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1969, l’anno di peace & music

Uno sguardo intimo sulle utopie di un evento epocale

di Maurizio Regosa

Woodstock. Ovvero il mito per alcuni. L’inizio della fine per altri. Curioso che Ang Lee si confronti con i campi (e l’erbetta) del mega raduno hippy dei tempi che furono. Curioso ma fino a un certo punto. Anche con i cowboy e i loro segreti si era concentrato su quella sottile linea rossa che divide il passato dal presente, gli anni «tutti di un pezzo» dalla frammentazione successiva. Potremmo definirlo l’incontro tra un certo tipo di ingenuità (mamma, papà, figlio: il focolare in cui ognuno aveva la sua parte, ed era già scritta) e un’altra forma di candore (tutto si complica, non più ruoli né divieti ma tanto, tantissimo smarrimento). In questo ottimo Motel Woodstock l’incontro oltretutto avviene su un piano decisamente fisico. Orde di giovanottelli stanchi di Vietnam e di happy days si riversano – complice il protagonista Elliot, la cui famiglia ha un albergaccio e soprattutto il permesso per un festival musicale – in una campagna già allora d’altri tempi. Portandovi una ventata d’aria nuova. Ammiccamenti verso il futuro. Speranze vaghe, se non vaghissime. Desiderio di essere diversi. Insomma, le utopie di quegli anni (era il 1969) alle quali il regista guarda con benevolenza. Saranno stati un po’ sconclusionati quei giovani, sembra suggerire, ma guardate anche alle famiglie tradizionali di allora, pentoloni insoddisfatti di frustrazioni e contraddizioni.
Dunque, sulla scorta del volume pubblicato dal vero Elliot Tiber (Taking Woodstock. A True Story of a Riot, A Concert and a Life), Lee ci riporta a quell’agosto. Non per rimettere in scena il concerto, ma per raccontarci del piccolo Elliot e di ciò che avvenne prima e durante. Per dirci come mai si giunse a scegliere quella valle contadina. Come (non) si organizzò l’accoglienza per centinaia di migliaia di persone. Come crebbe insomma quell’evento destinato a cambiare la musica e forse la storia di intere generazioni. E lo fa intrecciando due piani narrativi. Da un lato Elliot e i pochi personaggi che lo affiancano. In primis, la sua famiglia (la madre, tremenda, e il padre, silenzioso; ebrei europei sfuggiti alle persecuzioni). Dall’altro migliaia e migliaia di comparse che scorrono verso il palco. Grande uso di split-screen (lo schermo che si divide e moltiplica la visione). Narrazione iperframmentata che si finge documento. Finché, come per magia, i due livelli si sovrappongono e si comprende in che termini il grande evento può influenzare le singole psicologie e le esistenze individuali. E la chiave è intima, privatissima. Sincera.

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