Circa 600 tende sotto al sole, sull'asfalto. I più fortunati hanno trovato un posto sotto il cavalcavia o dentro il magazzino abbandonato, conosciuto come la “Stone house”, la casa di pietra. Altri si riparano dal caldo come possono, sotto un container o sotto le pensiline per le macchine. Di fronte, i traghetti in partenza per le isole greche e per l'Italia.
Se c'è un luogo che rappresenta in modo emblematico la situazione attuale dei 53mila migranti bloccati in Grecia, è il porto del Pireo, ad Atene. Qui vivono 2.100 persone: vengono per la maggior parte dall'Afghanistan e dalla Siria, ma ci sono anche pakistani e iracheni. Vivono accampati nei pressi del molo E1 da due mesi circa.
Il 20 marzo è la data che per tutti separa il prima e il dopo. Prima questo era un luogo di passaggio: i migranti in arrivo dalle isole stavano qui per pochi giorni, giusto il tempo necessario a trovare un mezzo per spostarsi al confine e intraprendere la rotta balcanica fino in Germania. Dopo, le frontiere sono state chiuse: Ungheria, Bulgaria, Serbia e Macedonia hanno chiuso il passaggio ai migranti, rendendo impraticabile il passaggio. A maggio anche il campo di Idomeni, a pochi chilometri dal confine macedone è stato sgomberato.
In Grecia, nessuno esce, nessuno entra. O quasi. Da aprile sono arrivati via mare 6.925 migranti, di cui 1.554 a giugno: niente se paragonato ai 62.763 arrivi nello stesso periodo del 2015. È l'effetto dell'accordo tra l'Unione europea e la Turchia, che dopo la promessa di ricollocamento dei siriani presenti nel paese in Europa, si è impegnata a controllare le partenze dalle sue coste. Chi è arrivato dopo il 20 marzo è bloccato sulle isole greche, mentre chi stava al confine è tornato nella capitale. L'emergenza, quella dei nuovi arrivi, è finita. L'emergenza, per le persone che vivono qui, è diventata la norma. L'acqua corrente è poca, l'elettricità va e viene, i bagni chimici sono una trentina e i le docce sono poco più di dieci. Ci sono alcuni volontari: c'è una postazione della Croce rossa greca, alcuni ragazzi della Ong norvegese “A drop in the ocean” che giocano con i bambini e c'è un camper dove alcune ostetriche distribuiscono latte in polvere e visitano le donne incinte. Non c'è però nessun coordinamento, né un responsabile ufficiale del campo.
«Questo non è un campo», ribadisce più volte Zore Shah, una cooperante tedesco – iraniana della fondazione Rewoc, per il diritto all'istruzione di donne e bambini. Da diverse settimane Shah viene al Pireo quasi ogni giorno per cercare di risolvere i frequenti conflitti tra le persone che vivono qui e soprattutto per cercare di convincerle a spostarsi in uno dei campi governativi. Da mesi si mormora di un possibile sgombero del Pireo, in concomitanza con la stagione turistica. Uno sgombero che probabilmente si risolverà nello spostamento delle tende a ridosso del molo turistico in una zona meno in vista, visto che le autorità greche non sembrano intenzionate a scontrarsi con violenza con i migranti.
Dal 20 marzo nessuno esce. O quasi: ci sono i trafficanti, che in arabo si chiamano muharribin, letteralmente “quelli che fanno uscire”. Basta pagare 3mila euro per ottenere un documento falso e un biglietto aereo per l'Italia o un altro paese Schengen, una cifra ormai inarrivabile per la maggior parte dei migranti.
