Sordocieco e poliziotto. Impossibile? Non per Francesco Mercurio, 35 anni, originario della provincia di Caserta ma napoletano nel cuore, nato cieco e diventato sordo a 10 anni. Lo scorso 2 ottobre, a Brescia, con una cerimonia ufficiale organizzata dall’Associazione Nazionale Polizia di Stato, Francesco ha ricevuto la tessera di poliziotto ad honorem.
Tutto è cominciato nel maggio scorso quando il Presidente dell'ANPS, Maurizio Marinelli, ha visto Mercurio ospite in tv a La vita in Diretta: raccontava la sua storia, le sue difficoltà e i suoi successi, tra cui la laurea in giurisprudenza (con 110 e lode, con una tesi sulla Tutela delle persone disabili nella Costituzione e nella normativa di attuazione), il suo lavoro alla Lega del Filo d’Oro e il supporto che l’ Associazione gli ha dato negli anni, insieme ai suoi amici e alla sua famiglia. Ma c'era un sogno che Francesco aveva sin da bambino e che sembrava impossibile da realizzare: diventare un poliziotto, come suo padre.
Ma chi è Francesco? Lo avevamo incontrato per il libro Il codice del cuore e ci aveva raccontato la sua storia, il rapporto con la sua famiglia, la sua voglia matta di autonomia. E anche il suo sogno di bambino. Ecco la sua intervista.
Francesco, com’è la tua famiglia?
Mio padre era poliziotto, mammà a un certo punto ha aperto un negozio. A casa eravamo in cinque, io sono il più piccolo di tre fratelli. Siamo la prova che la famiglia “del mulino bianco” esiste: una famiglia unita, serena, ovviamente pur nel continuo divenire degli eventi, perché serenità e felicità sono due cose diverse, che non sempre coincidono.
Serenità e felicità sono due cose diverse, dici. Che differenza c’è?
Felicità è uno stato emotivo temporaneo, serenità è qualcosa di più complesso.
Che rapporto hai con i tuoi genitori?
Abbiamo avuto tutte le problematiche del rapporto tra genitori e figli, non per nulla Freud parlava dell’atto necessario di uccidere simbolicamente il proprio padre. Diciamo che l’evento che ha complicato le cose è stata la scelta dei miei genitori di mandarmi in istituto a Napoli, quando avevo 6 anni: è una scelta che non ho mai condiviso. Oggi, col passare del tempo, posso dire che la capisco ma continuo a non condividerla.
Com’era la tua vita, a quel tempo?
Sono stato in un istituto a Napoli dai 6 ai 18 anni. In alcuni periodi andavo tutti i giorni avanti e indietro, alle superiori tornavo a casa solo nel fine settimana. Lo detestavo, perché quando tornavo non conoscevo nessuno, non avevo amici.
Perché dici che capisci la scelta, ma non la condividi?
Secondo i miei genitori era la scelta giusta perché quello era il posto che poteva offrirmi gli strumenti migliori, in questo senso posso capirli. Non condivido la scelta perché l’istituto è un’esperienza di separazione dal mondo. Culturalmente in quegli anni c’era l’idea che la persona disabile dovesse adattarsi il più possibile al mondo normale, anche sforzandosi: in un certo senso l’approccio pedagogico era quello di “insegnarti ad arrangiarti”.
Quale merito riconosci ai tuoi genitori, nelle opportunità che ti hanno dato e nel modo in cui si sono messi in relazione con la tua disabilità?
Loro mi hanno sempre spinto ad andare oltre, non hanno mai cercato di ostacolarmi, hanno capito che ce la potevo fare e a modo loro mi hanno sempre incitato. Alla fine della terza media ad esempio c’era la tendenza a instradare noi ragazzi ciechi al diploma triennale di massofisioterapista o di centralinista, “diplomini speciali” che all’epoca garantivano un buon accesso al mondo del lavoro. Qualche professore tentò di convincere i miei genitori, ma io volevo un’istruzione buona e i miei hanno creduto che potevo farcela.
Significa che a 14 anni eri già determinato a fare l’università?
