L’uomo di cui oggi racconterò la storia era nel Donbass prima dell’inizio delle operazioni militari del 2014, era totalmente filorusso, non ha sostenuto l’Euromaidan (il lungo scontro tra popolo e potere avvenuto a Kiev dal 21 novembre 2013 al 22 gennaio 2014, che si è concluso la fuga del Presidente in carica in Ucraina, Viktor Janukovich, in Russia), riteneva che il Donbass fosse minacciato dai nazionalisti dell’Ucraina occidentale. Finché nel territorio del Donbass non sono cominciati i combattimenti e non è arrivato il mondo russo, con le sue azioni brutali e criminali. Putin, in un recente incontro del club Valdaj, manipolando con leggerezza fatti recentissimi e chiamando cinicamente bianco il nero, ha affermato quanto segue: “Non siamo stati noi a cercare di costringere il Donbass all’obbedienza con i bombardamenti e i mitragliamenti. Non siamo stati noi a minacciare chi vuole parlare la propria lingua madre … Le nostre azioni nel Donbass sono state dettate innanzitutto e fondamentalmente dalla necessità di difendere la gente. Qui sta tutto il senso delle nostre azioni. La guerra cominciata dal regime di Kiev con il sostegno attivo ed esplicito dell’Occidente dura già da dieci anni, e l’operazione militare speciale mira a porvi fine”.
Questa folle narrazione putiniana sta compiendo sotto i nostri occhi i suoi disastri. La storia delle città, una volta fiorenti, del Donbass, bombardate dall’esercito russo e milioni di rifugiati, una parte dei quali si trova ora in Italia. Quello che pubblichiamo è la testimonianza di una persona che ha perso la salute a causa dei soldati, le cui azioni sono state il prologo della guerra di aggressione a un Paese sovrano che nessuno credeva possibile prima del 24 febbraio del 2022 e che molti tuttora non credono stia avvenendo.
«Mi chiamo Konstantin Denisov (il cognome è di fantasia). Sono nato nel 1989 in una cittadina mineraria del Donbass. Una città al confine con la Russia. Sono nato lì e ci ho vissuto tutta la vita. Sono andato a scuola e poi mi sono iscritto al Collegio Minerario. Anche i miei genitori hanno vissuto sempre nel Donbass. Avevamo un’attività nostra, ci occupavamo della manutenzione delle case. Nel 2013 con mio fratello siamo andati a Soči per lavoro. In Russia abbiamo dei parenti, nella regione di Krasnodarskij vive uno zio. È la zona della Russia che conosco meglio. Rostov, Soči, Abcasia … Insomma, abbiamo girato un po’ dappertutto. Sono stato a Soči prima del 2014, prima delle Olimpiadi (le Olimpiadi invernali che si sono svolte a Soči), prima che Adler e Soči venissero riempite di cemento. Belle strade. Nel 2014 ho lavorato a Krasnaja Poljana (una stazione sciistica, dove si sono svolte le Olimpiadi ndr). Prima del 2014, tutti quelli che lavoravano lì, tutti i cittadini stranieri, ma anche i cittadini russi che non avevano la residenza a Soči sono stati tutti deportati, prima delle Olimpiadi, sono stati portati via con grandi autobus. Per me e mio fratello è stato un grande stupore. Perché? Io avevo i documenti in ordine, ogni tre mesi attraversavamo il confine. Nel 2014 siamo tornati a casa. Il Maidan era al suo colmo. Sulla cartina dell’Ucraina, noi siamo all’estremo confine orientale. Non capivamo cosa stava succedendo lì. Le informazioni erano contradditoria. Siamo il paese di Janukovich[1], giusto?
Poi ci hanno offerto un lavoro a Anapa (una cittadina nella provincia meridionale della Russia, sulle rive del Mar Nero). Lì vivevamo in piccoli prefabbricati e costruivamo delle case di venti piani. Con noi lavoravano dei ragazzi dell’Ucraina occidentale. Loro mettevano i monoblocchi, noi ci occupavamo delle finiture. Era proprio il periodo del Maidan, e si era così tesi tra l’Ucraina Occidentale e il Donbass che perfino lì, sul cantiere, in un piccolo territorio, c’era una piccola guerra. Allora avevo 25 anni, e non lo capivo. Per noi del Donbass loro erano veramente hunta[2], banderovtsy[3], e lottavano per l’autocoscienza nazionale degli ucraini.