Elleniko, un tendopoli nell'ex aeroporto
Ad Atene, e soprattutto nei dintorni di Atene, sono stati aperti diversi centri di prima accoglienza. C'è Skarmangas: 1.600 siriani e iracheni alloggiati in 218 container ad un'ora circa da Atene. Per gli afgani invece c'è Schisto: 1.800 persone in 157 tende. E poi ci sono Elaionas, Lavrio e Malakasa. Nell'ex aeroporto della capitale e negli stadi di baseball e hockey costruiti per le olimpiadi hanno trovato posto 4.450 persone. Il 90% sono afgani. Esclusi dall'accordo tra i paesi europei sul ricollocamento e con poche probabilità di ottenere l'asilo in Grecia, gli afgani sono i dimenticati di questa “emergenza”. A Elleniko incontriamo Haibar: è arrivato in Grecia con la moglie e un figlio di tre anni, da poco guarito dalla varicella. Con ironia stridente, vivono in una tenda dentro quello che era il terminal delle partenze, addossati a decine di altre famiglie. Il caldo e l'odore dovuto ai bagni sovraffollati rendono l'aria pesante. L'insediamento dentro l'aeroporto è stato aperto a febbraio, insieme a quello nell'ex campo da baseball, mentre già dal settembre scorso l'accampamento nello stadio da hockey ospitava i migranti in transito.
La moglie di Haibar lavorava per il parlamento afghano, mentre lui era consulente per un'impresa statiunitense a Kabul, fino a quando un suo collega olandese non è morto durante un attacco dei talebani contro un hotel. Così hanno deciso di lasciare il paese. Haibar ha appena parlato con due amici che hanno raggiunto l'Italia da pochi giorni: si sono imbarcati di nascosto sui container in partenza da Patrasso e adesso sono in viaggio verso l'Austria o la Germania. Una strada per lui impraticabile: con una moglie e un figlio non può fare altro che aspettare. Una differenza tra il campo informale del Pireo e quello ufficiale di Elleniko c'è: qui da alcune settimane è iniziata la pre-registrazione, di fatto un censimento dei migranti bloccati in Grecia, che solo in una seconda fase potranno procedere alla formalizzazione della domanda di asilo.
Crisi economica e migranti, le difficoltà dell'Asylum service
Fino ad alcuni mesi fa, l'unico modo per registrarsi era tramite Skype: i migranti dovevano chiamare in orari prefissati durante la settimana a seconda della nazionalità e della lingua parlata. 53mila persone che cercavano, il più delle volte inutilmente, di ottenere la linea. Dall’8 giugno è invece cominciata una pre-registrazione condotta dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), dall’Easo (l’agenzia europea per i servizi d’asilo) e dall’Asylum service (il dipartimento del ministero dell’interno greco che si occupa di asilo), ma solo nei campi governativi. La pre-registrazione si dovrebbe concludere, ottimisticamente, entro tre mesi, poi avverrà la registrazione vera e propria: ogni migrante avrà un appuntamento per formalizzare la domanda. La pre-registrazione non dà nessun diritto ai migranti, che resteranno in un limbo giuridico: fino alla registrazione resteranno infatti esclusi dai diritti previsti per i richiedenti asilo, come la possibilità di lavorare. Ma, assicurano dall'Asylum service, la pre-registrazione dovrebbe mettere i migranti al sicuro dal rischio di deportazione, visto che ad oggi a si tratta di persone senza documenti regolari per il soggiorno in Grecia.
“Siamo sotto organico e senza fondi – spiega Edward Hall, dell'Asylum service –, per smaltire tutte le richieste in tempi ragionevoli dovremmo avere un organico tre volte più grande. Invece un terzo dell'attuale personale è stato assunto da poco e con contratti a tempo determinato. Il problema è che la necessità di gestire il flusso dei migranti si è sommata alla crisi economica”. L'ufficio di Katehaki, ad Atene è il luogo in cui avviene la registrazione vera e propria, a cui segue, mesi dopo, l'intervista con il corrispettivo della nostra commissione territoriale per chi decide di chiedere asilo in Grecia. Ma la maggior parte dei migranti spera nel ricollocamento o nel ricongiungimento familiare. “Questa è la seconda ondata di migranti: praticamente chiunque ha un genitore, un fratello, un marito, o almeno un cugino in un altro paese europeo – fa notare Yista Massouridoy, avvocata dell'associazione per i diritti dei migranti e dei rifugiati -. Dicono che daranno priorità ai casi Dublino, ma voglio vedere come faranno in pratica: il sistema è collassato e ci vorranno mesi, probabilmente più di un anno prima per un ricongiungimento”. Di fatto quindi, a causa delle difficoltà burocratiche, si preferisce dare la priorità al ricollocamento.
