Cultura
18 anni a perdere. Erika e gli altri cattivi. Quale futuro.
Giustizia. Cosa accadrà con la riforma Castelli. La lettera di Don Mazzi a Erika e l'intervista a Don Gino Rigoldi
Erika e gli altri. Erika e Ambra, Milena e Veronica e Roberto. Ovvero i protagonisti dei ?giovani? delitti degli ultimi mesi: Novi Ligure, Val Chiavenna, il liceo di Sesto San Giovanni. Chi sono veramente? Omicidi che di piccolo hanno soltanto l?età, e che quindi vanno trattati da assassini, o fragili quasi-adulti il cui recupero sarà impossibile senza che sulla loro strada si mettano educatori decisi a volergli bene? La risposta a questa domanda agita l?Europa, alle prese con una baby criminalità senza precedenti. Le pur allarmanti vicende italiane, che hanno portato il governo a progettare una radicale riforma dell?ordinamento penale minorile, sono ben poca cosa se paragonate alla situazione di Gran Bretagna, Francia e Germania. Se da noi infatti i minori rappresentano il 2,8% dei denunciati, nel Regno Unito sono il 23,9%, in Francia il 21,3%, in Germania il 13,1%. Le ricette degli altri Paesi sono state fin qui ispirate a draconiana durezza: prima di essere travolto dal risultato elettorale, il governo di Jospin aveva infatti introdotto multe salatissime per i genitori di piccoli criminali e misure anticrimine contro le baby gang dei quartieri metropolitani a rischio (Oltralpe si può finire in carcere a 14 anni solo per danneggiamenti). Polso ancora più fermo per Tony Blair, che nel 1998 (primo in Europa) ha aperto un carcere privato per dodicenni, e oggi pensa alla sospensione dei sussidi alle famiglie i cui figli si macchiano di comportamenti antisociali. Infine anche il cancelliere Gerard Schroeder, ancora sconvolto per la strage di Erfurt, compiuta da un diciannovenne, ha indicato la lotta ai reati minorili come una priorità della campagna elettorale.
In Italia, il 18 aprile la commissione Giustizia della Camera ha iniziato la discussione della riforma penale minorile presentata dal ministro Roberto Castelli. Un ddl che adotta il pugno di ferro, rendendo più severe le sanzioni per chi commette reati tra i 16 e i 18 anni, e prevedendo il trasferimento nelle carceri per adulti dei ragazzi che raggiungono la maggiore età negli ex riformatori. Proprio come Erika. Servirà? «No, anzi produrrà conseguenze nefaste», dice Giuliano Pisapia, deputato di Prc e avvocato difensore della famiglia di Monica, uccisa a Sesto San Giovanni dal fidanzatino Roberto nel cortile del liceo. «Il rischio del furore punitivo non tarderà a farsi sentire in termini di reati più numerosi e più gravi. Anche perché in molti tribunali esiste una schizofrenia: da un lato si puniscono in modo esemplare i delitti che fanno notizia, dall?altro quasi sempre si ?graziano? i reati meno gravi, quasi fossero spacconate. È pericoloso. Se non si fa capire al minorenne che sbaglia anche di poco, commisurando la sanzione alla colpa, gli si instilla un senso di impunità che lo porterà a commettere reati più gravi». «Il pugno di ferro? È inutile senza prevenzione», conferma Claudia Mazzucato, docente di criminologia alla Lumsa di Roma e membro dell?Ufficio per la mediazione penale di Milano. «E in questo ddl non c?è una sola disposizione che la riguardi. È un errore: la sicurezza ai cittadini si dà solo quando qualcuno ?sceglie? di non delinquere, non quando viene obbligato. Chiavenna o Novi Ligure si sarebbero prodotti comunque, perché i ragazzi non calcolano cosa rischiano».
L?impostazione della riforma, d?altra parte, ha suscitato perplessità anche nella maggioranza. Si è visto dalla discussione in commissione Giustizia alla Camera: il presidente Gaetano Pecorella (FI) ha illustrato il testo esprimendo riserve soprattutto sul trasferire i diciottenni nelle carceri per adulti, e ha proposto di introdurre la discrezionalità del magistrato nella decisione. Le associazioni non profit (le cui audizioni sono iniziate nella stessa commissione) e i cappellani delle carceri si sono espressi in modo analogo, chiedendo al governo una pausa di riflessione e l?apertura di un dibattito. di Gabriella Meroni
don Mazzi scrive a Erika: ti auguro di saper chidere perdono
Erika ha compiuto 18 anni e ci siamo minuziosamente preoccupati di raccontare a tutti del nuovo fidanzatino, dei biscotti di papà, del dolce mangiato con le amiche del carcere.