A marzo del 2014 la Russia si è annessa la Crimea. Qual è stata la tua reazione?
Quando i “verdi”[4] sono arrivati in Crimea io ero già tornato nel Donbass e allora la guerra dell’informazione (la propaganda da parte della Russia) è diventata una cosa così esagerata che quasi quasi avrei preso il fucile e sarei andato a combattere per la DNR[5]. Ero un ragazzo nel pieno delle forze, volevo davvero andare a combattere per la DNR, perché pensavo che nell’Ucraina occidentale erano tutti impazziti e, come diceva la propaganda, bruciavano i bambini. Poi a me e mio fratello è successo questo: mentre lavoravamo ad Anapa, in uno dei nostri ritorni a casa, nel Donbass abbiamo comprato una macchina e abbiamo messo una targa russa. E a mio fratello hanno proibito di entrare in Russia per 30 anni. Io invece ancora potevo. Allora vado in Russia, chiudo tutte le questioni con il cantiere (dovevamo ancora completare alcuni appartamenti), finiamo questi appartamenti e poi torno a casa. Ma nel frattempo mio fratello era stato fatto prigioniero dall’esercito russo. Banalmente perché aveva attraversato la strada. Stava passando una colonna di carri armati, lui ha attraversato di corsa. Si è fermata una macchina e l’hanno buttato nel bagagliaio. Era l’inverno del 2015. È stato sottoposto a fortissime pressioni psicologiche e fisiche. Lo costringevano a raccogliere i mozziconi di sigarette, gli infilavano degli aghi nelle dita, lo mettevano su un letto di quelli sovietici, con le reti in metallo, poi attaccavano gli elettrodi di un accumulatore e giravano la rotella. Certo, il voltaggio non è alto, ma la forza della scossa è tale che ti fa rintronare il cervello. E gli facevano molte domande, lo prendevano molto in giro.
Cioè, era prigioniero?
Sì, era prigioniero. Poi le donne (dei comitati di mogli e di madri, nati spontaneamente, che si occupano della ricerca e della liberazione degli uomini catturati) sono riuscite a liberarlo. Anche grazie all’aiuto di un suo conoscente molto potente, che lavorava nel settore del carbone, è partito e si è trasferito a Kiev. Gli hanno dato un lavoro come muratore. Guadagnava poco, ma io avevo soldi, stavo finendo il lavoro in Russia. In quel periodo infatti ero in Russia. Poi sono tornato, attraverso il Caucaso e la Crimea sono rientrato in Ucraina. A Kiev. Siamo rimasti lì con mio fratello, mentre i miei genitori erano rimasti ad Anapa, in Russia. Avevamo preso accordi con i proprietari moscoviti di alcuni alberghi della città, per rimanere come guardiani durante l’inverno, periodo in cui gli alberghi erano chiusi. Poi i miei genitori si sono stancati di questo lavoro. Mio padre è del 1954, mia madre è di tre anni più giovane: si sono stancati e sono tornati nel Donbass. E quell’anno è stato strano, chi era dove, dove era il mio lavoro …: stavo in pensionato a Kiev, tiravamo avanti come potevamo e poi all’inizio del 2017 i rapporti con il Donbass si sono interrotti del tutto.
Ma i tuoi genitori erano là?
Sì. Non riuscivamo a telefonare, a contattarli. I miei genitori dovevano spostarsi oltre il confine per telefonare, per farci sapere che stavano bene. Avevano interrotto il collegamento, i cellulari non funzionavano. Abbiamo detto ai nostri genitori di trasferirsi, che avremmo cercato per loro un posto nell’Ucraina centrale. Mio padre però era molto contrario. Con mio fratello abbiamo insistito, abbiamo detto: o vi trasferite, o non vogliamo avere più niente a che fare con voi. E nel 2017 sono tornato nel Donbass, passando per Elenovka. Era un venerdì, me lo ricordo come fosse adesso. Al confine ho parlato con un funzionario dell’FSB, un russo, molto carino. Io gli ho detto tutto, dove vivevamo, dove lavoravamo. Poi al lunedì, i miei vanno a ritirare i documenti per partire. L’automobile era già caricata con tutto quello che volevano portare via. Eravamo pronti. E lunedì mattina mi suonano alla porta, sei o sette persone a viso coperto. Tenevano la testa abbassata, come fanno di solito per evitare domande, e mi buttano nel bagagliaio. Io non so, non ricordo, forse mi hanno bendato gli occhi, ero in totale confusione, non sapevo cosa mi stava succedendo. Forse non sono nemmeno riuscito a gridare.
