Abitare, non solo questione di muri (e posti letto e standard e normative), ma soprattutto di diverse relazioni che fra quelle mura si dispiegano. Soprattutto quando si parla di persone con disabilità e del loro futuro. La legge sul dopo di noi, approvata il 26 maggio in seconda lettura dal Senato, incrocia in modo importante la questione dell’abitare, finanziando in particolare interventi innovativi per creare soluzioni di tipo familiare e di co-housing, anche in forme di mutuo aiuto tra famiglie. Sullo sfondo della nuova legge, che dovrebbe andare all’approvazione definitiva subito dopo le amministrative, c’è l’articolo 19 della Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità: questo articolo sancisce l’impegno degli Stati affinché «le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione».
Fra gli obiettivi della legge c’è esplicitamente quello di evitare o ridurre l’istituzionalizzazione e accompagnare la deistituzionalizzazione: si poteva fare di più, dicono in molti, ma sicuramente è una strada segnata. Il Fondo istituito dalla legge (90 milioni di euro per l’anno 2016) è destinato a tre finalità, che hanno tutte a che fare con l’abitare (articolo 4, comma 1, lettere a, b, c). La lettera c in particolare prevede che con il fondo vengano realizzati interventi innovativi di residenzialità per le persone con disabilità grave, per creare soluzioni alloggiative di tipo familiare e di co-housing, anche sostenendo forme di mutuo aiuto tra persone con disabilità.
Esistono già divese esperienze di residenzialità innovativa, che hanno fatto da punto d'appoggio anche per arrivare a scrivere nero su bianco in una legge dello Stato che qualcosa di diverso dagli istituti si può fare. Qui ne raccontiamo alcune, già abbiamo parlato del bel progetto di Casa Comune a Milano, che accoglie ragazze con la sindrome di Asperger e studentesse universitarie, alla pari. La speranza ora è che con la cornice di questa nuova legge le Regioni accolgano in via preferenziale questi progetti, che li comprendano all’interno dei Piani di Zona, che diano loro un riconoscimento. Insomma, che grazie alla nuova legge queste microesperienze possano moltiplicarsi.
IL CON-DOMINIO SOCIALE, Groppello d’Adda (MI)
Sul naviglio, circondata dal verde, vicina a tanti esercizi commerciali, in un contesto sociale vivace, a Groppello d’Adda sorge il Con-dominio solidale della cooperativa Punto d’Incontro, una realtà a marchio Anffas da 200 operatori che segue 260 persone con disabilità. Con-dominio è scritto proprio così, con il trattino, in riferimento all’etimologia della parola: «È un luogo per restituire potere alle persone. Con-dominio è dominare insieme. Partiamo da situazioni di grande deprivazione di potere e lavorando sulle regole di contesto, spazi, rispetto dell’individualità rendiamo le persone più forti nell’interazione con il mondo», spiega Vincenzo Baioni, direttore sociale della Cooperativa Punto d’Incontro. «Questa vuole essere una condizione in cui le persone con disabilità possano comunque “essere padrone” del proprio abitare rimanendo insieme, in una situazione di condivisione che garantisca inclusione sociale e protezione. Il nome del progetto rimanda ad una particolare situazione abitativa caratteristica per la compresenza di modularità diverse tra loro che coesistono, le une vicine alle altre, per un mutuo vantaggio sia sociale che logistico».
Il Con-dominio ha quattro piani, che ospitano 40 persone con disabilità: al suo interno si intrecciano microappartamenti e microcomunità, in relazione alle diverse persone e alle diverse progettualità. Il problema non sono i numeri, gli spazi, gli standard: sono 40 piani educativi individuali che coesistono in armonia, «all’interno di un contesto che consente adattamenti continui, con incroci che una comunità standardizzata non consente, con una razionalizzazione delle risorse».