Aggiungendo una constatazione micidiale. Lei, poverina, nemmeno capisce, là dentro, che cosa voglia dire maggiore età e quali conseguenze comporti.
Un emerito ?signore? ha tenuto a informarci che finalmente la vedremo in faccia, senza le mascherature. Siamo veramente perfidi, forse ignoranti! Io, insisto, con la cocciutaggine che mi è propria, e alla luce dei miei quarant?anni di vita tra gli adolescenti borderline, nel lanciarle un messaggio diverso, anzi un augurio, il mio augurio.
Vorrei tanto che Erika chiedesse, come primo atto della maggiore età, perdono a tutti, e soprattutto a papà, per quanto ha commesso di spaventoso, smettendo una volta per sempre di accusare altri. Sarebbe un gesto vero che la potrebbe introdurre nella fase più strategica della sua vita. Tutto è ancora possibile e recuperabile, ma solo dopo una profonda presa di coscienza del male fatto. Erika ha un grande papà, un padre che ha saputo, che ha voluto perdonarla, perciò auguro a lei, che ha conosciuto il perdono al di là d?ogni comprensione, di provare a chiedere perdono. So che alcuni specialisti hanno fatto ricorso, deponendo un profilo alternativo dei fatti e di Erika. Ho tanta paura che se prima ci si è affrettati nel giudizio di normalità, dal quale è sgorgata la pesantissima sentenza, ora se ne predisponga un altro che assimila Erika alla malata mentale, e all?incapace.
Dobbiamo cercare una terza via, legata strettamente agli sviluppi che le nuove adolescenze ci propongono. Queste tempeste improvvise e devastanti, che distruggono in pochi attimi anni e anni di paziente lavoro educativo fatto dalla famiglia e dalla scuola, non possono essere analizzate e diagnosticate con i vecchi criteri psichiatrici.
Urge un?umile e profonda ricerca dei fatti e sui fatti. Erika non può essere diventata in tre mesi un?automa e una macchina di morte.
I segni della tempesta in parte resteranno, ma in buona parte potrebbero venire trasformati in esperienza dolorosa ma positiva. Dipende molto dalla capacità degli educatori nel rovesciare la tragedia in progetto di vita.
L?accanimento dei giudici sugli episodi di Novi, di Chiavenna e di Sesto San Giovanni mi preoccupano. Posso capire il popolino, ma non voglio giustificare uomini e donne della Giustizia.
La galera può aggiungere solo disastri ai disastri. Cerchiamo altre piste e inventiamoci altre regole. Non lasciamoci prendere dalla paura, dalla rabbia o dal bisogno di accontentare la gente.
Intanto, io sogno una Erika capace di piangere i suoi delitti, capace di chiedere perdono, e di ricercare pazientemente una nuova vita, ricca solo della capacità di dare il centuplo di quanto ha tolto.
Antonio Mazzi
Intervista a Don Gino Rigoldi. Gli irrecuperabili? Non esistono
Studiano, imparano un mestiere, si preparano al ritorno in società. Sono i giovani ospiti del beccaria di milano. il cappellano, che li conosce bene, dice: «immaturi e ingenui. tra gli adulti li perderemmo
Storie di recupero? Quante ne potrei raccontare. In 32 anni da cappellano del Beccaria, ne ho viste tante. Ho persino visto cambiare il profilo dei ragazzi: sempre meno delinquentoni, duri e scafati dell?hinterland milanese, e sempre più ragazzini immaturi, imprudenti, ingenui persino nel crimine. E con questi, più che l?educatore, ti ritrovi a fare la mamma». Ciò che colpisce di più, di don Gino Rigoldi, è che non parla come un prete. Niente omelie, il cappellano del carcere minorile milanese è uno che arriva subito al nocciolo della questione.
Classe 1939, 63 anni, la metà dei quali passati con i ragazzi con problemi. Anche quelli che mordono la mano che li aiuta, quelli che la società preferisce non vedere. E don Gino (che è anche fondatore e presidente dell?associazione Comunità nuova), ne ha sempre qualcuno sistemato a casa sua («in questo momento, per la precisione, 13»), perché una volta usciti dal Beccaria non hanno un posto dove andare.
Vita: Allora, don Gino, quanti ragazzi si riescono a recuperare nel carcere minorile?
Gino Rigoldi: Almeno il 70 per cento. Certo, ci vuole impegno, e a volte bisogna ingegnarsi a trovare le soluzioni più fantasiose perché arrivi quella famosa opportunità che può tirarli fuori dal crimine. Nella maggior parte dei casi, l?avviamento al lavoro e i corsi professionali sono un ottimo trampolino per rientrare nella società. Ad esempio, 4 dei ragazzi che sto ospitando a casa mia si trasferiranno presto a Modena per lavorare in aziende biomedicali ed elettriche.
