Welfare
10mila gruppi, boom del mutuo-aiuto
Ogni giorno nascono due gruppi. Guidano fuori dall'alcolismo e da mille altri problemi. E ora anche le amministrazioni li scoprono
Erano 8.000 due anni fa, oggi sono più di 10mila in tutta Italia, e coinvolgono 200mila persone. Nascono spontaneamente, si ritrovano una volta la settimana, spesso in case private, crescono col passaparola e sono ormai la risposta autorganizzata più efficace a centinaia di problemi sociali e personali: dalla rielaborazione del lutto alla depressione, dalle dipendenze alla solitudine, dall’obesità al burn out. Sono i gruppi di auto-mutuo-aiuto, che anche in Italia come nel resto d’Europa sono diventati ormai un percorso di autoriabilitazione affermato. In poco meno di vent’anni, secondo i calcoli delle associazioni del settore, sono passati da 1500 a 10mila. Di questi, poco meno della metà sono impegnati a vario titolo nel sostenere chi è entrato nel tunnel dell'alcolismo (gli alcolisti stessi ma anche i familiari, in particolare i figli).
Ma visto che le linee del disagio sono infinite, lo sono anche le tipologie di gruppi, tanto che una dozzina di anni fa l’Organizzazione mondiale della sanità ne aveva censite 123. Oltre alle dipendenze (non solo da sostanze o da gioco, ma anche sudditanze affettive e le sempre più diffuse polidipendenze), in Italia vanno forte i gruppi di sostegno ai familiari di disabili o anziani (particolarmente quelli che soffrono di demenze), quelli che si occupano di disagio esistenziale, insicurezza e depressione e i gruppi genitoriali. Ma non mancano altri bisogni più particolari, come gli abusi sessuali, i problemi legati all’identità di genere, i disturbi alimentari e perfino le vittime del racket, i familiari dei suicidi, le badanti straniere e gli “uditori di voci”. Con la crisi poi c’è stato un vero boom, come testimonia Amadio Totis, coordinatore di Ama Lombardia (Amalo), l’associazione di riferimento per molti degli oltre mille gruppi attivi in regione: «Negli ultimi anni si sono moltiplicate le richieste per due tipi di sostegno», racconta, «quello rivolto alle persone dipendenti dal gioco d’azzardo, in particolare dalle slot machine, e quello destinato in generale al disagio lavorativo».
Disoccupati, scoraggiati, neets ma anche esodati e mobbizzati: sono categorie di cittadini prima regolarmente occupati e poi travolti da fallimenti o casse integrazioni che annaspano e non trovano risposta al loro disagio nelle strutture sociosanitarie tradizionali. A chi verrebbe in mente, per esempio, di andare alla Asl e chiedere un aiuto per sconfiggere il “down” che segue alla lettera di licenziamento? «I gruppi di automutuo-aiuto sono nati per favorire l’empowerment personale», spiega Rosaria Di Chiacchio, psicologa anconetana dipendente Asl da anni coinvolta nella rete Ama anche come vicepresidente del cooordinamento marchigiano. «Non si tratta di una psicoterapia, ma di riunioni tra “pari”, persone che vivono una stessa situazione e quindi, anche senza saperlo, sono già “esperte” del problema. I facilitatori, cioè i volontari che conducono i gruppi, sono necessari solo perché abili nel tirare fuori e mettere in gioco le risorse che i partecipanti hanno dentro di sé».
È proprio questa la chiave del successo dell’automutuo-aiuto: non una soluzione preconfezionata o calata dall’alto, non una pretesa di facile e immediata “guarigione”, ma una strada da percorrere insieme. E funziona? «Certo che funziona», dice convinta la dottoressa, «altrimenti il successo di questo metodo non si spiegherebbe. Chi partecipa al gruppo sta meglio perché vede crescere la propria autostima e non si sente più solo, capisce che può farcela». Tanto è vero che poi spesso i partecipanti, nel tempo, diventano a loro volta facilitatori e fondano per spin off altri gruppi.
«Non è una legge, come non è obbligatorio che ci sia un facilitatore», corregge Erica Bugna, assistente sociale e coordinatrice dell’Ama provinciale di Trento, «questo è un mondo ancora molto spontaneo, quasi liquido; certo un leader riconosciuto nel gruppo c’è sempre, ma non è detto che sia codificato, come anche non esistono regole fisse sulla periodicità degli incontri: c’è chi si vede una volta a settimana, chi una volta al mese. Tassativo è invece il numero dei partecipanti: oltre i 10 non ha senso, mancherebbe la personalizzazione».
Certo, per spontaneo che sia, questo è un settore in cui le organizzazioni di secondo livello (soprattutto l’Ama, ma non solo) svolgono un ruolo essenziale: formazione (tutte offrono corsi per facilitatori), selezione (chi vuole entrare in un gruppo della rete Ama deve prima sostenere un colloquio) e know how che soprattutto al Centro Nord ha attirato l’attenzione degli enti pubblici. A Milano e provincia, per esempio, Amalo ha aperto tre sportelli territoriali sull’auto-mutuo-aiuto e realizza una decina di progetti in partnership con Asl e Consigli di zona; Regione Lombardia ha emanato lo scorso autunno un bando destinato “alle reti di mutuo aiuto”, destinando allo scopo un contributo di ben 6 milioni di euro.
Rischio di essere fagocitati o, peggio, utilizzati come manovalanza a poco prezzo per tamponare disagi diffusi? «Il rischio potrebbe esserci», ammette Amadio Totis, «ma chi pensasse di strumentalizzare l’auto-mutuo-aiuto farebbe un grosso errore: questo strumento non sostituirà mai i servizi pubblici, può arricchirli e completarli, ma resta autonomo, in mano alla libertà dei cittadini, che semmai possono diventare più consapevoli dei loro diritti e quindi rompere un po’ più le scatole di prima».
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