“… a tutti voi, fratelli e sorelle evangelici e cattolici, credenti e non credenti, voi che abitate qui o nei comuni vicini, visitatori da ogni parte, … siate tutti ugualmente benvenuti, e grazie!”
Così è iniziato il saluto di un pastore valdese intorno ad uno dei tanti fuochi che il 16 febbraio di ogni anno punteggiano la Val Pellice, in Piemonte, a ricordare le “lettere patenti” con cui il 17 febbraio 1848 il re Carlo Alberto di Savoia concesse ai Valdesi, dopo i massacri del XVII secolo e dopo il confinamento nel “ghetto alpino”, i pieni diritti civili e politici. La notizia venne allora – in assenza di telefoni cellulari – comunicata di paese in paese, sino alle frazioni più alte, appunto con l’accensione di fuochi.
È questa una ricorrenza che da anni frequento non solo per legami personali (la mia compagna è di famiglia valdese) e per l’invincibile magia del falò, ma perché, per citare altre parole del pastore, “non è mai stata la festa della libertà per poche migliaia di italiani evangelici valdesi, ma una festa laica, di popolo, di tutti e per tutti coloro che hanno a cuore i diritti e la libertà di tutti, maggioranze e minoranze, senza più discriminazioni né privilegi”. E quindi anche mia.
Sono parole che fanno bene, nell’Italia che sul tema dei diritti fatica e distingue, ammicca e tentenna. Semplici, dirette, senza astio e rivincite, ma anche senza incertezze e giri di parole. Un altro bell’esempio, secondo quanto scrivevo negli ultimi post, di come la sofferenza patita può dare origine – invece che alla chiusura e alla difesa – a sentimenti di apertura e solidarietà.
Ma c’è una seconda cosa che desidero raccontarvi, di questo 16 febbraio. Se l’aria di libertà e tolleranza, infatti, il 16 febbraio la si è sempre respirata, quest’anno intorno al fuoco c’era una seconda sensazione, questa invece non comune. “Grazie di essere venuti, grazie di esserci soprattutto quest’anno che rischia di passare alla storia come l’anno della ritirata dello Stato da queste valli … Una ritirata … disordinata, scomposta, priva di un qualunque progetto degno di tale nome: la Caporetto di una politica nazionale e regionale che non sa o non vuole più amministrare le ancora abbondanti ricchezze di questo nostro paese per il bene comune: per prevenire catastrofi naturali, per sostenere e incoraggiare lo sviluppo di impresa e del lavoro, per garantire i servizi pubblici essenziali… Una politica che sa o vuole solo più ripetere “non ci sono più soldi per niente”, che viene da chiedersi: ma porca miseria, ne abbiamo tirati fuori tanti: che fine hanno fatto?”. Queste le parole, del pastore, invece non così usuali per la ricorrenza; pastore che poi continua parlando della politica che sa o vuole solo più chiudere scuole, ferrovie, tribunali, comunità montane, servizi sociali, case di riposo, ospedali.
Discorsi di questo genere, negli altri 16 febbraio, non ne avevo sentiti. Ecco, questo è lo spaccato dell’Italia che va al voto. Certo, incredula e disorientata, sofferente e rabbiosa; ma soprattutto, pur dopo tante delusioni, con una nuova voglia di mettersi in gioco.
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