A dire la verità da bambino sognavo di fare il poliziotto, come papà. Quando mi resi conto che non era possibile, pensai a qualcosa che si avvicinasse a quel mondo: sognavo di fare il pubblico ministero per avere un rapporto stretto con le forze dell’ordine. I miei hanno sempre accettato le mie decisioni, ad esempio quella di andare a finire l’università a Urbino.
Cosa non andava bene a Napoli?
Il Codice Civile in braille ha 45 volumi, basta dire questo, e a Napoli avevo due ore di assistenza al giorno: questo mi rallentava, riuscivo a dare solo 4 o 5 esami all’anno. Un amico mi raccontava meraviglie sull’università di Urbino, dove potevi avere anche quattro assistenti, che tu stesso sceglievi. Due cose mi affascinavano: l’idea di chiudere con l’istituto e la possibilità di vivere in un collegio universitario, fuori casa, che mi stava stretta. Niente di diverso da ciò che vive qualsiasi ragazzo di vent’anni. Mamma era preoccupata, ma ha accettato la sfida. I miei genitori mi hanno lasciato fare. È vero che li ho messi davanti a un aut aut, però sono stati bravi a non mettermi i bastoni fra le ruote. Non stava scritto da nessuna parte che questa sfida dovesse avere un esito positivo.
E com’è andata?
In tre anni mi sono laureato. Quegli anni nei collegi universitari sono stati fondamentali per la mia crescita. Ho fatto politica studentesca, sono stato presidente del movimento Pantarei di Urbino, ho fatto teatro, manifestazioni… Ho vissuto la vita normale di uno studente. Ho imparato a prendere decisioni, è stata un’esperienza enorme di responsabilizzazione.
Trovi che i genitori facciano fatica ad assecondare questa “voglia di autonomia” dei figli?
Sì, per tutti i genitori i figli restano sempre bambini. Se poi il figlio ha una disabilità, ancora di più. Sicuramente la spinta di indipendenza è sempre partita da me, però i miei non mi hanno mai messo ostacoli: alcune volte hanno provato a frenarmi, ma hanno anche imparato ad assecondare le mie spinte.
I miei genitori mi hanno lasciato fare. È vero che li ho messi davanti a un aut aut, però sono stati bravi a non mettermi i bastoni fra le ruote. Non stava scritto da nessuna parte che questa sfida dovesse avere un esito positivo.
Francesco Mercurio
Hai detto che hai due fratelli: che rapporto hai con loro?
Buono, sono appena diventato zio di due bellissime gemelline, che non ho ancora visto! Certo io ho vissuto la famiglia un po’ a spezzoni, sono un “volatile”.
Vorresti una famiglia tua?
Certo, è un sogno che spero in futuro di realizzare. Anche se poi mi dico: “O’ se tuo figlio nasce interista, che fai?”. Ecco, parlare in dialetto napoletano mi fa sentire bene, è la lingua dell’intimità, degli amici, della famiglia… parlo come sono. A Napoli la gente parla in dialetto sempre. Il tifo per il Napoli è una delle cose che davvero condivido con la mia famiglia: i miei valori, le idee politiche me le sono fatte da solo, fuori casa, il tifo invece ci unisce moltissimo.
Era una domanda che non dovevo fare?
Ma no (ride).
Sei mai stato innamorato?
Sì, mi è capitato. E mi fermo qui.
Cos’è l’affettività per te?
La dimensione affettiva dà serenità, dà una spinta in più. Un conto è tornare a casa e trovarla vuota, un conto è trovarci una figura di assistenza, un conto è trovare qualcuno che ti vuole bene: chiunque lo neghi, mente. Ovviamente c’è anche paura nel mettersi in un legame affettivo, perché una persona con disabilità ha sempre la paura che scommettere su una relazione possa generare dipendenza, sia dal punto di vista affettivo sia pratico. Questo non vuol dire che ti tiri sempre indietro, a volte decidi di accettare la sfida e di buttarti, però ci pensi tanto e sulla bilancia metti tante cose. D’altra parte gli affetti sono lo zucchero della vita.
