Mondo

L’aranceto dello Zimbabwe che cresce nel deserto

di Daniele Biella

È il caso dell’anno nel mondo della cooperazione internazionale: ogni giorno le donne di 250 famiglie coltivano 90 ettari di campi strappati alla siccità

Dalla terra arida spuntano 90 ettari di aranceti: non è un miracolo ma poco ci manca, e di sicuro per 250 famiglie del sud dello Zimbabwe è la via d’uscita dalla povertà degli ultimi vent’anni. Stiamo parlando di un progetto modello di cooperazione internazionale realizzato dall’ong Cesvi che proprio per la sua efficacia ha rappresentato il case study a livello mondiale dell’Indice globale della fame 2016. Si chiama Shashe Citrus Orchard e ha rivoluzionato la quotidianità di 15 piccoli villaggi al confine con il Botswana, che si svegliano ogni giorno alle cinque del mattino, quando decine di persone soprattutto donne, perché la gran parte di uomini, adulti e ragazzi, si recano per settimane nel più ricco e vicino Sudafrica a lavorare nei campi percorrono fino a 20 chilo- metri a piedi (o, per le più fortunate, su un carretto trainato da un asino) per raggiungere gli aranceti (50 piante per ogni appezzamento). «La zona dello Shashe è quasi desertica, non esiste nemmeno una vera e propria stagione delle piogge», racconta Loris Palentini, 42 anni, capo missione del Cesvi in Zimbabwe dal 2014 e cooperante dal 2003. «C’era da investire molto per fare funziona- re il sistema di irrigazione costruito per ricavare l’acqua dal sottosuolo». Quello che mancava erano i fondi per realizzare il progetto.

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La raccolta delle arance


Con la cultura si mangia
In tali condizioni, in altre zone del Terzo mondo il baratro sarebbe stato inevitabile. In Zimbabwe,
però, la rinascita è partita da un luogo ben preciso: i banchi di scuola. «Il 95% della popolazione è alfabetizzato, e a partire dalla terza elementare si insegna agricoltura. Nel tempo le comunità dello Shashe si sono rese conto che potevano riscattarsi dalla povertà, unendosi e chiedendo aiuto», rimarca Palentini. Era il 2010: a Cesvi, già presente sul campo con al tri progetti di microcredito, arriva la richiesta di un gruppo di famiglie e del titolare di una fabbrica che processa le arance. «Aiutateci a ripristinare il settore agricolo del territorio, abbiamo le competenze ma ci serve la vostra esperienza».

Un anno dopo l’Unione europea era già disposta a finanziare un piano quinquennale di sviluppo, a cui poi si è aggiunto il sostegno del Comune di Milano. «I fondi sono serviti a rimettere in funzione il sistema in modo sostenibile per le famiglie, che hanno recuperato il loro know how e si sono unite in cooperative agricole gestite da comi tati di cittadini lavoratori degli aranceti e non eletti ogni due anni», spiega il cooperante. Il mix vincente è stato il recupero degli schemi irrigui originari per ottenere l’acqua dal sottosuolo e l’introduzione di un sistema moderno di irrigazione basato su fulcri rotanti che spargono acqua in modo programmato e circolare per un raggio di 300 metri, evitando così sprechi.

«Anche l’uso del terreno è massimizzato, perché laddove non ci sono ancora le condizioni per piantare aranci vengono coltivati altri ortaggi come cipolle, cavoli e legumi», sottolinea Palentini. Ogni famiglia gestisce direttamente il proprio raccolto: «Nella sede delle cooperative ognuno deposita e registra la produzione, che viene poi consegnata periodicamente alle ditte del territorio tra cui le filiali locali della Schweppes per la trasformazione. I guadagni vengono poi redistribuiti in base a quanto pro- dotto». Curare il più possibile il proprio appezzamento significa aumentare i guadagni. Una leva formidabile: «Il numero di famiglie che partecipano al progetto è sempre in aumento proprio perché è evidente il miglioramento delle condizioni di vita dei beneficiari». La maggior parte delle donne arriva ai campi tra le 6 e le 7 del mattino, spesso con i figli più piccoli che non vanno ancora a scuola, e lavora fino all’ora di pranzo, quando la morsa del caldo diventa eccessiva.



Adesso la politica arraffa altrove
Le istituzioni, di certo, non sono partner attivi nel cambiamento in atto nello Shashe. Anzi. «Dilaga la corruzione, i membri del governo e dell’esercito si arricchiscono alle spalle dei più deboli, le cliniche sono senza farmaci. Quello che accade qui non è rappresentativo delle condizioni in cui versa il Paese, basti pensare che gran parte della popolazione rimpiange amaramente il colonialismo, quando perlomeno la sussistenza era garantita: fino alla metà degli anni 90, l’economia era florida e le arance erano un bene da esportazione», ragiona Palentini. Le terre sottratte dall’indipendenza del 1980 in poi ai latifondisti bianchi «sono state sfruttate fino all’osso senza lungimiranza e poi abbandonate, così come sono state tolte le concessioni minerarie ai privati senza però un successivo utilizzo».

Così la percentuale di terra coltivata è molto bassa. Complice anche il ciclone El Niño dell’inizio di quest’anno, la produzione di mais è ferma a 600mila tonnellate all’anno, un terzo del fabbisogno nazionale fissato a 1.800 tonnellate. La persistenza al potere di Robert Mugabe primo ministro dall’Indipendenza al 1987, e da allora presidente sempre più dittatore 92enne abile a districarsi tra accuse di plateali violazioni di
 diritti umani tanto da essere ancora oggi incredibilmente in- vitato all’Assemblea generale delle Nazioni unite come membro permanente, è il segno più tangibile dell’impossibilità di riscatto sociale di tutto il Paese.

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Gli studenti


Il caso pilota del Shashe Citrus Orchard è comunque una luce fulgida anche per un altro elemento. «Insieme alle 250 famiglie, 900 studenti di due scuole della zona, dalle elementari alle superiori, sono impegnati quotidianamente negli aranceti:», specifica Palentini, «i ragazzi alternano la formazione teorica specifica sulle tecniche di agricoltura alla pratica sul campo». I guadagni delle vendite vengono investiti a vantaggio degli stessi studenti. In questo modo la scuola riesce ad autofinanziare la manutenzione degli edifici e ad attivare borse di studio per gli alunni più poveri. L’approccio di Cesvi, sia con le scuole che con le famiglie, è finalizzato alla loro futura indipendenza, in ottica di imprenditoria sociale: «staremo al loro fianco fino a quando avranno acquisito un’autonomia tale da essere in grado di reggere la concorrenza, senza bisogno di aiuti esterni». La strada è tracciata.

L’aranceto dello Zimbabwe che cresce nel deserto

Testi a cura di Daniele Biella
Foto gentilmente concesse da Cesvi


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