Welfare

Non chiamateci più ospiti: l’housing diffuso per il dopo di noi

di Sara De Carli

La legge 112/2016 in queste settimane sta entrando nella sua fase concreta, con i primi bandi delle Regioni. Vivere da soli si può, anche con una disabilità: il terzo settore più innovativo ci lavora da vent'anni. Ogni casa è diversa, ogni progetto è tailor made: ecco un viaggio nelle esperienze seguite da Fondazione Idea Vita

Francesco ha dato la sua impronta a "Casa Edolo" con una vecchia radio dalle manopole facilmente manovrabili, un cesto pieno di palle e una targa che viene dal Brasile. In camera insieme a lui dorme Andrea. Sull’armadio, per orientarsi più facilmente, hanno appeso un’etichetta con scritto «vestiti di riserva»: sotto c’è disegnata la tuta di superman, con tanto di mantello svolazzante. Nell’altra camera, quella “delle ragazze”, una marmotta di peluche fiuta l’aria e fa la guardia ai letti perfettamente rifatti. In casa, la mattina, non c’è nessuno: qualcuno è al lavoro, qualcuno frequenta un centro diurno. In quelle ore a volte la casa accoglie i ragazzi di altri centri diurni, che si esercitano in piccole attività di vita quotidiana, come stendere o riordinare. A "Casa Edolo" vivono persone con una disabilità intellettiva, che spesso si affianca a problemi comportamentali o psichiatrici: persone che però hanno avuto il coraggio di andare a vivere da sole, si sono messe alla prova e hanno saputo costruire una autonomia quotidiana.

Ha 33 anni Francesco, mentre Andrea ne ha 34: vivono in questo appartamento dal 19 settembre 2008, un venerdì, e sono amici per davvero. Maria invece è del 1992, lavora a Ledha e abita qui da quattro anni, mentre Sabrina di anni ne ha 51 ed è arrivata da pochi mesi. Quella rivoluzione che la recente legge sul dopo di noi vuole incentivare non è una utopia: vivere in una casa normale, anche con una disabilità, si può. Il terzo settore più innovativo ci lavora da almeno vent'anni e la legge 112/2016, che proprio in queste settimane si sta facendo concreta, ha fatto sintesi di tante esperienze territoriali. A Milano ad esempio Ca' Casoria, che fa parte di Cascina Biblioteca, è stata la prima residenza ad avere caratteristiche extra standard: oggi ci vivono sei persone con disabilità. Intuire, progettare, cominciare ad attuare, a propria responsabilità e a proprie spese, è questo che è accaduto in molti luoghi. I protagonisti sono stati ovunque genitori che avevano intuito come i servizi esistenti non rispondessero alle esigenze dei propri figli e invece di accettare che fossero i propri figli a prendere la forma del contenitore, hanno creato per loro qualcosa su misura, che non esisteva. Hanno realizzato così delle case che non fossero incasellate negli standard abitativi di una comunità o di un servizio, ma semplicemente case: una casa che sia il tuo spazio di vita da adulto, lo spazio che accoglie la tua vita indipendente, dove far crescere le amicizie e magari anche gli amori.

A gestire "Casa Edolo" è la cooperativa Spazio Aperto Servizi. Il progetto parla di «progressiva emancipazione della persona con disabilità dal proprio nucleo famigliare di origine». Ci vivono quattro persone, con un educatore presente H24: dalle 16 alle 21 gli educatori sono addirittura due. Questo rapporto educativo così alto «consente di diversificare le attività senza forzare nessuno», perché nelle case – spiega Luca Pracchini, referente di "Casa Edolo" per Spazio Aperto – «il ruolo dell’educatore cambia, qui è difficile spiegare a un nuovo educatore “cosa si fa”: questa è "casa" e basta. Il nostro ruolo è a quello di essere un "facilitatore di vita", a volte la funzione di educatore deve fare un passo indietro in favore di quella di mediatore. Il nostro compito non è proteggere costantemente queste persone dal mondo esterno ma aiutarle a vivere nel mondo, nel bene e nel male. Dobbiamo essere capaci di far entrare nel progetto di vita anche i desideri della persona con disabilità, i suoi sogni: una presenza educativa alta consente queste “azioni chirurgiche”».

