Danza sociale

Io (non) ballo da sola

di Sanzia Milesi

La performance ideata dalla coreografa Paola Bianchi, dove la parola agisce in scena sui corpi di ipovedenti e non vedenti, guidandone il movimento. Una nuova modalità di fruire e vivere il teatro. Che ha già debuttato prima Genova e poi Roma

Una pratica di trasmissione orale del movimento. Come far arrivare, ad una persona non vedente (ma anche a chi ascolta in radio), le indicazioni per agire un movimento, per ballare una danza, per rendersi parte collettiva di una coreografia? Se lo è chiesto Paola Bianchi, danzatrice e coreografa indipendente, torinese classe 1962, oramai romagnola d'adozione, che da tempo con i suoi lavori di ricerca ben insegna l'importanza del corpo in scena. Com'è già stato sin dai suoi esordi negli anni Ottanta e nel suo volume “Corpo politico. Distopia del gesto, utopia del movimento”, o solo per citarne un paio, con il progetto di danza verbale del file audio “NoBody” e la serie di radiodocumentari sull'opera teatrale del regista polacco Tadeusz Kantor trasmessi da Radio3 nel 2015.

“Esti” ha debuttato in prima assoluta al Teatro Akropolis di Genova in novembre, per poi passare ai Teatri di Vetro di Ostia in metà dicembre, e chissà quanto altro viaggiare ancora. Sin dal suo nome, Esti, terza persona dell'indicativo del verbo essere in greco antico, è una dichiarazione di esistenza. La conclusione performativa di un laboratorio condotto da Paola Bianchi con un gruppo di danzatori non professionisti, quattro ragazze di 20/30 anni ipovedenti e non vedenti, coinvolte in questo debutto dall'Unione Italiana Ciechi e dall'Istituto David Chiossone di Genova. Un lavoro che indaga la trasmissione della danza attraverso la parola descrittiva, “escludendo il corpo del maestro come modello di riferimento da seguire e imitare” e diventando per loro “motore di ricerca interna al proprio corpo”.

Parla così di “immaginazione muscolare della coreografia” Paola Bianchi, che spiega com'è nato questo importante momento: «Già grazie al progetto Elp e al lavoro di immersione emotiva compiuta con lo spettacolo “Energheia” sugli archivi mnemonici di una quarantina di persone, ho voluto indagare la relazione tra danza e parola. Ho lavorato sullo spazio e sul ritmo e descritto in note vocali delle posture (“ho i piedi paralleli, il braccio destro in alto con il pugno chiuso…”), posizioni anche complesse, che poi ciascuno assumeva a seconda delle capacità del proprio corpo, ma anche di come le sentiva su di sé, secondo una propria incarnazione personale. Posture che, per altro, andavano prese come “appuntamenti”, da legare assieme in una composizione coreografica più armonica. Facendo questo con persone che non vedono come io mi stia muovendo, elimina la tipica frustrazione che esiste sempre nei confronti del corpo del maestro come modello da imitare, e quell'immagine la crei tu, nella tua testa. Questo mi ha permesso di indagare sino in fondo cosa succede nella danza a partire dalla parola. E mi ha portato a ripensare anche al mio linguaggio, e a cose banali, che banali non sono. Ad esempio, durante le prove sono sempre stata di fronte a loro sulla destra e da lì veniva la mia voce. Poi, senza pensarci, alle prove generali mi sono spostata con la consolle a sinistra ed è stato improvvisamente un disastro, perché, riferendo i loro corpi verso la mia voce, non riuscivano più a riconoscere gli spazi di riferimento e quindi a comporre la successione costruita dei movimenti. È stato necessario e utile anche per me provare a chiudere gli occhi e imparare a misurare con i piedi per orientarmi nello spazio. Utilizzare l'ecolocalizzazione con lo schiocco delle dita per far percepire la vicinanza/lontananza dal muro. Indicare con lo scotch a pavimento il punto centrale della scena. Perché se tu non vedi e io ti dico “stai al centro”, non hai coordinate visive spaziali ed è quindi necessario creane altre. É stata una traduzione. Un'altra ancora, rispetto a quelle che avevo sperimentato in passato. A Torino con un gruppo di malati di Parkinson, che concentrandosi su suono e musica per il controllo del movimento riuscivano in qualche modo a spegnere per un attimo la scossa di quel loro tremore. Oppure a Castiglioncello, in provincia di Livorno, con un gruppo misto di ragazzi di un liceo coreutico e disabili mentali, che in questo caso agivano invece per imitazione, dove alla fine dello spettacolo mi è stato chiesto dal pubblico: “ma sono tutti disabili?”. È stato il complimento più grande. È ciò che deve succedere: non accendere il riflettore sulla disabilità.»

A partire da questa sensibilità, tutta personale di Paola Bianchi, è stato così possibile creare uno spettacolo di danza, che è insieme un lavoro su di sé e sulle proprie potenzialità, normodotate o relativamente dotate, com'è poi per tutti. «Quando si sono presentate delle difficoltà – chiarisce così la coreografa, tornando con l'agevolezza che le è propria, dalla ricerca teorica di un percorso possibile alla sua pratica sul campo – magari negli esercizi di riscaldamento, quando qualcuno piegava la schiena in modo scorretto, essendo impossibile il “guarda bene”, allora ponevo le loro stesse mani sul loro corpo, per far sentire loro dove si muoveva l'articolazione e dove poggiava il movimento. “Il pubblico è come una grande mano che passa sul vostro corpo e capisce cosa avete esposto di quella forma” dicevo loro. Perché è un'altra abilità quella che devono dimostrare: il loro saper andar oltre, il loro vedere con le mani. Una di loro mi ha detto un giorno: “non cambierei niente, sono felice di essere come sono”. Ed è questo che deve passare. Non il commuoversi, non una pietà becera che nasce da qualcosa che in scena sottolinea l'handicap. Perché l'handicap non c'è una modalità per escluderlo, ma è possibile non dichiararlo. Così chiedevo loro: “se tocchi con il piede la linea di confine dello spazio, non avere uno scattino che lo renda evidente e prosegui sciolto, cambiando direzione senza spaventarti, e se per sbaglio sbatti con qualcuno, quello è un incontro, non uno scontro”. Abbiamo lavorato così, insieme, per eliminare questa cosa del “vi faccio vedere che non vedo”. Ma poi su tutto, ciò che è veramente importante, è l'accoglienza di ciò che viene.»

Foto di Giulia Ferrando

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