Presa diretta

Persone trasformate in bestie: la mia notte tra gli “scarti” di Rogoredo

di Anna Spena

Il Parco della droga di Milano non è solo le siringhe a terra e la sporcizia tutto attorno o le migliaia di euro di droga venduta. Rogoredo sono le persone che ci stiamo dimenticando. Come Elnora che ha partorito il suo bambino in mezzo alle siringhe. Maurizio che pensa di non meritare niente. Didina, che dopo una dose, si è addormentata dentro al bosco e le hanno dato fuoco. Io lì dentro ci ho passato una notte. Ecco quello che ho visto

Maurizio si è abbassato i pantaloni per mostrare le sue gambe magre con le vene doppie. Come tubi aggrinziti e attorcigliati che stanno esplodendo nella pelle. Si sposta le mutande bianche e nella cavità tra l’inguine e la coscia ha tutti bozzi gonfi e infetti. Ci affonda dentro le dita: «Se la smetto di bucarmi se ne vanno via».

Maurizio ha 60 anni. E una vita che crede di non meritare più. «Sono sieropositivo, non lo dire. Anzi no, perché no, te lo dico: sono sieropositivo. La cocaina è dieci volte meglio di venire quando scopi. Dieci volte meglio veramente. La cocaina è bianca. L’eroina è nera. Chi si fa di eroina ha le pupille strette strette», e mentre lo dice si agita e stringe l’indice dentro al pollice per riprodurre un foro invisibile. «Chi si fa di cocaina ha le pupille larghe larghe. Ma l’eroina», poi sospira, «ti rilassa». Maurizio non ha più una casa. Vive in strada. Chiede l’elemosina tutti i giorni. «Raccolgo quello che posso. Cinque euro li devo sempre togliere per le sigarette. Non ce la faccio a fumarmi i mozziconi che si raccolgono da terra», si giustifica. «Il resto mi compro la droga. Per me è finita, è inutile che mi cerco un lavoro perché tutti i soldi li butterei qua, nel bosco».

Il bosco è quello di Rogoredo, a Milano. Stasera Maurizio è arrabbiato. È entrato con un’idea precisa. Comprare due dosi di eroina e di cocaina da mischiare. Una da iniettarsi la sera – come ha fatto – e l’altra «da conservare per la colazione. Così quando mi sveglio domani sono tranquillo». Invece non ce l’ha fatta e ha consumato tutto e subito. Mentre parliamo a un certo punto decide di andare. Deve elemosinare un altro po’ di soldi, ha bisogno di ritornare ancora nel bosco, ricomprarsi una dose, farsela subito. Quante volte al giorno entra e esce da questo non luogo, da questa assenza di vita, non lo sa più. È quasi mezzanotte e scompare. Maurizio è un uomo pieno di onestà. Che vuole solo raccontarsi. Perché non vogliamo ascoltare la sua storia?

Torniamo indietro. All’ingresso della stazione di Milano Rogoredo sono le 20 e 50 di un normale mercoledì sera di settembre. Dall’altoparlante la voce familiare di Trenitalia annuncia i treni in partenza. Una ragazza scheletrica con i calli sulle mani vuole una moneta per comprare l’acqua. È piccola con una mezza coda di cavallo che le raccoglie i capelli gialli scoloriti. La magrezza le ha prosciugato le forme e evidenziato gli occhi: due pozzi adesso vuoti. Avrà si e no 25 anni.

La stazione è ancora viva. Qualcuno è in partenza, qualcuno in fila per un taxi. C’è chi scende a prendere la metro e chi risale sopra. Un ragazzo – vestito con abiti troppo larghi per essere i suoi – chiede una sigaretta a tutti. Un giovane africano dalla faccia dolce vuole 50 centesimi. È alto e longilineo. I muscoli in tensione. Col suo muoversi veloce taglia l’aria. Un movimento che non ha niente a che fare con l’agilità, ma è invece ricerca spasmodica. E continua a chiedere, continua, continua. La dipendenza non accetta un no come risposta. Loro e i tantissimi altri visti in una sera sono gli zombi che abitano il boschetto di Milano Rogoredo che li ha risucchiati tutti. Giovani. Vecchi. Appena adolescenti. Donne incinte e mamme con i loro figli. Che qui il desiderio della droga è più forte di quello per un figlio. Uno di loro ha raccontato che una ragazza è entrata nel boschetto con un bimbo di quattro anni. Non aveva il laccio emostatico per far uscire la vena, così si è stretta forte il figlio al cuore per creare la pressione. Poi si è bucata.