Probabilmente eri sotto shock …
Shock totale. Mi hanno colpito con il calcio di un fucile e ho perso conoscenza. Mi hanno tirato fuori dalla macchina, mi hanno buttato in uno scantinato. Avevo perso del tutto il senso del tempo: né ore, né minuti, né quando sorgeva il sole, né quando tramontava. Nessuno lo sapeva. Lo capivamo quando qualcuno di noi, di quelli che erano stati buttati in quello scantinato, che era senza finestre e senza porte, andava a prendere l’acqua. Allora vedeva che era giorno. E poi c’erano gli interrogatori, delle umiliazioni continue, ci dicevano sempre che ci avrebbero ammazzati. E quelle parole, “adesso ti ammazziamo” a un certo punto per noi avevano perso significato. Vuoi ammazzarmi, ammazzami allora! Io forse mi ero già rassegnato. E poi sono arrivati i combattenti.
Cioè?
Dal fronte (la linea definita sulla carta tra le forze armate dell’Ucraina e le milizie del DNR, secondo gli accordi di Minsk[6]).
Chi erano? Del Donbass?
Erano dei militari regolari russi più quelli del Donbass, più dei ghereùshniki (dei collaboratori del dipartimento dell’intelligence del Ministero della difesa della Russia). C’era un tipo, soprannominato Jason. I soldati “giocavano” con noi a pjatnàshka, praticamente un tipo di box fatto però solo con il palmo della mano.
Cosa?
Si chiama così. Un tipo di box senza guantoni, solo con il palmo della mano. Io non reagivo, non usavo tutta la forza, ma a un certo punto ne ho colpito uno alla mascella, e evidentemente gliel’ho rotta. Ha cominciato a urlare e ha afferrato il fucile, mi voleva sparare.
Tutto questo è successo nel 2017?
Sì. Forse avevano deciso di farmi morire. Avevo un ematoma enorme e perdevo sangue. Dopo un po’ di tempo una persona mi ha portato dell’acqua. E l’ho riconosciuto, era uno che aveva studiato nella mia scuola, era forse un po’ più grande di me.
È venuto un medico?
Ma quale medico!
E perdevi sangue?
Sì, si era staccato il muscolo dall’osso. La gamba continuava a gonfiarsi e diventava nera. Non riuscivo a fare niente, non potevo muovermi, avevo la febbre …
Praticamente stavi morendo.
Sì, stavo morendo. Ero lì steso, mi portavano dell’acqua, ma non so se l’ho bevuta o no. Alla fine sono riuscito a dare un biglietto a quel mio compagno di scuola. Gli dico di consegnare quel biglietto, che avrebbe ricevuto così tanti soldi da non riuscire a trasportarli.
Hai scritto ai tuoi genitori?
Ho scritto il numero del cellulare di mia mamma. E mia madre e le altre donne sono venute di corsa a liberarmi.
È la seconda volta che parli di questo, che c’era un comitato di donne, organizzato, per salvare i propri uomini?
Sì, si erano organizzate.
Si erano date un nome, come organizzazione?
No. I militari si vergognavano a sparare a delle donne. Le donne tenevano la situazione sotto controllo, facendo in modo che i militari della DNR non aprissero il fuoco, non sparassero dalle case. Perché altrimenti i militari ucraini avrebbero visto da dove arrivavano i colpi, avrebbero risposto al fuoco e ci sarebbero andati di mezzo i civili, che spesso venivano usati come scudi.
Cioè, usavano per i combattimenti, come riparo, i quartieri dei civili, con gli abitanti? Ci vivevano ancora delle persone?
Non è che ci vivessero, ci stava della gente … Già prima del 2017 dal Donbass erano andati via tutti quelli che avevano un lavoro, che avevano un po’ di soldi, che avevano un certo peso nella società. Tutti.
Erano andati via tutti?
