Io sono una parte di tutto quello che ho incontrato: Tennyson non poteva dirlo meglio, ma c’è chi lo fa succedere ogni giorno, trasformando il riscatto sociale da vicenda individuale in una missione condivisa. È quello che accade da tempo all’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni (USSM) di Palermo, Ministero della Giustizia. Sono i progetti e percorsi di reinserimento sociale e di inclusione socio-lavorativa sviluppati nell’ambito dell’USSM Complesso Malaspina, di cui è coordinatrice Carmela Polizzi, da anni in prima linea con passione e tenacia insieme ai colleghi per costruire opportunità di riscatto per i giovani che hanno commesso reato, sgretolando muraglie di pregiudizi a favore dell’inclusione a più livelli. «Creiamo percorsi esperienziali partendo dagli interessi e dalle attitudini dei ragazzi, tenendo alta la loro motivazione», afferma.
Protagonisti dei percorsi sono ragazzi sottoposti a procedimenti penali da parte dell’autorità giudiziaria minorile, che hanno commesso reati nella fascia d’età compresa tra i 14 anni compiuti e i 18 non compiuti. «Se ci sono dei percorsi educativi in atto li seguiamo fino al venticinquesimo anno d’età in modo da evitare l’interruzione di queste esperienze così importanti», specifica. Prevale la presenza maschile rispetto a quella femminile. La durata dei percorsi è variabile: da un minimo di 6-9 mesi fino a un massimo 3 anni nel caso di reati gravissimi. «Li seguiamo dall’entrata nel circuito penale, che scatta con la denuncia del reato, fino alla fuoriuscita, sia che vengano condannati o che seguano dei percorsi che arrivino a impedire tale condanna».
Prima di tutto occorre fare chiarezza sulla definizione. «Con reinserimento sociale intendo l’inserimento dei ragazzi nella loro comunità di appartenenza», dice Carmela Polizzi. «Significa soprattutto inserirli in circuiti virtuosi di tipo scolastico, educativo e professionalizzante capaci di creare nuove opportunità e consapevolezze, anche in merito alla legalità». Percorsi che forniscono così un vero e proprio equipaggiamento sul fronte cognitivo, valoriale e non da ultimo emotivo: «Li definiamo responsabilizzanti e riparativi proprio perché forniscono ai ragazzi strumenti per riuscire a rispettare le regole sociali», continua Polizzi. E aggiunge: «È fondamentale garantire a questi giovani una fuoriuscita dal circuito penale nel più breve tempo possibile per evitare che su di essi venga posta un’etichettatura negativa. Parliamo di ragazzi che spesso non vengono ascoltati nemmeno dai loro familiari: la relazione empatica attivata dall’operatore/operatrice sociale permette anche di fare un’attenta analisi dei loro desideri, bisogni e attitudini. Da qui costruiamo, insieme al ragazzo e possibilmente alla sua famiglia e al territorio di appartenenza, percorsi educativi individualizzati. Lavoriamo molto sull’autostima, spesso molto bassa in questi ragazzi che sembrano non avere sogni quando in realtà li hanno, devono solo imparare a riappropriarsene».
Sono percorsi che definiamo responsabilizzanti e riparativi proprio perché forniscono ai ragazzi strumenti per riuscire a rispettare le regole sociali. Parliamo di ragazzi che spesso non vengono ascoltati nemmeno dai loro familiari. Lavoriamo molto sull’autostima, spesso molto bassa in questi ragazzi che sembrano non avere sogni quando in realtà li hanno, devono solo imparare a riappropriarsene
Carmela Polizzi, coordinatrice ercorsi di reinserimento sociale e di inclusione socio-lavorativa dell’USSM Complesso Malaspina
Primo, credere di poter cambiare
Uno dei settori che appassiona molto è quello della ristorazione. «Facciamo anche dei laboratori di cucina multietnica per promuovere contaminazione positiva a livello culturale e solidarietà», sottolinea Polizzi. Non mancano progetti di tipo socio-educativo, socio-ricreativo e sportivo come quello della barca a vela: «Oltre a far acquisire competenze, queste esperienze permettono ai ragazzi di mettere in gioco la loro capacità relazionale, rafforzandone l’autostima». Un altro filone molto importante è rappresentato dai percorsi di educazione alla legalità: emblematico il progetto “Amunì” realizzato da USSM in collaborazione con l’associazione “Libera contro le mafie”: «Viene organizzato ogni anno: i ragazzi incontrano i familiari delle vittime di mafia e visitano i luoghi dove sono accaduti eventi significativi. Si tratta di esperienze molto forti che scuotono i ragazzi innescando in loro un cambiamento».