Sono una caterva, li hanno ammassati tutti qua perché non vogliono vederli in giro. Il dramma vero è che non gliene frega niente a nessuno

Don Diego

A Milano Rogoredo l’umanità si è rotta. Si è inceppata. Non funziona più. E non solo quella di chi si droga. L’ingresso del boschetto di Rogoredo, “tra le più grandi piazze di spaccio del nord Italia” come lo chiamano in tanti, in realtà non è solo questo. O almeno non è prima questo. E come lo chiamiamo allora? Non esiste un nome. Dentro e appena fuori è un cimitero. Dall’uscita della stazione, basta girare una curva, camminare tre minuti al buio, e poi eccolo l’ingresso. Una scala di due rampe di alluminio arrugginito. Sui gradini ci saranno almeno dieci persone. È un posto ambito. L’unico con un lampione dalla luce bianca. Con un po’ di illuminazione è più facile trovarsi la vena. Si stanno facendo tutti. Qualcuno sta sciogliendo la droga. Qualcuno si è appena infilato la siringa dentro al braccio. Un altro si sta slegando il laccio emostatico. I primi gradini sono troppo bui. Però sotto la suola delle scarpe senti lo scricchiolio di una cosa che si sta rompendo: sto calpestano le siringhe. Se si girano gli occhi verso la zona di scala illuminata si vedono bene. Stanno lì in mezzo al sangue e alle maglie sporche. Qualcuna sarà raccolta poi, serve per iniettarsi un’altra dose ancora. A Rogoredo ci accompagna Simone Feder, psicologo della Comunità Terapeutica la Casa del Giovane di Pavia. Ufficialmente viene qua tutti mercoledì sera, dove si incontra con Don Diego che arriva dalla Valtellina e i volontari Cavalieri dell’ordine di Malta che distribuiscono cibo, vestiti, intimo e scarpe. In realtà ci viene con molta più frequenza: «qua non c’è più il confine tra uomo e bestia», dice. Sulle scale offre cioccolata e un ragazzo la rifiuta: «Non la posso mangiare sono allergico al lattosio», dice. «Ma la droga qui è tagliata anche con il lattosio», gli spiega Feder. «Sì, lo so. Ma non ne posso fare a meno».

Qualcuno sta sciogliendo la droga. Qualcuno si è appena infilato la siringa dentro al braccio. Un altro si sta slegando il laccio emostatico. I primi gradini sono troppo bui. Però sotto la suola delle scarpe senti lo scricchiolio di una cosa che si sta rompendo: sto calpestando le siringhe

Per arrivare al secondo “ingresso” bisogna passare sotto un cavalcavia. Si cammina ancora un po’. Tenendo la metropolitana alle spalle e i binari della stazione a sinistra, basta scavalcare un guard rail per arrivare in mezzo a uno spiazzale. C’è una donna che si sta bucando, ci vede e scappa. «Vieni a prendere qualcosa da mangiare», la invita Feder. Più tardi l’avremmo vista al banchetto dei volontari. Poi sarebbe ritornata anche lei nel bosco. Oltre gli ingressi non possiamo andare. È buio pesto. Non c’è una luce, tranne quella flebile delle scale. Questo è un territorio controllato. Sentinelle e pali che ai tossici gli indicano la strada per arrivare alla “pesa”, dove si compra la dose, agli “estranei”, invece, dentro non li vogliono vedere, non li lasciano addentrare.

Ma Rogoredo non sono le siringhe a terra e la sporcizia tutto attorno o le migliaia di euro di droga venduta. Rogoredo sono le persone, centinaia, che ci stiamo dimenticando. Alcuni tossici sono aggressivi. O meglio, non sono loro. È la droga che si iniettano o fumano. Con due euro ti compri una dose. E due euro alla volta ti sei fatto la giornata. Ma lo sballo dura poco. Così le persone fanno avanti e indietro fino a trenta volte al giorno. Qualcuno muore. Anche tutti gli altri muoiono, pure se continuano a camminare.

