Reportage

Se l’Europa si ritrova a trenta miglia dalla Libia

di Ottavia Spaggiari

Abbiamo passato due settimane a bordo di Seefuchs, il peschereccio dell’Ong tedesca Sea-Eye, impegnata in operazioni di ricerca e soccorso in mare e costretta a fermarsi dopo le minacce della guardia costiera libica. Ecco come funziona una missione di search and rescue, chi sono i volontari e perché, nonostante Bruxelles non sia mai stata così lontana, l’Europa si ritrova comunque a trenta miglia dalla Libia. La seconda parte del nostro reportage dal cuore del Mediterraneo

«Iniziamo dal primo punto. Cosa facciamo se troviamo dei cadaveri?» Si apre così il primo briefing a bordo dell’ultima missione di Seefuchs, la nave dell'Ong tedesca Sea Eye impegnata da due anni in operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. È la domanda più dura, quella che ti riporta alla realtà, che ti ricorda in realtà dietro le undici facce accoglienti di questo equipaggio così variegato, tutto composto da volontari, c'è l’impresa più dura che si possa compiere oggi nel nostro mare.

«Non possiamo portare dei corpi a bordo. Dobbiamo lasciarli lì», continua il capitano. Dal porto de La Valletta, il viaggio verso l’area di Ricerca e soccorso, a 30 miglia dalla Libia, dura più o meno 24 ore. La nave, un ex peschereccio di 22 metri, non ha celle frigorifere per trasportare sulla terraferma chi, in mare, ha perso la vita. «Forniremo le coordinate di dove si trovano e faremo una cerimonia. Ma lo spazio che abbiamo serve per aiutare chi è ancora vivo».

Sopra i teli tirati tra l'albero e la prua, per creare un po' d'ombra sono ammassati enormi sacchi pieni di giubbotti di salvataggio. Ogni anfratto è affollato di attrezzi. Lo spazio è ridotto al minimo.

«Not a very nice boat», aveva ridacchiato il tassista lasciandomi davanti all’imbarcazione rossa, di ferro e legno, dove la ruggine si è mangiata parte di una fiancata.

Il gommone è infilato sul ponte di legno, di fronte al tavolo e alle panche che usiamo per il pranzo, la stanzetta del capitano è anche l’infermeria. Il resto dell’equipaggio dorme in una camerata composta da 12 letti, sottocoperta. Con così poco spazio a bordo, tutto deve essere ottimizzato, qualsiasi cosa prenda posto deve essere utile. Lo stesso vale per le persone. È così che i due medici sono anche, rispettivamente, cuoca e vedetta, il fotografo ufficiale è operatore radio e i giornalisti che salgono a bordo ricevono il training per fare soccorsi in mare, perché, mi dice il responsabile della Search and rescue, mentre mi insegna a mettere in moto il gommone e ad usare la radio, «se a me succede qualcosa, tutti gli altri devono sapere come mettere le persone in salvo e tornare alla nave, te compresa».

L’inferno non è mai stato così vicino

Eppure qui è difficile sentirsi in pericolo. Quando il vento si ferma, le acque del Mediterraneo si trasformano in seta. Una calma così fluida da farti sentire su una laguna.

«Mi sembra di essere tornato nel ventre di mia madre», mi dice Stefan, 38 anni, chirurgo.

Sembra impossibile che qui siano morte più di 2mila persone dall’inizio dell’anno. Il canto delle sirene dell'Odissea assume tutto un altro significato. Nelle notti d’estate questo mare sembra stenderti un tappeto rosso, per qualsiasi luogo in cui tu voglia andare. Le sue acque riescono a ipnotizzarti, a convincerti che se ti affidi a loro, puoi arrivare ovunque, fino in Europa, persino su una barca di legno malandata, o su un gommone senza motore.