Il Con-dominio è un servizio residenziale innovativo, una sperimentazione continua, che continuamente si trasforma affrontando le criticità, «perché se neghi le criticità non puoi cambiare più e non puoi migliorare»: siamo partiti facendo riferimento alla legge 388/2000 sulla residenzialità alternativa, gli standard di qualità del servizio sono garantiti dalla presenza del Marchio “ AL.FA. Dopo di Noi”». Ci sono piccoli nuclei famigliari con genitori anziani, giovani con disturbi psichiatrici, progetti per persone con una lieve disabilità ma in condizione di emergenza abitativa e assistenziale. Ci sono anche quattro coppie, «è un lavoro impegnativo ma hanno una vita di coppia significativa, serena. Cerchiamo di restituire dignità alle persone, con i loro limiti e le loro risorse», racconta il direttore. «A volte sento parlare di residenzialità leggera o alternativa come qualcosa che costa meno, in realtà costa di più perché le risorse che mettiamo in campo sono tantissime. Né si può pensare che si costruisca una famiglia per il solo fatto di mettendo tre persone in un appartamento, con un educatore: è come dire che metto ad abitare insieme quelli che hanno barba rossa andrà bene, perché il fatto che abbiano tutti la barba rossa li farà stare bene insieme. Deistituzionalizzare non è ridurre a 10 o 6 persone, l’istituto non lo fanno gli spazi, ma le relazioni: anche nella nuova legge, è necessario entrare più nel merito delle questioni progettuali che non nei numeri».
CASA ARCIPELAGO, Cinisello Balsamo (Mi)
Cinque alloggi in uno stabile, in un quartiere molto vitale di Cinisello Balsamo (l’idea è quella di avviare collaborazione fra gli utenti di Casa Arcipelago e la zona, potrebbero fare servizi di spesa a domicilio o portierato sociale), a nord di Milano. Tre alloggi di Casa Arcipelago sono destinati ad ospitare persone con disabilità intellettiva e/o relazionale: «in ogni appartamento staranno tre o quattro persone, per un tempo che dipende dalle proprie esigenze, ma che immaginiamo non duri più di 18 mesi», racconta Antonio Cacopardi, presidente di Anffas Nord Milano e della cooperativa Arcipelago. Gli altri due alloggi sono destinati a persone e famiglie con limitate capacità reddito o che per motivi temporanei e contingenti non riescono a soddisfare la loro esigenze abitativa sul libero mercato: «offriamo un prezzo calmierato, in cambio partecipano al progetto, per una convivenza che non sia il ghetto delle persone disabili ma una rete di vicinato solidale».
Sono partiti a dicembre 2015 e già 7/8 persone con disabilità si stanno mettendo alla prova in questa dimensione. «Uno degli appartamenti svolge la funzione di “palestra”, due o tre mesi per cominciare, poi passano alla MIA CASA, dove c’è maggior spazio per l’autonomia e l’inclusione sociale». Dopo i 18 mesi? «Qui vicino c’è un appartamento con quattro locali, vicino ai mezzi pubblici, con giardino: la Fondazione Nazionale Dopo di Noi ce l’ha ceduto in comodato d’uso per completare il progetto: le persone che hanno terminato il percorso potranno andare a vivere in questo appartamento in via definitiva, ma alcune famiglie si sono già dette disponibili ad affittare un appartamento insieme, dove andranno ad abitare i loro figli».
«C’è piena soddisfazione da parte degli operatori, la difficoltà è quella di convincere le famiglie a staccarsi dal figlio e a fare questo passo. Le famiglie più giovani hanno compreso il senso di questa proposta, infatti i ragazzi che partecipano hanno sui 25-35 anni, i genitori più anziani faticano a costruire il cosa succede domani», spiega Cacopardi. Dal punto di vista della sostenibilità, la scommessa è quella di «chiedere alla famiglia l’assegno di accompagno e la pensione dei figli, sono circa 750 euro, pur sapendo che stanti le attuali condizioni economiche le famiglie a volte fanno fatica a non farci conto come entrata».