Nelle case il ruolo dell’educatore cambia. Dobbiamo essere dei "facilitatori di vita": Il nostro compito non è proteggere costantemente queste persone dal mondo esterno ma aiutarle a vivere nel mondo

Luca Pracchini

Sempre a Milano suoniamo il campanello di un altro appartamento, un’altra casa. Si chiama "Al 19", ha aperto nella primavera del 2015 e ci vivono quattro persone. Annamaria, di 32 anni, e Sara, di 29, sono qui da allora, mentre sugli altri due posti si sono avvicendate più persone: costruire uno spazio attorno alle persone significa anche sperimentare possibili convivenze, che magari a volte non funzionano, perché a fare la “casa” non sono le mura ma la sintonia che nasce fra chi la abita. Una volta alla settimana qui dentro si fa un’ora di Zumba, che riunisce moltissime persone con disabilità della rete dei progetti “A casa mia” di Cascina Biblioteca: è l’occasione per conoscere persone, creare relazioni, incontrare una possibilità di vita che nemmeno forse prima si immaginava…

«Cene, aperitivi, una notte ogni tanto passata qui, dormendo a casa degli amici… sono tutte occasioni per dare alle persone la possibilità di conoscere la casa, magari anche solo come “ponte”. È la persona che decide che una casa va bene per lei. Se parti dalla casa, invece, ti ritrovi a dover cercare le persone da “metterci dentro”», spiega Flavia Eleonora Sola, coordinatrice dei progetti “A casa mia” di Cascina Biblioteca. Sono una cinquantina le occasione residenziali all’interno del sistema di Cascina Bibilioteca e il tratto comune è il fatto che i progetti sono sempre fatti con le persone con disabilità e le loro famiglie: «anni fa il dopo di noi era repentino, dalla casa al pronto intervento, nell’emergenza. Adesso invece le famiglie hanno la volontà di costruire l’autonomia, senza urgenza, ma progettando con fantasia e creatività le soluzioni migliori», riflette Caterina Costagliola, responsabile dell’area residenziale di Cascina Biblioteca.

Essere poco presenti, come accade nella residenzialità leggera, implica un lavoro enorme di pianificazione e di rete, perché quando l'educatore non c'è, tutto deve funzionare lo stesso. È un po' come accade con un figlio piccolo e uno grande…

Caterina Costagliola

La persona che ci accompagna a "Casa Edolo" e "Al 19" si chiama Elisabetta Malagnini e di mestiere è un monitore per la Fondazione Idea Vita. Idea Vita è una fondazione di partecipazione voluta nel 2000 a Milano da alcuni famigliari di persone con disabilità: l’adultità è stato fin dall’inizio il tema centrale della sua riflessione e l’abitare ne è ovviamente un mattone fondamentale. I progetti della Fondazione sono partiti dall’housing sociale, con la realizzazione del primo, allora avvenieristico, condominio solidale: Cascina Biblioteca, Casa Alla Fontana e Casa Greco sono alcune delle risposte innovative che oggi la Fondazione sostiene in tema di residenzialità per le persone con disbailità. Nel tempo all'housing sociale ha affiancato progetti di housing diffuso, dove il progetto individuale della persona con disabilità si realizza in un appartamento, vivendo da solo o in condivisione con altri. Fondazione Idea Vita segue i percorsi di 41 famiglie, sul territorio milanese: 16 persone vivono già in modo indipendente dalla famiglia di origine e 12 stanno facendo delle sperimentazioni. La Fondazione ha scelto da sempre di non gestire alcun servizio, collaborando con diversi enti gestori (Cascina Bibilioteca, Spazio Aperto Servizi, Coop Lotta contro l’emarginazione, Coop Il balzo, Associazione Presente e Futuro, Ageha): questo le consente di essere un soggetto terzo e imparziale, che può scolgere un’azione di monitoraggio.

