Épinal, 08.04.2019. Io, Ameen, un caffè lungo e un succo d’ananas. Intorno a noi il chiacchiericcio francese dell’unico bar aperto qui di lunedì. Sono un po’ nervosa, temo di aver preparato qualche domanda dolorosa ma lui mi mette subito a mio agio sorridendomi. Mi presento, gli spiego che non sono una giornalista ma una semplice assistente di lingua italiana che ha visto la sua mostra fotografica “Au Revoir ALEP” e ne è rimasta ammutolita. Gli spiego che vorrei trasformare il mio silenzio in racconto: il racconto della sua storia. È difficile ed imbarazzante dirgli, in breve, qual è la situazione presente oggi in Italia ma devo farlo per chiarire la ragione per cui io mi senta in dovere di raccontare al mio Paese della sua fuga da Aleppo, la sua città d’origine. «Spero di far cambiare idea a qualcuno, o per lo meno di destare la riflessione su quanto di atroce accade in Terre lontane da cui scappa gente che noi abbiamo il dovere di accogliere ed aiutare», gli dico. Non ho voluto trascrivere le mie domande e le sue risposte ma ho fatto sì che Ameen raccontasse a tutti la sua storia in prima persona e al presente, due scelte stilistiche fatte perché quello che è accaduto a lui quattro anni fa sta accadendo, in questo preciso istante, nella stessa ed identica maniera, ad un'altra persona meno fortunata di chi leggerà questo articolo.
È luglio; non ricordo la data esatta. Mi sono appena svegliato, sono circa le 9 di mattina quando sento degli elicotteri in cielo. Poi il rumore di bombe lanciate accanto alla mia abitazione. Da fotogiornalista prendo istintivamente la mia macchina fotografica e vado in strada. Devo documentare. Sulla mia testa volano altri elicotteri, il cielo ne è pieno, ed oltre a loro suono assordante, al quale si aggiunge quello delle bombe, sento le sirene delle ambulanze che iniziano ad echeggiare nell’aria polverosa. C’è sangue ovunque, corpi sull’asfalto. Mentre cammino vedo una donna sola, seduta a terra, disperata. Le chiedo di poterle fare una foto. Mi fa cenno di sì con il capo. Allora mi avvicino e le faccio qualche domanda, ma lei non risponde. È disperata; totalmente disperata.
Non molto distante da questa donna ce n’è un'altra. Anche lei in lacrime. Questa, però, riesce a dirmi qualcosa. Ha sei figlie femmine di cui due portate alla follia da una forma grave di depressione. Non sa cosa fare, non sa a chi chiedere aiuto. Anche lei è sola. Quello che mi attira di più del suo volto sono le sue rughe: numerose e profonde. Non aggiunge altre parole alla sua storia di madre finita ma quei segni sul viso parlano per lei: ogni ruga racconta un pezzo della sua vita.
Continuo a camminare tra le macerie, le grida e la confusione, con la paura e la consapevolezza di poter morire da un momento all’altro. Da lontano vedo il corpo flebile e sottile di una bambina su una barella. Non ha scarpe, ha i capelli raccolti ed indossa pochi vestiti ma colorati. Un medico spinge la sua barella in un’ambulanza. Chiedo subito qualcosa su di lei e del perché fosse sola. Così, scopro che, in realtà, resterà sola per sempre: la sua famiglia, tutta, è sotto le macerie di quella che era la loro casa bombardata poco prima che io arrivassi e mentre la piccola giocava beata.
I bambini di Aleppo non capiscono davvero cosa accade intorno a loro, ciò che conta è solo mangiare, giocare, divertirsi e salvarsi. Non hanno nulla, quindi non possono chiedere qualcosa o di più di quello che hanno perché non sanno cosa c’è oltre la loro povertà.
Con tanti di loro gioco e rido, soprattutto quando porto con me un biscotto trovato qua e là o quando mi vedono arrivare con la macchina fotografica. Appena la vedono il sorriso compare sui loro visi.
Resto ad Aleppo durante l’assedio di Bashar al-Assad per sei mesi, di cui due passati a letto senza poter camminare dopo essere stato ferito da una bomba. Poi decido di andar via. O scappo o le forze avverse all’esercito libero siriano mi uccideranno.
Vado ad Al-Atarib e resto lì quattro mesi, poi altri otto in Turchia fino a giungere, finalmente, in Europa, in Francia. Sono qui da tredici mesi e sono felice. Per me essere un rifugiato politico significa poter vivere. Qui sono una persona. In Siria dovevo tacere altrimenti sarei stato ucciso, come tanti miei amici. Per questo ho deciso di scegliere alcuni dei miei scatti per creare “Arrivederci Aleppo”, una mostra iniziata qui ad Épinal e che vorrei portare ovunque: tutti devono conoscere la vera realtà.
Io ora sono salvo, sono in Europa, ma con la mente e il cuore sono con tutte quelle persone che sono ancora lì. La mia missione, la mia promessa è far conoscere la loro storia in tutto il mondo. Ora non lavoro, prima ero un fotogiornalista e uno studente di Ingegneria. Per ora sto studiando la lingua francese per poter trovare lavoro in un’agenzia e tornare a scattare fotografie. Vorrei farlo non solo in Francia ma anche in Iraq, in Afghanistan… Non ho paura di andare in quei posti perché sono sicuro che se vado lì per documentare aiuto le persone in difficoltà.
Non so se la realtà potrà mai cambiare ma devo provarci; dobbiamo provarci tutti perché ogni essere umano ha il diritto di vivere.
Oggi il mio sogno è che, un giorno, la Siria e tutti i siriani siano liberi, proprio come voi europei.
«Mi chiamo Ameen, ho 26 anni e sono scappato da Aleppo»
Testo a cura di Ilaria Fiore
Foto gentilmente concesse da Ameen Al Halabi
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