LA RETE RESIDENZIALE DI NAMASTE' a San Paolo d’Argon (Bg)
La storia inizia nel 2005, quando la cooperativa Namasté entra in un appartamento all'interno di un normalissimo complesso condominiale di 14 unità abitative, nel comune di San Paolo d’Argon, con 5 persone con una disabilità intellettiva lieve. È una proposta di residenzialità leggera, che vuole dare dignità all’abitare di persone adulte – dai 18 ai 40 anni – che fino a quel momento avevano vissuto in casa con i loro genitori, e che non si erano scelte fra loro.
Dopo qualche anno, nel 2011, «abbiamo provato a ribaltare la logica», racconta Matto Sana, presidente della cooperativa: «non più dedicarsi alla costruzione di un abitare buono per le persone con disabilità, ma partire dal tema della qualità della vita all’interno delle abitazioni, in maniera trasversale, perché la qualità dell’abitare è un tema che riguarda tutti». Namasté così inizia ad aprirsi verso gli altri condomini, offrendo anziché chiedendo. Matteo racconta: «abbiamo cominciato a occuparci con i nostri ragazzi ad occuparci della pulizia delle scale condominiali, poi con la manutenzione del giardino, i nostri ragazzi hanno preso a dare una mano agli anziani a fare spesa… Si è liberata energia relazionale tra le persone dell'appartamento e alcune famiglie del condominio e alcune famiglie hanno cominciato ad occuparsi della cura delle persone disabili che vivevano nell'appartamento. Oggi in quel contesto abbiamo tre appartamenti, dove accogliamo persone con disabilità ma con autonomie molto più alte, in uno vivono ragazzi dai 18-22 anni con disabilità lievissime insieme a giovani che hanno bisogno semplicemente di una mano nel distacco dalla famiglia… Abbiamo creato una lavanderia condominiale, la cucina di un nostro appartamento fornisce pasti anche ad altri condomini, al nostro presidio notturno si appoggiano anche altri anziani del condominio, è nata la bandate di condominio, assunta dalla cooperativa… Oggi la disabilità non è più un problema, lì il tema è semplicemente la convivenza: e dire che quando siamo partiti anche qui le persone erano preoccupate che il valore del loro appartamento calasse, perché c’erano i disabili…».
Le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione
Convenzione Onu per le persone con disabilità, art. 19
L’evoluzione dell’esperienza è tale per cui oggi Namasté ha 6 appartamenti in due condomini vicini, dove vivono in totale 12 persone con disabilità, ognuna con il suo progetto di vita, per cui quante persone ci sono negli appartamenti durante la giornata cambia di ora in ora. Non si tratta di più accogliere persone disabili ma di accogliere persone che anche solo per un certo periodo hanno bisogno di un percorso accompagnato: «il progetto è nato legato alla disabilità, ma abbiamo capito che le fragilità messe vicine possono dare vita a una reciprocità generativa. Si sono creati microcosmi di vita e anche microeconomie».
UN APPARTAMENTO PER TRE a Pedrengo (BG)
Partendo dal condominio di San Paolo d’Argon è nato un nuovo modello, inedito e innovativo. Uno dei ragazzi che viveva in quel condomonio, dopo un paio d’anno ha dimostrato di aver bisogno di una dimensione diversa, con autonomie ancora più alte. Namastè così lavora la costruzione di un nuovo progetto, insieme alla famiglia, cercando di accompagnarlo verso una tappa evolutiva successiva. Ne è nata l’idea di un appartamento in cui quel ragazzo andasse a vivere insieme ad altre due persone con disabilità, con una presenza educativa di 10/15 ore settimanali. La famiglia aveva un appartamento e l’ha messo a disposizione, dando in usufrutto a Namasté l’appartamento con il vincolo che loro figlio fosse accolto e seguito lì. Lo strumento? Il vicolo di destinazione previsto dall’articolo 2645-ter del Codice Civile, citato anche dalla legge sul dopo di noi. Gli altri due ragazzi pagano una retta. È un modello interessante anche questa dimensione di mutualismo, che la legge vorrebbe implementare. Ma cosa spinge le famiglie a mettere pezzi di patrimonio a disposizione non solo del proprio figlio? «La mutualizzazione del bisogno deve partire dalla mutualizzazione della dignità delle persone», spiega Matteo Sana, presidente della cooperativa Namasté: «la dimensione relazionale e la condivisione di esperienze di vita è un pezzo di valore per il proprio figlio, si deve partire da qui per arrivare a fare il passaggio della mutualizzazione dei patrimoni. A quel punto io posso pensare che una parte del mio patrimonio può essere messa a disposizione anche di altri». La nuova legge dà indicazione per deistituzionalizzare il sistema attuale e si apre a forme sperimentali dell’abitare, ma «forse manca ancora il tema di come andare a fare in modo di mutualizzare i bisogni e i patrimoni tra le famiglie, in questo senso il trust è ancora individualista. Rispetto al come mutualizzare i patrimoni serve un approfondimento di ragionamento», conclude Sana.