Senza cedere a visioni edulcorate, affrontiamo anche il tema delle difficoltà incontrate e del corposo lavoro attivato per contrastarle: «Le difficoltà possono riguardare la persona o derivare dal sistema», precisa Polizzi. «Non tutti i ragazzi coinvolti in questi percorsi riescono a reinserirsi nel tessuto sociale poiché la loro motivazione può essere molto altalenante: i cosiddetti quartieri a rischio ma anche reti familiari sgretolate o inserite in circuiti di criminalità organizzata, possono influire negativamente. Per questo ci impegniamo per rafforzare i ragazzi a livello di consapevolezza e competenze, affinché il loro ritorno sia positivo. Un altro ostacolo, a livello istituzionale, riguarda le risorse finanziarie: spesso sono scarse oppure non vengono adeguatamente distribuite». Un’altra sfida del lavoro sviluppato da Carmela Polizzi insieme ai suoi colleghi è quella di contrastare la dispersione una volta terminati i tirocini: «Per evitare che i ragazzi cadano nella disoccupazione o nel lavoro nero, frequenti nei nostri territori, ci aiutano fortemente le opportunità messe in campo dalle imprese sociali che si impegnano a garantire un’autentica inclusione lavorativa per coloro che hanno terminato il tirocinio».
Ma l’aspetto più importante dei progetti resta quello della giustizia riparativa: «I nostri giovani attraverso le loro azioni riparano simbolicamente al danno compiuto, restituendo un bene alla comunità che hanno leso. Questo permette ai ragazzi non solo di cambiare prospettiva ma anche di ricucire un legame con la comunità che a sua volta riesce a ridare fiducia», evidenzia con soddisfazione Polizzi.
Oggi più che mai il nostro mestiere non può svolgersi dietro una scrivania all’interno di mura istituzionali ma deve andare per strada, tra la gente, perché le persone hanno bisogno di vicinanza. Questi ragazzi sono i primi a pensare di essere predestinati al crimine e a credere che il cambiamento per loro sia impossibile. Siamo chiamati ad essere agenti di un cambiamento non solo individuale ma anche collettivo
Salvatore Inguì, direttore USSM
«Siamo chiamati ad essere agenti di un cambiamento non solo individuale ma anche collettivo»: a condensare in una frase la missione dei progetti concretizzati è lo stesso direttore dell’USSM Salvatore Inguì. In spalla ha ben 31 anni di servizio come assistente sociale di strada, un’esperienza che ancora vive e pulsa nelle sue stesse parole: «Mi sento più un operatore sociale che un direttore», afferma con convinzione. «Sono convinto che oggi più che mai il nostro mestiere non debba svolgersi dietro una scrivania all’interno di mura istituzionali ma per strada, tra la gente, perché le persone hanno bisogno di vicinanza e siamo proprio noi ad essere al loro servizio». Chiara la sua visione relativa alla modalità e soprattutto alla motivazione degli interventi attivati sul fronte dei percorsi di reinserimento sociale: «Commettere un reato significa mettersi contro il benessere sociale ma la stessa società andrebbe riformata perché ha la sua responsabilità». Inguì racconta con emozione e orgoglio le esperienze attivate: «Prima ancora che da direttore, come funzionario del ministero della Giustizia, dal 2006 insieme ai “miei” ragazzi faccio dei viaggi solidali in luoghi come il Benin, il Congo, la Bosnia. Lo scopo principale è quello di togliere lo stigma che grava su di loro, che sono i primi a pensare di essere predestinati al crimine e a credere che il cambiamento sia impossibile, mentre i viaggi dimostrano il contrario. Ne ricordo uno in Etiopia, dove i ragazzi hanno fatto cose bellissime per i bambini in difficoltà così come quando hanno distribuito il cibo alla mensa Caritas. Questi giovani scoprono sentimenti e capacità che sarebbero rimasti latenti se nessuno li avesse aiutati a farli emergere e ogni volta è una grande emozione».