Hai tanti amici?
Ho degli amici, non so se tanti o pochi perché non so quanti devono essere gli amici. Come diceva Manzoni? Che gli amici non vanno a due a due, come gli sposi, ma che ognuno, in genere, ne ha più d’uno.
Mettiamola in un altro modo: hai una vita sociale che ritieni soddisfacente?
In questo momento no. La disabilità e il vivere da solo frenano molto, al di là delle chiacchiere. I limiti sono tanti. È difficile stringere relazioni nuove, uscire dal solito circolo di assistenti e volontari, semplicemente perché io non mi posso guardare attorno. Una persona cieca va in giro, per lei è più semplice. Per me no. Ora io e te stiamo parlando tranquillamente, ma se fossimo in quattro e ci fosse una conversazione normale, io mi perderei: all’interno di un gruppo per me è molto difficile seguire i dialoghi, la comunicazione diventa faticosa, a meno che una persona si sobbarchi il compito di riportarmi tutto. Diciamo che io cerco di crearmi degli spazi, ma per lo più resto all’interno della “riserva protetta” legata alla Lega del Filo d’Oro. La mia vita sociale è limitata dalla mia condizione, non ci sono storie.
Parlando in generale delle famiglie della Lega del Filo d’Oro, quindi di famiglie che vivono l’esperienza della disabilità grave, cosa noti?
La premessa è che la Lega del Filo d’Oro lavora con disabilità molto diverse fra loro, sia per condizioni della persona sia per contesto ambientale. Io mi occupo di dare informazioni legali alle famiglie e le vedo tante volte scontrarsi con l’ottusità del diritto e della burocrazia, con uno Stato sociale che va assottigliandosi. Quella di oggi a me sembra “la società del bianconiglio”, che corre e non arriva mai da nessuna parte: bisogna far vedere che si corre, verso dove non si sa. Le istanze delle persone con disabilità o semplicemente di quelle che non sostengono questo ritmo, rischiano di non essere accolte. La “bella tartaruga” di Bruno Lauzi correva, ma quando rallentò scoprì opportunità che non aveva mai visto. Anche la nostra società deve rallentare, perché man mano che corre aumenta il numero delle persone deboli che lascia indietro: pensa a Pantani, quando correva si liberava di sempre più cose. Ma ogni volta che lasciamo indietro qualcuno o qualcosa, rischiamo di perdere un’opportunità.
Quella di oggi mi sembra “la società del bianconiglio”: bisogna far vedere che si corre, verso dove non si sa. Ma dobbiamo rallentare, perché man mano che corre aumenta il numero delle persone deboli che si lasciano indietro. Pensa a Pantani, quando correva si liberava di sempre più cose. Ma ogni volta che lasciamo indietro qualcuno o qualcosa, rischiamo di perdere un’opportunità.
Francesco Mercurio
Che cosa vorresti dire a queste famiglie?
In un incontro con le nostre famiglie, a un padre che mi ha fatto questa stessa domanda mi è capitato di dire “Sta certo che quello che pensa tuo figlio è il contrario di quello che pensi tu”. Messa così è una battuta, però mi sento di incitare i genitori perché permettano ai figli di fare più esperienze possibili, gli offrano possibilità. D’altra parte parlando con le persone sordocieche noto spesso che alcuni manifestano il desiderio di vivere da soli, però c’è uno sfasamento fra il desiderio detto a parole e la non consapevolezza di cosa questo comporti nella pratica. La mia fortuna è stata aver vissuto cinque anni a Urbino, dove ho imparato a gestire tante piccole cose concrete, che contano moltissimo. Sapere di quanti soldi si dispone, sapere cosa si è in grado veramente di fare… quando sei da solo devi fare i conti con la realtà delle tue possibilità, non puoi più dare la colpa a nessun altro. Ed è la cosa più dolorosa, perché hai la consapevolezza di quello che non hai e che avresti avuto se il tuo destino fosse stato un altro.
Ritratto di Nicolas Tarantino, foto www.legadelfilodoro.it
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