Ma i numeri sul ricollocamento non fanno ben sperare: ad oggi dalla Grecia sono stati ricollocate in altri stati membri 2.218 persone, delle 66.400) previste.
Le occupazioni, una soluzione per chi viveva in strada
“Passport! Passport!”: in tasca ho solo un biglietto dell'autobus, lo mostro e i cinque bambini siriani, tra i 4 e i 7 anni, appostati sul pianerottolo, mi lasciano passare, soddisfatti. L'Hotel City Plaza si trova a cinque minuti a piedi dai giardini di piazza Victoria, non lontano dal museo archeologico di Atene. Era abbandonato da 6 anni quando ad aprile è stata occupato da un gruppo di attivisti greci.
La crisi economica e una controversia tra il gestore e il proprietario dell'albergo ne avevano determinato la chiusura. Stando a quanto ci raccontano gli occupanti, gli ex-dipendenti sono contenti che l'hotel sia stato occupato: quando tra diversi anni la causa sarà risolta, gli arredi dell'albergo saranno venduti per pagare gli stipendi arretrati. La presenza dei rifugiati è una garanzia che fino ad allora qualcuno manterrà il posto in buone condizioni. Al Plaza vivono 400 persone, di cui 187 sono bambini. Nella sola Atene i rifugiati che vivono in un'occupazione sarebbero circa 3mila. Ci sono siriani, afgani, iraniani e pachistani: ogni famiglia ha una stanza. Si mangia nel ristorante dell'albergo e a cucinare sono gli stessi migranti.
A pochi minuti dal City Plaza c'è una scuola, occupata da un paio di settimane. 300 persone, che prima vivevano in strada o nei campi al confine hanno trovato posto qui, arrangiandosi con tende e materassini dentro quelle che erano le aule. Come al Plaza, a gestire il posto sono i migranti stessi insieme ad alcuni attivisti locali.
In questa scuola incontriamo Ehmad: è qui per dare una mano come mediatore, perché parla bene inglese. Ehmad è riuscito a registrasi qualche mese fa: viveva in un campo vicino a Salonicco e mentre in tanti provavano a registrarsi con Skype, ha scoperto praticamente per caso l'ufficio locale dove era possibile formalizzare la domanda di asilo. Ha fatto domanda per il ricollocamento e tra poche settimane partirà per il Belgio. Kareem, anche lui siriano, è invece tra i coordinatori della scuola occupata. È arrivato in Grecia all'ultimo: il 18 marzo. Ma ora si rifiuta di fare domanda per il ricollocamento, un sistema, dice, che assomiglia più altro una lotteria: “Ci sono molte persone che vogliono andare in Germania, perché sperano di avere una casa e dei soldi. Ma io – continua Kareem – non voglio essere né un rifugiato né un ospite, voglio un paese che mi tratti da essere umano e che mi permetta di contribuire. Prima ci hanno obbligato a migrare, rifiutandosi di cercare di risolvere la situazione in Siria, e adesso vorrebbero anche scegliere al posto mio il posto in cui dovrei andare. Quello che voglio non essere mantenuto, ma aiutare a trovare una soluzione”.
Un sistema schizofrenico: Lesbo e le isole
Se Kareem fosse arrivato solo pochi giorni dopo non sarebbe riuscito a raggiungere Atene: il sistema di asilo greco viaggia al momento su due binari separati, per effetto dell'accordo con la Turchia. L'accordo con Ankara prevede in sostanza, in cambio di aiuti economici e della liberalizzazione per i visti dei cittadini turchi, la riammissione in Turchia dei migranti sbarcati dopo il 20 marzo.
Questo significa che nelle isole i funzionari dell'Asylum service greco e di Easo valutano innanzitutto l'ammissibilità delle domande di asilo: se, caso per caso, la Turchia viene ritenuta un paese terzo sicuro, il migrante viene rimandato indietro. “Nelle decisioni sull'ammissibilità – sottolinea l'avvocata Massouridoy – l'accordo Ue-Turchia viene citato esplicitamente. Ma giuridicamente è un controsenso, perché si tratta di fatto di un accordo politico non ratificato dal Parlamento e non implementato nella legge greca”.