Tutti. E sono convinto che circa l’80% è andato in Ucraina, verso occidente. Tanto più che Ahmetov[7] stava creando molti posti di lavoro e dava anche delle abitazioni …
In Ucraina Centrale?
Sì, lì ma anche vicino a Mariupol’ e nei paesi vicini alla linea di confine. La gente andava lì e viveva normalmente, tranquilla. Io sono stato trasportato a Kiev e mi hanno operato.
È stata tua mamma a salvarti?
Sì, è mia mamma che mi ha salvato. La sua capacità di organizzare e di organizzarsi mi ha salvato.
È arrivata e ti ha tirato fuori dallo scantinato?
Sì, mi hanno preso e portato fuori.
Eri incosciente?
Sì, ero incosciente, avevo quasi 40 di febbre. E da 89 chili ero arrivato a pesarne 36. Come ad Auschwitz. Lì ho capito come si sentivano le persone dopo Auschwitz.
Più o meno per quanto tempo sei rimasto prigioniero? Hai potuto fartene un’idea, dopo?
Un mese e mezzo. Dopo quello che era successo, non si poteva nemmeno pensare ad un ritorno nel Donbass. Siamo venuti via tutti.
Tutta la famiglia?
Sì, tutta la famiglia. Abbiamo comprato una casa.
Vicino a Kiev?
Sì, possiamo dire così. Cioè, prima abbiamo comprato la casa, e poi abbiamo cominciato a traslocare. E mia moglie, che è con me adesso, ha fatto in tempo a vedermi con tutte e due le gambe. Mi ha visto quando ero una persona normale. Quando aveva 19 anni.
Vivevate insieme?
No, la casa che avevamo comprato era di fronte a quella dove abitava lei. I due cancelli erano proprio uno di fronte all’altro.
Come ha fatto a vederti con due gambe?
Nel 2017 avevamo già visto quella casa.
Ah, ho capito, prima di andare a portare via i vostri genitori.
Sì. E lei abitava lì di fronte. Dopo aver perso la gamba non ho voluto vedere nessuno per almeno un anno e mezzo. Nemmeno gli amici, nessuno. Finché non mi sono rimesso un po’.
Psicologicamente?
Sì. Prendere in mano le stampelle e mettermi in piedi era un problema enorme.[8] Anche se ero forte. Prima facevo free ride sui pattini a rotelle, fino a 27 anni ho pattinato quasi come un professionista. Mi piaceva. Dopo il lavoro, anche se ero molto stanco andavo a pattinare.
Ho visto le fotografie del Donetsk prima del 2014 e dopo...
Nessuno l’ha bombardato, so che sta per chiedermelo. E la cosa più interessante è quello che ha fatto la DNR nel Donbass. Si sono presi cura dell’immagine della città. Hanno lavato, sfregato, pulito, piantato fiori e aiuole. Si sono preoccupati solo dell’aspetto generale della città.
È quello che mostrano alla televisione?
Ma dell’infrastruttura: l’acqua, le reti, le comunicazioni …, nessuno se ne è occupato. Nessuno ci pensa né fa qualcosa. Se qualcuno non lo sa, nella miniera Junk del Donets nel 1979 è stata fatta esplodere una bomba atomica. Quella miniera esiste ancora. È pericolosa, perché se non si pompa fuori l’acqua, l’acqua va a finire per ruscelli sotterranei nel Don, fino a Rostov (Russia meridionale), passano le radiazioni.
Tornando a noi, vi siete trasferiti a Kiev.
Sì, ci siamo installati a Kiev. Ed è successa una cosa interessante. Ogni volta che chiamavo nel Donetsk i ragazzi con cui avevo studiato, mi dicevano delle cose assurde: “Veramente nei supermercati mangiate i bambini?”.
Ma in che senso?
Già, persone in carne ed ossa mi chiedevano veramente, non per scherzo, non era uno scherzo per loro: pensavano veramente che nell’Ucraina occidentale si tagliano le mani ai bambini piccoli, poi le vendono nei supermercati e le si mangiano. E io gli dico: “Sì, adesso vado al supermercato e ti faccio vedere le manine, i reni e tutto il resto”. Assurdo! Dopo ho smesso proprio di chiamare. Ho cambiato numero e abbiamo cominciato a vivere tranquilli. Nel 2019 mi sono sposato con Alina, ci siamo trasferiti proprio in città e ho cominciato a lavorare come taxista.