Il monitoraggio è uno dei tratti distintivi dell'azione di Fondazione Idea Vita e il fulcro del lavoro di Elisabetta, così poco conosciuto. «Monitorare non significa supervisionare con piglio ispettivo l’andamento della quotidianità o il lavoro fatto dagli operatori degli enti gestori: monitorare significa essere “accompagnatori di vita” per la persona con disabilità (e in seconda battuta la sua famiglia) ed essere garante (per questo necessariamente terzo e indipendente) del benessere e delle “possibilità” della persona con disabilità», spiega lei. Il monitore è uno "spazio bianco" che media fra la persona, la famiglia, il Comune e l’ente gestore allo stesso tempo colui che tiene memoria della storia della persona, nel passaggio da un luogo all’altro, da un servizio all’altro, da un ente gestore all’altro, il fil rouge che tiene insieme tutti i pezzi: il monitore è colui che si fa garante della "manutenzione" del percorso di vita, nei suoi inevitabili giri di boa. Pensando al tema del “dopo di noi” i monitori sono coloro che garantiscono la prosecuzione nel tempo dello sguardo del genitore, competente ed affettuoso: per questo fin da oggi il monitore "si esercita" a conoscere la persona, a riconoscerne i desideri e i sogni. «La preoccupazione delle famiglie sul dopo di noi non è tanto legata al "dove” starà il figlio ma a “come” starà. È la preoccupazione per quel “di più” che rende bella la vita. Il nostro lavoro consiste nel mantenere uno sguardo ampio, intuire nuove possibilità, allargare le possibilità di scelta, immaginare nuovi percorsi. Curare la qualità è creare autodeterminazione, se tieni alta la qualità della vita la persona si autodetermina sempre più», racconta Elisabetta.

La preoccupazione delle famiglie sul dopo di noi non è tanto legata al "dove” starà il figlio ma a “come” starà. È la preoccupazione per quel “di più” che rende bella la vita. Il nostro lavoro consiste nel mantenere uno sguardo ampio, intuire nuove possibilità, allargare le possibilità di scelta, immaginare nuovi percorsi. Curare la qualità è creare autodeterminazione.

Elisabetta Malagnini

Le esperienze di residenzialità oggi seguite dalla Fondazione Idea Vita sono 11, più due in avvio, più tre progetti di housing sociale. Ogni esperienza è caratterizzata da una presenza educativa e assistenziale diversa, poiché lo sperimentare, l’adattare i percorsi ai cambiamenti della vita, lo stile artigianale sono i tratti distintivi della fondazione. «Rifuggiamo la modellizzazione nel senso di “uguale per tutti”, mentre crediamo che le buone pratiche possano trovare amplificazione e replicarsi, ma sempre con un taglio su misura», spiega Elisabetta. «Abitare da soli dieci anni fa era una possibilità inaudita, una “cosa rischiosa”, avversata dai genitori stessi: questi genitori sono la prima generazione che ha tenuto i figli a casa, chiusa l’epoca degli istituti. Oggi stimolare nei figli l’uscita da casa e l’autonomia è un valore, pochi anni fa sembrava un “mandarli via da casa”», ricorda.