A giugno il Parlamento greco ha approvato una riforma della legge sull'asilo che ha recepisce la direttiva europea sui rimpatri, riorganizza il sistema di prima accoglienza, ma soprattutto dà la possibilità ai funzionari Easo di “partecipare più attivamente nel processo di richiesta di asilo nelle isole”, come spiega Hall. La nuova legge sull'asilo ha anche riformato la composizione delle commissioni di appello per chi decide di ricorrere contro il rigetto dell'ammissibilità della domanda di asilo. Il problema, spiega ancora Hall, è che “su 50-60 casi in cui migranti hanno fatto ricorso contro l'inammissibilità della domanda di asilo, nella quasi totalità dei casi la commissione di appello ha ribaltato la decisione, stabilendo che la Turchia non era un paese terzo sicuro e che quindi la persona aveva il diritto di restare in Grecia”. Bisognerà ora aspettare per capire se la nuova composizione delle commissioni di appello cambierà le cose.
“Temiamo una violazione dell'accesso al diritto di asilo – ribadisce Massouridoy – i migranti hanno 60 giorni per appellarsi contro l'inammissibilità, ma la richiesta non è sospensiva e questo significa che nel frattempo rischiano comunque la deportazione”. E poi c'è il caso dei cittadini pachistani: la Turchia ha una accordo di riammissione con il Pakistan, quindi il rischio per loro è di essere rimandati nel paese di origine senza avere avuto la possibilità di sottoporre la loro storia ad una commissione per l'asilo.
A giugno una delegazione di avvocati e attivisti italiani ha visitato il paese per capire qual è la situazione umanitaria e legale delle migliaia di persone che sono rimaste bloccate nel paese.
Tra loro, Salvatore Fachile dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione che spiega come potrebbero esserci gli estremi per un ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo “sia per quanto riguarda l'impossibilità di accesso alla tutela legale, sia perché non vengono prese in considerazione le richieste di ricongiungimento familiare. Ma potrebbero esserci anche un presupposti per quanto riguarda la limitazione della libertà personale visto che ai migranti sulle isole viene impedito di lasciare le isole stesse.
Di fatto finora tutte le riammissioni in Turchia sono state su base volontaria: gli ultimi a ripartire da Lesbo sono stati 80 cittadini algerini che di fronte alla prospettiva di restare bloccati sull'isola a tempo indeterminato hanno preferito tornare in Turchia e cercare lavoro lì. Mentre a giugno, due cittadini siriani si trovano in stato di fermo al comando di polizia di Mitilene in attesa dell'appello.
A Lesbo ci sono in tutto 3.267 migranti, che vivono in tre campi: due ufficiali, Moria e Kara Tepe, e uno informale, Pikpa. Subito dopo l'accordo con la Turchia circa 2mila persone sono state portate ad Atene: l'isola è stata svuotata per fare posto ai nuovi arrivati, che invece non possono andarsene da qui. Chi è arrivato dopo il 20 marzo viene infatti identificato a Moria, l'hotspot di Lesbo, dove può restare in detenzione fino a 25 giorni. A Moria si tiene anche la prima intervista per verificare l'ammissibilità della domanda di asilo. Poi chi ha fortuna o è considerato vulnerabile è trasferito a Kara Tepe o a Pikpa.
A marzo Medici senza frontiere ha decido di chiudere le proprie attività all’hotspot di Moria, “una decisione – si legge nel comunicato – presa perché continuare a lavorare nel centro ci renderebbe complici di un sistema che consideriamo sia iniquo che disumano”. Una parte dell'hotspot è un centro di detenzione, mentre l'altra è aperta e alcuni migranti possono entrare e uscire liberamente. Di fronte all'ingresso si trovano chioschi che vendono da mangiare e da bere e dove alla sera alcuni migranti passano il tempo. Intanto, nonostante tutto, la vita va avanti: in uno dei chioschi si festeggia il fidanzamento di due giovani siriani.
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Testi e foto a cura di Daniela Sala
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