Con una gamba sola?
Eh sì, mi è rimasta la destra e posso guidare tranquillamente le auto con il cambio automatico. Alina ha cominciato a lavorare come cuoca …
Aspetta, torniamo indietro. I medici ti hanno salvato: non hanno salvato la gamba ma hanno salvato te.
Sì, mi hanno dato un documento da firmare, in cui dicevo che ero d’accordo con l’operazione. C’era un rischio altissimo di sepsi.
Per questo chiedo.
L’80% di probabilità che morissi, e il 20% che potessi sopravvivere con due gambe. Ma il medico mi ha detto che non voleva tenermi in ospedale, che non voleva un cadavere vivente, che sarei morto in poco tempo. Non l’hanno spiegato a me, però, ma ai miei genitori. A me hanno dato quella carta da firmare: vuoi vivere, allora firma. Basta. Ho firmato e mi hanno amputato la gamba. E mi ricordo dei trattamenti molto duri in terapia intensiva, non viene mai mostrata pietà verso i malati, non si deve. Agli infermieri insegnano che se mostri comprensione poi ti chiedono sempre di più.
È la tradizione sovietica.
Non si deve, perché è un modo di manipolare le persone, e in effetti è vero che molti sono dei manipolatori …
Torniamo alla mattina del 24 febbraio.
Stavamo dormendo, avevamo il televisore acceso basso. Si sentiva la musica. Mi sono svegliato alla prima esplosione. Sapevo che rumore fa lo scoppio dei proiettili. Ma non erano proiettili, era un missile. Mi sono buttato giù dal letto e sono corso sul balcone, e con la coda dell’occhio guardavo la televisione. E lì avevano già cominciato a dare delle notizie. E sui canali Telegram dicevano dove si poteva stare tranquilli, dove si poteva uscire, dove si poteva cenare eccetera. E poi lì c’erano già dei video, con gli elicotteri. Ero confuso, non capivo più niente. Non sapevo cosa fare. Non riuscivo a telefonare a nessuno. Né a mio fratello, né a nessun altro. Per il sovraccarico era caduta la rete. Ho detto a mia moglie: Preparati, prendi i documenti. Io sempre i documenti pronti in un posto particolare, in una cartelletta separata. Anche se ora qui in Italia succedesse qualcosa, li ho sempre a portata di mano. Ci prepariamo di corsa, ma Alina, che è una donna, comincia “prendo questo, quest’altro … Allora le dico: mettiti una tutta e usciamo di corsa. Il giorno prima avevo fatto il pieno alla macchina. E non sappiamo cosa fare, la gente comincia a organizzarsi, a creare dei gruppi di autodifesa nei cortili, davano le informazioni su Telegram. I sabotatori avevano lasciato dei segni con la vernice catarifrangente per segnalare gli obiettivi.
Tu hai visto personalmente questi sabotatori?
Certo, li ho visti mentre lasciavano quei segni. Vicino a noi c’era il ponte di Berestejk, a 400 metri, e i ragazzi del nostro cortile hanno cominciato a scavare delle trincee nelle aiuole dei fiori. In quel punto si può passare sul ponte, ma si può anche passare sotto il ponte e lì, sull’autostrada verso Zhytomir c’è una base militare. L’esercito russo voleva arrivare a quella base. Ma i ragazzi si sono preparati, hanno scavato le trincee, le hanno poi nascoste, mimetizzate e nemmeno un militare sarebbe riuscito a identificarle. E da quelle trincee sparavano ai sabotatori, le nonne buttavano le molotov dai balconi. E dai giardinetti per i bambini tiravano fuori i pneumatici.
Cosa?
I pneumatici usati, per metter su delle barricate, ammucchiavano tutto. In molti, e anche noi, prendevano le lenzuola e le strappavano in strisce, per le molotov, le bagnavano di benzina. Tutto questo accadeva nei cortili, proprio vicino agli ingressi delle case. Tra il 24 e il 25 febbraio abbiamo cominciato ad organizzarci in squadre. Il 25 hanno cominciato a distribuire le armi, venivano proprio i trattori, ti chiedevano di vedere il passaporto e poi ti davano i fucili. Se non lo avessero fatto, i russi avrebbero conquistato Kiev. I sabotatori avanzavano. Dal punto fino al quale sono arrivati a quello dove si trovava Zelenskij c’erano massimo 3 chilometri.