METTERE IN COMUNE RISORSE TRA FAMIGLIE, LA VERA SFIDA
Si tratta di un tema centrale anche per Gianluca Nicoletti, giornalista e papà di Tommaso, impegnato in questi giorni nelle riprese di un film che racconti la vera vita delle famiglie con un figlio autistico, al di là delle rappresentazioni all’insegna della tenerezza che i media vorrebbero. All’epoca dell’approvazione alla Camera, Nicoletti aveva salutato la legge sul dopo di noi con notevole ottimismo, lontano dai tanti distinguo che in quei giorni si rincorrevano e dalle pungenti critiche a cui lui stesso ci ha abituati. «Adesso non ci sono più scuse, bisogna marcare stretto perché la legge non sia solo un elenco di buone intenzioni, ma soprattutto bisogna studiare. Studiare tanto», aveva detto: «Pensiamo a startup, nuovi format, creiamo piccoli gruppi di famiglie con similari problemi di gestione di un figlio che siano d’accordo di organizzarsi come se fossero una piccola azienda, mettendo in comune risorse pubbliche e personali, educatori, eventuali seconde case e beni disponibili per costruire un progetto di vita attiva e felice». Non pensiamo «alla mera sopravvivenza dei figli, ma anche alla loro vita relazionale, affettiva, persino sessuale e ludica se ci sono le condizioni», «vogliamo esagerare? Proviamo anche a immaginare e pretendere una nuova idea abitativa per il contenitore dei nostri figli».
La prima cosa sui cui lavorare è creare una cultura diffusa nelle famiglie, in questo viaggio dal Trentino alla Calabria ho visto che le famiglie ancora aspettano che qualcosa gli arrivi dall’alto, hanno una scarsissima conoscenza dei propri diritti e soprattutto c’è una incapacità di fare squadra tra famiglie. Continuare a ragionare come se si trattasse di un problema individuale non mi interessa. La prima cosa da cambiare è questo atteggiamento, per unire le famiglie attorno a un progetto che metta in comune risorse
Gianluca Nicoletti
Nel giorno dell’approvazione della legge al Senato, Nicoletti tiene ferma la barra sulla necessità di immaginare un dopo di noi innovativo, «oggi c’è solo reclusione» e dice:«Mi riservo di studiare per capire se la legge dà effettivamente strumenti per la fattibilità di ciò, ma la prima cosa sui cui occorre lavorare è creare una cultura diffusa nelle famiglie, in questo viaggio dal Trentino alla Calabria ho visto che le famiglie ancora aspettano che qualcosa gli arrivi dall’alto, hanno una scarsissima conoscenza dei propri diritti e soprattutto c’è una incapacità di fare squadra tra famiglie. Continuare a ragionare come se si trattasse di un problema individuale non mi interessa. La prima cosa da cambiare è questo atteggiamento, per unire le famiglie attorno a un progetto che metta in comune risorse».
Se davvero questa legge sarà capace di fare volano a esperienze di mutualità tra le famiglie, che mettendo insieme i bisogni e le risorse inventano nuovi modelli di vita quotidiana, di qualità nettamente superiore, sarà tutto da vedere. Qualcosa però come abbiamo visto già esiste. Si può fare.
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