le condizioni sociali. Ospedali, dispensari, case di accoglienza erano “una magnifica testimonianza di carità”. Per questo motivo, bisognava assolutamente evitare che alle rivalità politiche si aggiungessero quelle religiose, altrimenti si sarebbe creato un fossato di odio tra musulmani, ebrei e cristiani. Lo stesso Saddam aveva chiamato i musulmani alla ?guerra santa? contro gli infedeli, una mossa politica per rompere l?alleanza dei Paesi arabi con gli Stati Uniti. Perciò, in molteplici appelli Giovanni Paolo II ribadì il ?filo rosso? che univa le tre religioni monoteiste: la fede nel Dio Unico, quello di Abramo, un Dio di pace. E le invitava ad unirsi nella sue preghiera per la cessazione delle ostilità. Così disse, ad esempio, il 25 gennaio 1991: “Il mio accorato pensiero [va] ai milioni di credenti nel Dio Unico”, cristiani, ebrei e musulmani, “che vivono ore drammatiche di sofferenza e di angoscia”.
Due giorni dopo, all?Angelus, usò parole simili: la fede di ebrei, cristiani e musulmani nel medesimo Dio “non deve essere motivo di conflitto e di rivalità, ma di impegno a superare nel dialogo e nella trattativa i contrasti esistenti”.
All?Angelus del 3 marzo, Giovanni Paolo II espresse la sua soddisfazione e, ancora una volta, la sua vicinanza a tutte le popolazioni coinvolte nel conflitto: “Sentiamoci solidali con il popolo del Kuwait che, dopo la gravissima prova sopportata, ha ritrovato la sua indipendenza. [?] Sentiamoci vicini alle popolazioni dell?Iraq e alle loro sofferenze” con la speranza che, “con una pace definitiva, venga concessa a quel Paese la possibilità di leale collaborazione con i vicini e con gli altri membri della comunità internazionale. Pensiamo a tutti gli altri popoli della regione, sui quali la guerra del Golfo Persico ha maggiormente influito: che Dio misericordioso conceda loro la grazia della speranza in un futuro migliore!”.
E durante l?incontro del 4-5 marzo con i rappresentanti degli episcopati dei Paesi che avevano partecipato direttamente alla guerra o ne erano stati implicati, chiamò i popoli del Kuwait e dell?Iraq a riconciliarsi tra loro e con “la grande famiglia delle nazioni” e, da ultimo, bandì il concetto di ?guerra santa?, che doveva essere rimossa dal suo contrario, il dialogo ecumenico, “simbolo di una vera e pronta riconciliazione tra i popoli”.
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