Pensi che l’esercito russo avrebbe preso Kiev?
Sì, l’avrebbero presa se la gente non si fosse organizzata. Come si sono compattati a Kiev e in generale in Ucraina non l’ho mai visto. Non era così nel 2014 quando ero nel Donbass. Lì tutti avrebbero cominciato a gridare “Viva la Russia, avanti! Gli Ucraini violano la nostra lingua!”. Anche se io fin dall’infanzia ho potuto studiare l’ucraino, e non mi ha creato problemi quando la televisione ha cambiato lingua ed è passata all’ucraino.
A volte dicono che gli ucraini bilingui non si rendono nemmeno conto della lingua in cui stanno parlando …
Sì, per me è così. Ma quando hai visto un film americano doppiato in russo e poi lo vedi doppiato in ucraino fa ridere, perché traducono solo l’essenziale e in ucraino ci sono meno parole per dare una traduzione precisa dall’inglese, si devono usare dei giri di frase che detti poi sono ridicoli. Fa ridere. Ma per me la lingua ucraina non è mai stato un problema, avevo anche dei bei voti. Era mia mamma che mi faceva studiare, a modo suo: prendeva un libro, per esempio di letteratura, e mi chiedeva: “Dove siete arrivati?”. Poi lo sfogliava, si fermava e mi diceva: “Raccontami questo”. E io ho una memoria sia fotografica che uditiva, e riuscivo tranquillamente a ripeterle la lezione, anche se magari a scuola non ero stavo particolarmente attento. Il problema per me, su entrambe le lingue, era l’ortografia.
Quel 24 febbraio hai cominciato subito a partecipare alla difesa?
Sì, subito. Chi, dove, cosa bisogna portare dove … Ho chiamato mio fratello, che mi ha detto di rimanere in casa fino ad un suo segnale. Volevamo spostarci verso l’Ucraina centrale, lungo l’autostrada di Karkov, e non si capiva bene cosa stava succedendo. Una volta con Alina abbiamo provato, forse era il 5 marzo, ad andare via attraversando la regione di Zhitomir, ma ci hanno fatto tornare indietro. Avevo raccolto una donna con alcuni bambini, che bisognava portar via. Poi ci hanno detto che avevano appena spezzato una colonna di kadyrovzy (i combattenti provenienti dalla Cecenia, nominati così dal loro governatore, Ramzan Kadyrov), che erano scappati nei boschi e avrebbero potuto sparare a noi e alla macchina. Allora siamo tornati a Kiev. La città era già praticamente vuota. C’erano lunghe colonne di macchine che cercavano di lasciare la città, c’erano barricate e posti di blocco dappertutto. Gli ucraini si erano inventati un buon metodo per verificare la nazionalità: nessun russo riesce a pronunciare correttamente la parola “paljanitza” (è un pane rotondo). Poi il 9 marzo siamo riusciti ad andar via, lungo l’autostrada per Odessa, in macchina con noi avevamo preso anche una donna con due bambini piccoli e due cani.
Quale donna?
L’avevamo trovata alla stazione dei treni. Anche lei voleva andare in Europa e non sapeva come fare. Ci siamo accordati di darle un passaggio condividendo il costo della benzina.
Avevate già deciso di lasciare il Paese?
Sì. Siamo riusciti a lasciare Kiev. Ho spremuto la macchina il più possibile. Siamo passati attraverso dei boschi, ci siamo persi, non funzionava niente, né la radio, né i cellulari, né il GPS, niente. E poi abbiamo incrociato una enorme colonna di carri armati, ma erano i nostri. Ci hanno aiutato, ci hanno detto in che direzione andare. Così, attraverso Ternopol’ siamo arrivati a Chernotzov (una città al confine con la Romania). L’ abbiamo provato a passare il confine, mi hanno detto però di andare all’ufficio dell’arruolamento militare per farmi dare un certificato sul fatto che avevo il diritto di passare il confine.
Ti hanno mandato per l’arruolamento?
Non era colpa loro, la legge dice che gli uomini fino ai 30 anni si devono arruolare. E l’evidenza della mia invalidità non era sufficiente, l’ufficio doveva rilasciare una carta che riconosceva l’invalidità e mi dispensava dall’arruolamento.