Vita: Come si sconta la pena al Beccaria?
Rigoldi: Si studia, si impara un mestiere, si cerca di costruire un progetto per il domani. La giornata inizia alle 7.30. I ragazzi si alzano, si vestono, riassettano il loro letto e vanno a fare colazione. Alle 8.30 iniziano le attività scolastiche, elementari e medie. Gli stranieri, che sono circa l?80 per cento dei ragazzi incarcerati, hanno bisogno di un?alfabetizzazione primaria: imparano a leggere e scrivere in italiano, un po? d?aritmetica, geografia. Alle 12.30 c?è la pausa per il pranzo e un paio d?ore dopo iniziano i laboratori: gelateria, falegnameria, meccanica e piccole manutenzioni, arte e disegno. Alle 19.30 c?è la cena e l?ora del ritiro nelle celle è alle 22.30. Cerchiamo di lasciarli il meno possibile nell?ozio, situazione deprimente, che crea inevitabili tensioni. Abbiamo una sala musica, dove possono imparare a suonare; un campo da calcetto e due palestre. Al sabato c?è la messa, cui partecipano cristiani e musulmani: pregano insieme perché gli ho spiegato che Dio è padre di tutti, perciò c?è una preghiera comune e una più specifica, la messa, per i cattolici. E poi ci sono tutte le attività con educatori e volontari.
Vita: Com?è il rapporto con loro?
Rigoldi: Con i volontari, che entrano in carcere almeno una sera alla settimana per fare attività di svago o guardare insieme un film, c?è un rapporto sereno. Con gli educatori, cui è attribuita la responsabilità di accompagnarli nel cammino di recupero, attraverso l?imposizione di regole e disciplina, il rapporto è più conflittuale.
Vita: E il suo ruolo, don Gino?
Rigoldi: Il mio lavoro è più proiettato verso l?esterno, alla ricerca di un lavoro e di un posto dove chi non ha famiglia né casa possa stare. Al Beccaria c?è un gruppo di ?dimissione?, formato da quelli che stanno per uscire e che già lavorano o studiano all?esterno e rientrano solo per dormire. In questo modo si cerca, insomma, di prepararli a un salto graduale nella realtà. è una fase delicata, quella della libertà e della riconquista dell?autonomia. Cerchiamo di evitare che si trovino di nuovo soli sulla strada. Alcuni spariscono e poi li rivediamo al Beccaria. Altri si redimono completamente e oggi sono persone rispettabilissime. Se penso a certi casi che sembravano impossibili?
Vita: Ad esempio?
Rigoldi: Un diciassettenne condannato per tentata strage. Aveva bloccato la porta di un appartamento e appiccato il fuoco. Era un energumeno pieno di rabbia, faceva quasi paura. Abbiamo capito che per aiutarlo bisognava smontare questa sua aggressività. Ricordo ancora le urlate che gli ho fatto, il suo smaccato risentimento. Una volta fuori, è venuto da me con il cappello in mano. Aveva capito che noi eravamo stati i soli a prenderlo sul serio e chiedeva aiuto. Oggi lavora, è sposato. Ricordo che gli ho fatto da autista e da testimone di nozze. Abbiamo festeggiato con cappuccino e brioche. Oggi ha quattro figli piccoli, e mi fa ridere vedere come li segue: basta un dito nel naso o qualche impertinenza e questo animalone buono gli abbaia contro invocando ordine e disciplina. Lui è uno di quelli che, nella logica del disegno di legge Castelli, avrebbe dovuto trasferirsi a San Vittore a 18 anni. In quel caso, l?avremmo perso.
Vita: Conta di più il recupero sociale o l?espiazione pura?
Rigoldi: Sono due facce della stessa medaglia. Un adolescente che ha commesso un crimine grave, un omicidio, la prima punizione se la dà sempre da solo. La gente non sa quanto è difficile, per un ragazzino, convivere con una colpa del genere. In questi casi una rapida dimissione, anche in comunità, può essere controproducente. Negli ultimi anni abbiamo avuto sei suicidi. L?espiazione della pena diventa dunque un modo per portare un po? fuori il peso della colpa. Poi, ovviamente, deve esserci l?accompagnamento educativo, il lavoro di psicologi ed educatori. Sono loro che aprono il primo squarcio di speranza dentro vite che spesso si trascinano il peso di storie difficili e umilianti.
di Benedetta Verrini
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