Addestrare un cane, avvicinarsi alle regole
Uno dei progetti centrali che consentono questo riscatto sociale è realizzato dall’associazione Pacha Mama aps e si chiama “Insegnando s’impara”. Un nome che è un programma, articolato e avvincente, come ci conferma Marula Furlan, ideatrice e coordinatrice del progetto insieme alla socia Marianna Raneri. «Mi sono ispirata a un'esperienza che avevo visto nel contesto scolastico in Canada», racconta. “Insegnando s’impara” è rivolto a minori a rischio di devianza sociale, abbandono scolastico e difficoltà di comportamento ed è stato considerato tra i dieci progetti virtuosi in Italia per la preparazione dei cani da assistenza nell’ambito di un convegno nazionale. «Siamo attivi al complesso Malaspina da tre anni. Coinvolgiamo i ragazzi e insegnamo loro a preparare un cane da assistenza che a fine percorso verrà dato a un bambino o a una bambina con disabilità», spiega Furlan. Il progetto scardina fin da subito i pregiudizi: «Quando lavoriamo con i ragazzi noi operatori non conosciamo i reati che hanno commesso per non esserne influenzati ed è giusto così. Chiediamo solo di sapere se si tratta di un profilo violento per tutelare i nostri compagni di lavoro: i cani».
Questo lavoro sul cane diventa per i ragazzi un forte lavoro su se stessi: i cani sono specchi delle emozioni altrui. Inoltre si dimostrano sempre molto accoglienti e affettivi nei confronti dei bambini con disabilità a cui vengono poi destinati i cani che hanno preparato.
Marula Furlan, coordinatrice del progetto “insegnando s’impara”
Proprio attraverso l’attività di addestramento i giovani raggiungono traguardi importanti: «Si lavora molto sulla relazione. Ai ragazzi coinvolti insegniamo a impostare gli esercizi per il cane, solitamente un cucciolo “grande”, un Labrador o Golden, a captare i segnali di stress che questo può manifestare e ad addestrarlo sulle regole da rispettare. In realtà questo lavoro sul cane diventa per i ragazzi un forte lavoro su se stessi: i cani sono specchi delle emozioni altrui», spiega Furlan. Questo lavoro genera nei ragazzi maggior consapevolezza, empatia, accoglienza nei confronti dei propri compagni e dei vissuti altrui. Inoltre si dimostrano sempre molto accoglienti e affettivi nei confronti dei bambini con disabilità a cui vengono poi destinati i cani che hanno preparato. Non sono mancati casi di vera e propria commozione». È un incontro che costituisce una tappa speciale del percorso di “Insegnando s’impara”: «I ragazzi toccano con mano il risultato del loro lavoro, vivendone la soddisfazione. L’effetto positivo riguarda anche le famiglie e quindi la comunità che imparano a vedere questi ragazzi come una risorsa sociale e non come un danno».
Il percorso dura fra i 6 e i 9 mesi, per due giorni alla settimana, che prevedono anche gite al mare con i cani, visite dal veterinario, attività di toelettatura e sistemazione delle aree verdi comuni: «I ragazzi in queste occasioni si dimostrano molto curiosi e propositivi», afferma Marula Furlan. Il progetto si nutre del lavoro di un’equipe multidisciplinare che diverse figure. «Prevediamo anche un momento di autovalutazione per i ragazzi dove chiediamo loro di raccontare eventuali criticità incontrate: si dimostrano molto attenti nel riconoscere difficoltà e problematiche». “Insegnando s’impara” è cofinanziato dal centro di giustizia minorile della Sicilia e da altri sponsor. Il centro regionale mette anche a disposizione un voucher, un premio simbolico in denaro come riconoscimento per l’attività svolta.