Poi siete arrivati in Romania?
Passato il confine ho visto che c’erano degli autobus fermi, con scritto “Milano”. E fin dal liceo sognavo di andare a vedere l’Arco della pace. Così siamo arrivati a Milano, dopo un viaggio di 48 ore, senza lavarci, stanchi. Volevamo trovare un albergo, almeno per lavarci e per dormire un po’. Abbiamo preso un taxi vicino a Cadorna, ci siamo fermati a chiedere in 3 o 4 alberghi ma erano tutti pieni. Allora il taxista dice: “Facciamo così, vi porto al consolato dell’Ucraina”. Con lui parlavamo in inglese, usando il traduttore di Google. Sono arrivato in Italia e tutto quello che sapevo era ciao, pizza, buongiorno e basta. Il taxista non ha voluto nemmeno un centesimo per la corsa, anche se il contatore diceva 90 euro. Siamo entrato nel Consolato e ci hanno ricevuto delle ragazze che ci hanno detto di aspettare. Siccome avevano notato che sono un invalido ecco cosa hanno fatto. Proprio di fronte al Consolato abita Lucia, con la sua famiglia. Vivono lì dal XIX secolo. Al primo piano c’è il suo ufficio, al secondo piano vive la mamma, e al terzo piano abitano lei, suo marito e i tre figli. La mamma non c’era, e così ci hanno dato un piano. Siamo stati lì per due settimane, finché non ci hanno trovato un’altra casa. Ci ha aiutato ad ottenere il permesso di soggiorno (il nostro numero di permesso è il 28, siamo stati tra i primissimi ad ottenerlo). È andata lei in giro per gli uffici e ci ha aiutato a compilare tutti i documenti. Sono una famiglia meravigliosa, ci sono state delle cene bellissime con loro. Siamo stati da lei aspettando che Lorenzo mettesse a posto il suo appartamento a Carimate e facesse tutti gli allacciamenti alla luce, al gas.
Chi è Lorenzo?
Anche lui è una persona normale che però aveva scritto al Consolato dell’Ucraina dicendo che aveva un appartamento e che poteva metterlo a disposizione. Siamo stati a Carimate per 8 mesi. Certo, io ero a disagio: lui voleva vendere quell’appartamento. Ma lui ci ha detto: “Ve lo lascio finché non si trova un posto dove possiate trasferirvi e vivere in condizioni normali”. E poi ci siamo trasferiti qui e lui è venuto per vedere se le c condizioni erano buone e ha approvato.
E come ha trovato questo appartamento a Como?
È Fondazione Cometa che l’ha trovato, Paolo.
Ah, adesso è tutto chiaro, ho capito tutto. Ora, riguardo alla questione dell’identità. Quando ci siamo conosciuto, mi hai raccontato che sei di stirpe cosacca. Ma tu ti consideri russo, cosacco, ucraino …?
Io sono un cosacco del Don.
Chi sono i cosacchi?
I cosacchi sono un popolo libero.
Cioè? Un mio amico, uno storico, mi ha detto che si tratta di un popolo a se stante.
Noi possiamo trovarci in qualunque Paese, essere cittadini ucraini, cittadini russi. Ci sono sette truppe (raggruppamenti?) di cosacchi: i cosacchi del Don, i cosacchi della Russia Centrale, i cosacchi del nord e così via [9]. Io di me dico che sono un cosacco del Don: il mio trisnonno, quando c’è stata la persecuzione contro i cosacchi (il governo sovietico aveva sciolto le truppe cosacche) ha bruciato l’uniforme. Aveva una mandria di cavalli vicino a Donetsk e i rossi o i bianchi (Così venivano identificate le due parti che si combattevano nella guerra civile. La tragedia dei cosacchi del Don è ben descritta nel romanzo di M. Sholohov, Il placido Don) gli hanno requisito la mandria, gli hanno lasciato cinque cavalli. In punto di morte, il mio trisnonno ha lasciato quei cinque cavalli, una spada, una fotografia e un pugnale di famiglia al mio bisnonno. Quando poi già sotto Stalin è cominciata la dekulakizzazione [10]e hanno portato via anche quei cinque cavalli, il mio bisnonno ha buttato la spada nel Don e si è costruito una fisarmonica. Non so come, è riuscito a nasconderci dentro il pugnale (che era lungo 50/60 cm. e sembrava quasi una piccola daga romana). Aveva un astuccio in argento, e anche l’impugnatura era d’argento. Ha nascosto questo pugnale nella fisarmonica e in una piccola scatola ha nascosto la fotografia. Ed era molto interessato a mio zio, il fratello di mia mamma che è tuttora un ufficiale cosacco. Vive in Russia, a Soči. Insomma, mio nonno ha consegnato a questo mio zio la fisarmonica e la piccola scatola. “Tutto il resto puoi perderlo, puoi venderlo, ma conserva questi due oggetti”. Poi la parte in pelle della fisarmonica si è seccata e il pugnale è scivolato fuori. E nella scatola, in un comparto segreto, c’era la fotografia del mio trisnonno con i suoi due fratelli.