Tante sperimentazioni sono nate così, da famiglie coraggiose, che invece di bussare al Comune mettendosi in lista per il “servizio standard” si sono messe in gioco, anche con le proprie risorse economiche, per costruire un’alternativa che non c’era. Per questo a Elisabetta a volte provoca i genitori: «facciamo finta che io sia una fata e abbia una bacchetta magica che risolve tutti i problemi… Se non ci fosse nessun ostacolo, voi per vostro figlio cosa vorreste? È questa la domanda da fare e da farsi: “Tu cosa vuoi? Cosa vuoi che succeda? Ma non quando non ci sarai più, cosa vuoi che succeda oggi, intanto che ci sei?”. Perché il dopo di noi si costruisce durante noi, altrimenti il futuro rischia di diventare un alibi per non fare nulla oggi oppure per fare pensieri senza sentieri. Un pezzo del domani inizia già oggi», afferma convinta. Per questo lei crede che quello presente sia «il momento storico in cui giocarsi e costruire alternative differenti. Le possibilità di sperimentare ci sono. La famiglia però non può farlo da sola, le serve un compagno di viaggio e serve pensare collettivamente. Per questo la Fondazione offre innanzitutto spazi di pensiero, come esercizio di possibilità di vita per le persone. Mi è piaciuto molto quando una mamma, a un incontro di famiglie ha detto “Io vengo qui per trovare coraggio, il coraggio di pensare certe cose”». Fra gli strumenti di pensiero che la Fondazione offre ci sono i laboratori per famiglie, frequentati stabilmente da circa 35 genitori e quelli per siblings, fratelli e sorelle di persone con disabilità, con una quindicina di partecipanti a incontro. Tanti percorsi hanno preso forma, seppur embrionale, proprio in quei gruppi. Un terzo gruppo ha per protgoniste le stesse persone persone con disabilità: si chiama “La vivenza” e il nome al gruppo l’hanno scelto loro: perché a tema delle riflessioni volevano che ci fosse «la vivenza, non la sopravvivenza».

Facciamo finta che io abbia una bacchetta magica che risolva tutti i problemi… In quel caso, voi, per vostro figlio, cosa vorreste? È questa la domanda da fare: “Tu cosa vuoi? Cosa vuoi che succeda non quando non ci sarai più ma oggi, intanto che ci sei?”.

Elisabetta Malagnini

Ospite, si dice spesso nel linguaggio dei servizi residenziali che accolgono le persone con disabilità. Qui è il contrario ed Elisabetta ci tiene a sottolinearlo: «Loro sono gli inquilini della casa e gli operatori sono gli ospiti. L’idea centrale è che siamo noi a partecipare al progetto di vita di queste persone, non loro che partecipano a un nostro progetto», afferma Elisabetta. Caterina invece racconta di come a Ca' Casoria e a Combriccola non c'è la stanza dell'educatore, che dorme nel divano letto, per scelta: «Ci sono realtà in cui la camera dell'operatore è chiusa a chiave, come un luogo riservato. Invece l'operatore è un elemento importantissimo, è ciò che permette che la casa sia casa, senza di lui non ci sarebbe nulla, ma la casa è di chi ci vive, l'operatore è l'ospite».

Nel giugno 2016 la Fondazione Idea Vita è stata tra i fondatori della Fondazione Lombarda Affidamenti, che segue la costruzione dei percorsi di vita dal punto di vista del piano economico e di gestione delle risorse, anche alla luce delle nuove opportunità offerte dalla legge 112/2016. «Uno dei nostri obiettivi, nella nostra funzione terza, è allargare il ventaglio delle possibilità anche al di fuori delle proposte che il singolo ente gestore può offrire. Sogniamo un circuito di enti che parlano tutti la stessa lingua, in cui ogni ente guardi non alle "mie famiglie" ma consideri le persone e le famiglie come “nostre”. Sarebbe un passo epocale, perché l’esperienza ci ha mostrato nei fatti quanta ricchezza ci sia nella possibilità di relazionarsi con gli amici di un’altra casa e di sperimentarsi in un altro luogo se la prima esperienza non ha funzionato».

Nessuno è escluso dall’orizzonte largo delle possibilità di una vita indipendente e di una casa, nemmeno i più gravi. La prossima sfida, per la Fondazione Idea Vita, è infatti quella di “ribaltare” il modello per cui i piccoli appartamenti sono destinati alle persone con disabilità più lieve, mentre chi ha una disabilità più grave continui ad essere orientato verso una realtà con numeri più grandi, un po’ più ancorata all’impostazione della struttura: «a Casa Greco vivono nove persone con una buona autonomia e la notte non c’è un operatore ma una famiglia di volontari», raconta Elisabetta, «se sei più autonomo hai più strumenti, puoi appoggiarti di più ai volontari… La qualità della vita passa dai piccoli numeri, per cui vorremmo portare le persone con disabilità più lievi fuori dai contesti-bomboniera e al contrario costruire progetti piccoli e assolutamente sartoriali per le persone più gravi».

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