«Siamo ancora in paradiso», riflette Sampo Widman il capitano, 73 anni, architetto in Germania e velista da oltre quarant’anni. Si guarda intorno e osserva l’orizzonte. Intorno a noi non c’è nessun’altra imbarcazione. «Laggiù c’è la Libia. Sono solo 30 miglia da qui. Non possiamo neanche immaginarci cosa succede dall’altra parte». L’inferno non è mai stato così vicino. «Sono sempre stato un europeista convinto, ma come si fa a lasciare morire la gente così? Queste politiche sono disumane. Tradiscono tutti i valori su cui la nostra Europa è fondata».

Queste politiche tradiscono tutti i valori su cui la nostra Europa è fondata.

Sampo Widmann, capitano di Seefuchs

Tra qualche anno ci chiederanno dov'eravamo mentre tutte queste persone stavano morendo in mare. Io voglio avere la risposta giusta.

Stefan, chirurgo e volontario

L’Europa a trenta miglia dalla Libia

La bandiera con le dodici stelle dorate sventola in cima al peschereccio.

Bruxelles è lontanissima ma a bordo di Seefuchs e in questa porzione di mare, l’Europa c’è. La senti alla radio, nelle comunicazioni con le altre Ong, dove i volontari provengono da tutti i Paesi. La senti quando, dopo due settimane in mare, rientrando in porto, vedi l’equipaggio di Proactiva open arms, sono quasi tutti spagnoli, ma il responsabile del Search and rescue è italiano. Si sbracciano per salutare. Li avevamo visti appena pochi giorni prima, in alto mare, durante un’operazione di soccorso. Ritrovarli al porto ti fa sentire che sei tornato a casa.

Quella a 30 miglia dalla Libia è l’Europa lontana dai palazzi, di chi è cresciuto con l’Erasmus e di chi, invece, ha vissuto in prima persona il processo che ha portato all’unità. Le storie di chi è su Seefuchs sono fili di Arianna, per ripercorrere i nostri ultimi settant’anni.

«Mio padre è scomparso negli ultimi giorni di guerra, quando l’armata rossa è entrata in Germania. Da allora non se ne è più saputo nulla», mi spiega il capitano. «Abbiamo fatto così tanta strada in tutti questi anni, non possiamo permetterci di ritornare indietro».

Stefan non ha ancora figli ma dice di essere comunque qui per loro: «Tra qualche anno le generazioni future ci chiederanno dove eravamo mentre tutte queste persone stavano morendo in mare. Io voglio avere la risposta giusta».

Quando è caduto il muro di Berlino è stato uno dei momenti più belli della mia vita… Non pensavo che sarei mai riuscito a viaggiare. Qualche anno fa invece sono andato negli Stati Uniti e ho percorso l’Appalachian Trail. Ci credi? Ho persino un visto americano sul passaporto.

Ed, 61 anni, fotografo e volontario

Ed ha 61 anni, è fotografo ed è cresciuto nella Germania dell’Est. «Scusami, il mio inglese non è un gran che. A scuola ho studiato russo. La mia casa era proprio a pochi metri da uno dei check point». È nel mio gruppo di vedetta e nei lunghi turni in cui guardiamo l’orizzonte e teniamo monitorati la radio e il satellite, abbiamo molto tempo per parlare.

«La prima volta che sono andato a Ovest sono rimasto sconvolto dai colori. Da noi era sempre tutto grigio. Gli affitti non costavano niente ma i proprietari non avevano soldi per ridipingere le facciate». Mi racconta di quando in Tv ha visto crollare il muro di Berlino e ha capito che la sua vita sarebbe cambiata per sempre. Ripensandoci ancora oggi non riesce a trattenere le lacrime. «È stato uno dei momenti più belli della mia vita. Nessuno pensava che il muro sarebbe caduto senza che ci fosse spargimento di sangue», mi dice. «Non pensavo che sarei mai riuscito a viaggiare. Qualche anno fa invece ho realizzato uno dei sogni della mia vita. Sono andato negli Stati Uniti e ho percorso l’Appalachian Trail (uno de i sentieri di trekking più lunghi e famosi del Paese n.d.r). Ci credi? Ho persino un visto americano sul passaporto

Sono qui perchè sono una migrante anche io. Vent’anni fa mi sono trasferita in Germania da sola, con mia figlia. Non sapevo una parola di tedesco e la mia laurea in medicina non era valida, così oltre a lavorare mi sono rimessa a studiare. È stata durissima, ma ho incontrato così tante persone che mi hanno aiutato. Non potrei essere in nessun altro posto oggi, se non qui.