Cosa prevedi per il futuro?
Penso che tutto questo finirà con la dissoluzione del governo in Russia. E forse anche in Ucraina. Non si capisce cosa succederà. Guardo quello che sta succedendo, e parlando con i ragazzi che sono al fronte per l’Ucraina, in prima linea, sento che non bastano le armi. Se dessero le armi tutto finirebbe nel giro di 3 o 4 mesi. O come minimo scaccerebbero i russi dal proprio territorio. Né l’Europa né l’America si sono ancora fatte un’idea di cosa succederà dopo Putin, non immaginano come sarà.
E con quel tuo zio hai ancora rapporti?
No, non si può rimanere in contatto perché l’FSB controlla tutto. E mio zio è sposato con un maggiore di polizia.
Non gli hai più parlato dopo l’inizio della guerra?
L’ultima volta che ci siamo sentiti era forse il 2015. Ogni uomo cerca di fare in modo che tutto gli vada bene. Ogni uomo pensa: questa cosa non mi riguarda, questa cosa non mi tocca, questa cosa non arriverà fino a me. E poi ecco. Ho un amico che adesso vive in Romania: ha sia il passaporto ucraino che quello russo. È cominciata la chiamata alle armi degli ucraini e l’hanno chiamato (ha il passaporto e la cittadinanza), poi è cominciata la chiamata alle armi dei russi e l’hanno chiamato (dato che il passaporto e la cittadinanza. In sostanza è stato chiamato due volte, dall’uno e dall’altro fronte. E lui ha degli affari, delle macchine, si occupa di molte cose, ha un appartamento ma non può vendere niente. E adesso se torna in Ucraina lo mettono in prigione, può risultare che ha collaborato con il nemico.
Ma lui non ha fatto niente, no?
E chi lo sa. Ho dei conoscenti che vivono vicino al confine con la Bielorussia, e che si occupavano di far passare il confine alla gente. E adesso sono in prigione in Europa. Appena è cominciata l’operazione speciale, l’ho detto ai miei amici in Russia: Verrete a bussare in Europa, ma non vi aprirà nessuno …
[1] Il precedente presidente dell’Ucraina, originario del Donbass
[2] Abitanti dell’Ucraina occidentale, responsabili in qualche modo, secondo la mentalità comune, del nazionalismo ucraino.
[3] Seguaci di Stepan Bendera
[4] Definizione slang per i soldati russi che in pochissimo tempo sono arrivati in Crimea
[5] Donetskaya Narodnaya Respublika, la Repubblica popolare del Donetsk, una formazione illegale sul territorio dell’Ucraina, creata con il supporto della Russia)
[6] Il protocollo di Minsk (https://it.wikipedia.org/wiki/Protocollo_di_Minsk)e il secondo protocollo di Minsk (https://it.wikipedia.org/wiki/Protocollo_di_Minsk_II)
[7] Rinat Ahmetov, oligarca ucraino nel settore carbonifero
8] A questo punto Konstantin inaspettatamente passa a parlare in russo puro, senza fricative, senza rendersene conto. Fin lì aveva parlato in dialetto surzhik, un misto di russo e ucraino.
[9] In realtà all’inizio del XX secolo se ne contavano 11, ora siamo arrivati a 13
[10] La repressione di Stalin contro i contadini ucraini, che ha coinvolto più di 2 milioni di persone.
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