Lasciarsi aiutare
A raccontarci il suo percorso di riscatto è Aurora, 19 anni, un passato solcato dal sapore amaro di un trauma, nella voce e nelle parole una maturità e una consapevolezza toccanti. Aurora è stata coinvolta nel percorso di “Insegnando s’impara” quando aveva 17 anni. «Ho conosciuto il progetto grazie a Ela (così la chiamiamo) Polizzi, lei è stata una vera benedizione per me, mi ha permesso di fare grandi progressi», racconta. «Un giorno mi ha chiesto che cosa mi sarebbe piaciuto fare e io le ho risposto che mi interessava l’esperienza di addestratrice cinofila e così mi ha parlato di questa iniziativa». Destini e intenti che si incrociano quasi si fossero cercati, Aurora intraprende la nuova esperienza: «L’attività si svolgeva due o tre volte a settimana e ho imparato tante cose addestrando una cagnolina da affidare a un bambino autistico». A proposito del gruppo rivela: «Grazie a Marianna e Pietro, i due referenti dell’attività, nel gruppo si viveva una bella atmosfera fatta di armonia e comunicazione reciproca. All’inizio ero un po’ timida ma grazie a queste persone mi sono trovata a mio agio anche con gli altri ragazzi che partecipavano all’attività e con i quali si è creata un’unione. È stato bello festeggiare i miei 18 anni durante questo percorso».
Aurora non ha dubbi su quale sia stata la soddisfazione più grande abbracciata attraverso l’esperienza di addestratrice e di confronto di gruppo: «Senz’altro la mia crescita personale: provenivo da un trauma che mi aveva fatta chiudere in me stessa, grazie a questa esperienza mi sono sbloccata e mi sento cresciuta. La più grande soddisfazione e motivazione è sapere che quello che fai può aiutare un bambino in difficoltà: è stato bellissimo consegnare personalmente al bambino la cagnolina che avevo addestrato». Salite e discese affrontate, soddisfazioni prese per mano, ad Aurora non mancano nemmeno i sogni nel cassetto: «Ho ripreso la scuola che avevo abbandonato e ora mi sto concentrando sugli studi. Ci tengo a finire e poi magari continuerò. Ancora non ho un obiettivo chiaro ma so che lo scoprirò»
Altra testimonianza è quella di Andrei, 27 anni, che grazie a questi percorsi non solo ha affrontato la sfida di guardare in faccia i propri errori e ricominciare positivamente ma ha anche imparato un vero e proprio mestiere: «Lavoro a tempo pieno per una cooperativa nel settore ristorazione e mi piace molto. Tutto è iniziato proprio grazie a un tirocinio partito durante uno di questi percorsi», racconta. Le esperienze di Andrei su questo fronte sono davvero articolate: «Ho fatto barca a vela, il tecnico audio-luci per un importante teatro di Palermo e poi l’attività di aiuto cuoco e pasticcere: ogni volta ho imparato qualcosa». E rispetto alle cose più importanti che si sente di aver ricevuto da questi percorsi afferma convinto: «Crescita e consapevolezza prima di tutto, ho anche imparato che cosa sia l’impegno e a diventare più responsabile». Il traguardo della consapevolezza traspare dalle riflessioni di Andrei: «Nella vita tutti sbagliamo, poi fai un percorso in cui incontri delle persone grazie alle quali comprendi il tuo sbaglio. Ma devo dire grazie anche a me stesso: gli operatori ti aiutano ma bisogna anche imparare a farsi aiutare, altrimenti non succede niente. Io ho imparato da tutti e in questo modo siamo cresciuti, io e gli altri».
Nella foto di copertina, il progetto Amunì su "Lisca Bianca"
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