Olga, medico e volontaria

Olga è medico, ha 53 anni ed è originaria di Donetsk in Ucraina. «L’Italia la conosco bene», mi dice mentre si cimenta in cucina preparando il pranzo per tutto l’equipaggio. «Mia figlia veniva spesso in Puglia, con un’associazione che si occupava dei bambini di Chernobyl. È nata nel 1988, due anni dopo l’esplosione, ma con le radiazioni che avevo subìto io, la mandavo lo stesso a respirare un po' di aria decente».

Mi parla della sua scelta di prendersi due settimane di ferie e venire qui come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Sono qui perché sono una migrante anche io. Vent’anni fa io mi sono trasferita in Germania da sola, con mia figlia. Non sapevo una parola di tedesco e la mia laurea in medicina non era valida, così oltre a lavorare mi sono rimessa a studiare. È stata durissima, ma ho incontrato così tante persone che mi hanno aiutato. Non potrei essere in nessun altro posto oggi, se non qui.».

Quella di Olga è la stessa naturalezza che ritrovo negli altri volontari. Alla domanda, “perché sei qui?” alzano le spalle, sorridono un po' imbarazzati e ti guardano come se non ci fosse molto da spiegare.

Abbiamo cercato ovunque, tutta la notte, con i gommoni, senza trovare niente. Il mattino dopo sono andato all’aeroporto. Alle 11 hanno trovato una barca, affondata. Venticinque persone su ventisette erano morte. Nessuno di noi li aveva visti durante la notte. Una delle storie è finita anche sui giornali. Tra loro c’era un ragazzo turco, un violinista. L’hanno ritrovato abbracciato alla custodia del suo violino, voleva arrivare in Belgio.

Peter, dottorando in lettere classiche e volontario

Peter è il più giovane a bordo. Britannico, dottorando a Cambridge in lettere classiche, ha 23 anni ed è alla sua terza missione in mare, una volta nell’Egeo e 2 volte nel Mediterraneo centrale.

«Qui le cose sono diverse. In molti casi alle persone non viene dato neanche il telefono satellitare. I trafficanti gli tolgono qualsiasi effetto personale, i vestiti, persino le scarpe», mi dice. «La cosa più difficile quando c’è una chiamata è l’incertezza. Non sai quello che ti aspetta […] La sera prima che partissi da Lesbo abbiamo ricevuto una richiesta di soccorso per un’imbarcazione. Abbiamo cercato ovunque, tutta la notte, con i gommoni, senza trovare niente. Il mattino dopo sono andato all’aeroporto. Alle 11 hanno trovato una barca, affondata. Venticinque persone su ventisette erano morte. Nessuno di noi li aveva visti durante la notte. Una delle storie è finita anche sui giornali. Tra loro c’era un ragazzo turco, un violinista. L’hanno ritrovato abbracciato alla custodia del suo violino, voleva arrivare in Belgio. La sua storia la conosciamo, ma non conosciamo quella di moltissime altre persone. Molti corpi non vengono nemmeno identificati…Venticinque persone su ventisette». Si ferma. Annuisce, come se avesse trovato il nodo per spiegare perché ha deciso di passare questo agosto su un peschereccio nel mezzo del Mediterraneo. «Due persone però sono state salvate. Una di loro era una donna incinta, all’ottavo mese. Ha partorito il suo bambino poche settimane dopo».

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