Ho provato a fotografare con gli occhi il corpo di Didina, una donna di 38 anni di origine rumena. È uscita dal bosco correndo. Poi, una volta seduta, si è ingozzata di merendine. Non mangiava da tre giorni. Stava piegata sulla sedia, tutta curva e ti guardava di traverso. Le mani e i piedi nelle scarpe aperte neri. Le unghie nere. In tutto il corpo si è sedimentata la sporcizia. Le faceva male la schiena. Si è alzata la maglia. «Me l’hanno bruciata una sera nel bosco mentre da fatta mi sono addormentata». I capelli scuri e folti, gli occhi verdi, dove qualcosa resisteva: “ce la fai a venirne fuori”. «No, non ce la faccio. Sto qua 24 ore su 24». Poi «Io sono una tossica», ha sibilato mentre scandiva bene le parole.

Qui c’è un via vai continuo. Arrivano correndo e si infilano nel bosco. Escono correndo per cercare altri soldi. Entrano ed escono. Entrano ed escono. Tutto è silenzioso. Tutto è frenetico. La vita è impazzita. Un ragazzo ha gli occhi fuori delle orbite. Un altro è cosi agitato che vorrebbe rompere il mondo, ma il mondo ha rotto lui. Da dove vieni? Quanti anni hai? Cosa sognavi da bambino? Come hai iniziato? Come si chiama tua mamma? E tuo padre? E i tuoi fratelli? Perché sei solo? Perché non facciamo niente?

Alessandro è uscito da quattro comunità ma vuole provare con la quinta, nel frattempo però ha bisogno del bosco. Elnora, invece, sorride. «Lo so che sono una drogata». È lei che all’inizio della scorsa estate ha partorito nel casolare in zona via Orwell la via che conduce alla zona acqua, altra piazza di spaccio alle spalle della stazione dove si vende soprattutto ai minorenni, un bambino che non ha più rivisto. L’ha partorito da sola, in mezzo alle siringhe. «Quando è arrivata l’ambulanza il ragazzo non sapeva che doveva fare, forse aveva paura». Così quando ha visto la testa del bambino ha spinto e l’ha tirato via, l’ha cacciato fuori. «Poi ho strappato il cordone ombelicale». Elnora è bella, e forse si chiede se suo figlio le somiglia. È mezzanotte al boschetto di Rogoredo. Mezzanotte di un mercoledì qualunque. Ma il flusso di persone è sempre uguale. Tutti i giorni. Tutto il giorno.

Ci sono due carabinieri all’uscita della metropolitana e due ragazzi dell’esercito. Un po’ chiacchierano, un po’ si danno il cambio, ma se ne stanno fermi lì. Forse a segno di difesa dei “non drogati”, eppure sono i tossici che avrebbero bisogno di tutela. Rogoredo è uno schifo. Un posto vuoto. Un luogo triste. «Sono una caterva», dice don Diego. «Li hanno ammassati tutti qua perché non vogliono vederli in giro. Il dramma vero è che non gliene frega niente a nessuno».

Come si esce dal bosco? Dando una ragione per cui vivere. E la ragione può esistere solo nella relazione con l’altro

Simone Feder

Da Rogoredo esci con due domande. Perché? Perché a Milano che ha fatto dei diritti la sua bandiera. Perché lasciamo che vecchi, giovani, adolescenti ancora bambini, mamme, si lasciano prosciugare cosi la vita. E l’altra è: cosa dobbiamo fare? «Chiamiamoli per nome», dice Simone Feder. «Quando ci allungano il gomito al posto della mano perché sanno di avere le mani sporche e hanno rispetto di te, noi, quella mano, gliela dobbiamo stringere. Non sono animali, sono persone. Devono ricominciare a sentirsi persone».

Nicolas allunga il braccio. Ha 29 anni. Si è iniettato una dose fuori vena. Tra l’attaccatura del braccio e l’avambraccio ha la pelle rossa e lacerata. Feder gliela tocca «Non è calda, stai calmo. Non è infetta», lo tranquillizza. «Se un ragazzo ti fa vedere la ferita», dice, «Tu devi esserci in quella ferita. Aiuto non è solo dargli una bottiglia d’acqua, qualcosa da mangiare, un po’ di vestiti puliti. Hanno bisogno di una possibilità unita ad un incontro. È questo che porta le persone a cambiare». Come si esce dal bosco? «Dando una ragione per cui vivere. E la ragione può esistere solo nella relazione con l’altro, che non può essere un passaggio di comunicazione. Nessuno è irrecuperabile, questa arrendevolezza è un’idea malata. Le comunità e i servizi devono venire a prendere questi ragazzi, devono entrare nel bosco».

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