Il primo farmaco di terapia genica ex vivo al mondo è nato in Italia, al SR-Tiget di Milano. Si chiama Strimvelis e cura l’ADA-SCID, una malattia rarissima che rende il sistema immunitario incapace di difendersi anche dal più banale raffreddore. La cura consiste nel prelevare le cellule staminali dal paziente (si usano quelle del sangue), correggere il difetto genico ex vivo (ossia fuori dal corpo) e reinfondere le cellule corrette: attraverso un vettore – un agente virale privato della sua carica patologica e usato come “cavallo di troia”– la versione corretta del gene viene trasferita nel corpo del paziente. È un trattamento che dura globalmente almeno sei mesi. Il primo paziente “pilota” è stato trattato nel 2000: oggi ha 18 anni e sta bene. La sperimentazione clinica della terapia genica è iniziata nel 2002 e nel 2016 è arrivata a registrazione, cioè è diventata un farmaco a tutti gli effetti. Grazie ad esso, già 32 bambini sono oggi in buone condizione di salute.
Ricerca, cura, industria: un modello a tre gambe
Questa rivoluzione è avvenuta all’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget), un’eccellenza mondiale. Ci lavorano 183 ricercatori (229 il personale complessivo), con 61 pubblicazioni nel 2018 e un impact factor medio elevatissimo, pari a 9,269. Nato nel 1995 come joint-venture tra l’IRCCS Ospedale San Raffaele e Fondazione Telethon (i fondi destinati alla ricerca derivano da Fondazione Telethon, Ospedale San Raffaele, fondi industriali e bandi esterni nazionali e comunitari) l’Istituto ha unito fin dall’inizio ricerca e clinica, con l’obiettivo esplicito di portare nuove terapie ai pazienti.
La tanto inseguita ricerca traslazionale qui è davvero reale grazie a un’inedita (e tutt’oggi non replicata) alleanza fra ricercatori, medici, università, non profit e industria farmaceutica. «La terapia genica sta attraversando oggi una fase di grande successo, frutto di oltre trent’anni di ricerca, ma nel 1995 era ancora agli albori: fondare l’Istituto SR-Tiget fu una scelta visionaria», sottolinea il professor Luigi Naldini, direttore dell’Istituto dal 2008. Passare dai laboratori al reparto di pediatria, qui, è questione di pochi minuti: basta cambiare palazzina. Lo scambio osmotico con la clinica, testimoniato dalle tante foto di piccoli pazienti di cui sono costellati i laboratori (in reparto, per dire, c’è “l’infermiera di ricerca”, con una formazione specifica per seguire i pazienti arruolati nei trials), è sostanziato da una serie di funzioni che accompagnano lo sviluppo delle terapie sperimentali, come il Centro di saggio GLP e il Tiget Clinical Lab.
«Il primo raccoglie tutti i dati necessari per avviare un clinical trial, perché insieme ai risultati occorre dimostrare che sono stati ottenuti rispettando le regole stringenti della Good Laboratory Practice», spiega Naldini. Il Clinical Lab invece «fa un’analisi molecolare fine sui campioni dei trial clinici, consentendoci di trarre informazioni utili per la ricerca». Sempre all’interno del parco scientifico biomedico del San Raffaele si trova anche il luogo in cui le cellule vengono modificate e il farmaco prodotto: la cell factory MolMed.
Infine l’alleanza con l’industria, prima GlaxoSmithKline, poi Orchard Therapeutics: «è stata un altro passaggio fondamentale, dal momento che per la traslazione clinica sono necessarie le risorse economiche e le competenze tipiche di un’azienda: per lo sviluppo clinico, per gli step con le agenzie regolatorie, eccetera», afferma Naldini. I brevetti del SR-Tiget così vengono dati in licenza al partner industriale, ma l’Istituto resta coinvolto in ogni passo a sostenere la spinta per superare la “valle della morte” in cui tanti risultati sperimentali promettenti rischiano di arenarsi senza mai diventare cura.
La pipeline verso la cura
Ad oggi 92 persone provenienti da varie parti del mondo sono state trattate al SR-Tiget con terapia genica: soprattutto bambini, che senza quel trattamento probabilmente non ci sarebbero più. Per due malattie rare la terapia genica è in fase avanzata di sviluppo, con i primi trials clinici avviati nel 2010 e ormai conclusi: la leucodistrofia metacromatica (nota anche come “malattia dei fratellini”, perché quando i sintomi si manifestano, tra i 6-24 mesi, è troppo tardi per intervenire e la terapia serve a salvare i fratelli più piccoli, ancora asintomatici) e la sindrome di Wiskott-Aldrich.
Nella pipeline dello sviluppo, fra i trattamenti più vicini a divenire farmaci arrivano poi il trattamento per la beta-talassemia, il cui trial clinico è partito nel 2015 e quello per la mucoliposaccaridosi di tipo 1 (MPS1), con un trial clinico avviato l’anno scorso: «per la beta-talassemia, che conta oltre 7mila pazienti solo in Italia, è stato pubblicato a gennaio lo studio che riporta i primi dati sulla sicurezza e l’efficacia della terapia genica su 9 pazienti, alcuni dei quali sono tuttora liberi dalla necessità di trasfusioni», illustra Naldini. E il futuro? Al SR-Tiget ha due strade. La prima è la “in vivo gene therapy”, con il gene terapeutico che viene infuso nel paziente e raggiunge le cellule con difetto genico da correggere: al SR-Tiget lo stanno utilizzando per l’emofilia di tipo a e b, con studi ancora in fase preclinica. La seconda strada, che punta su un approccio diverso da quello usato finora, è l’editing genetico: invece di fornire dall’esterno un gene corretto, si corregge direttamente in modo mirato la sequenza mutata con delle “forbici molecolari”. Per due immunodeficienze rare al SR-Tiget hanno già dimostrato l’efficacia del gene editing e si sta lavorando a un prossimo trial clinico. E probabilmente per vedere i risultati non serverà aspettare altri trent’anni.
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