«È bello poter stare con il proprio figlio in una situazione non ospedalizzata: ci sentiamo a casa»
Claudio, papà di Giovanni Paolo
La cassettiera è lì che aspetta, con i cassetti aperti e un indumento che sporge da ognuno. Slip, maglietta, pantaloni, maglione: tutto è stato riposto nell’ordine corretto, già spiegato e sistemato «in posizione di presa». La giornata di Marco inizia così. Il suo obiettivo, nelle tre settimane che trascorrerà alla Lega del Filo d’Oro, è iniziare a vestirsi da solo. Marco ha 16 anni ed è a Osimo per un trattamento a termine. Lucia, l’educatrice che lo segue, ha suonato il suo campanello alle 8,15 del mattino: al piano terra ci sono le aule, dove le educatrici lavorano con pazienza alla ricerca di una fessura per entrare nel mondo di bambini che non vedono e che non sentono; al piano superiore ogni famiglia ha la sua stanza con bagno, mentre cucina e soggiorno sono in comune. «È bello poter stare con il proprio figlio in una situazione non ospedalizzata: ci sentiamo a casa. Da nessun’altra parte come qui la famiglia è accolta e valorizzata», osserva Claudio, papà di Giovanni Paolo, che sta scendendo di sotto con il figlio. Si respira una convivialità unica: «Non siamo gli esperti che fanno il loro lavoro e a sera ti ridanno tuo figlio. Per il tempo in cui sono qui, noi diventiamo parte della vita di queste famiglie», dice Laura, l’assistente sociale.
Lucia fa sedere Marco davanti alla cassettiera e iniziano l’attività. La mamma chiede di filmare il più possibile, così a casa anche lei saprà esattamente cosa fare e come. «Lavoriamo “con” il bambino e “con” la sua famiglia, non solo “per” loro. E lavorando tutti insieme, si cresce tutti», spiega Patrizia Ceccarani, che della Lega del Filo d’Oro è direttore educativo e riabilitativo. I video non servono solo ai genitori, ma anche alle insegnanti o ai terapisti del territorio, per condividere un metodo e un percorso: i bambini con una pluridisabilità grave infatti sono tanti nel loro complesso, ma rari in ciascun territorio. «Noi siamo esperti di questi bambini ma non conosciamo le opportunità e le organizzazioni di ogni luogo: collaborando si possono definire obiettivi e percorsi mirati, mettiamo la nostra esperienza a disposizione non solo dell’utente ma di tutto il territorio», dice Patrizia.
«È il nostro metodo di lavoro, l’osservazione deve essere obiettiva e condivisa con i colleghi»
Sono le 10,30 e scendiamo al piano terra. Francesco è andato insieme alla mamma al Centro diagnostico per una visita dal dentista e Daniela, la sua operatrice, appunta su un quadernone tutte le attività fatte con lui fino a quel momento, cosa è stato proposto e in che modo, come ha reagito Francesco e quali risultati esattamente ha raggiunto: «è il nostro metodo di lavoro, l’osservazione deve essere obiettiva e condivisa con i colleghi», spiega Daniela. Un ragazzo è in piscina per la terapia in acqua, mentre Giovanni Paolo sta seduto al tavolo con Nadia e lavora sul distinguere le forme al tatto. Continua ad alzarsi, ma l’esercizio serve anche a prolungare i suoi tempi di attenzione. Attorno al banco di Francesca invece ci sono quattro donne che parlano e prendono appunti: sono le sue insegnanti di sostegno, la sua educatrice comunale e la preside della scuola. Francesca lunedì tornerà in classe e loro sono venute fin qui per un “passaggio di consegne”.
Sulla collina di Santo Stefano, a Osimo, c’è una spruzzata di neve. Il Centro diagnostico e i trattamenti a termine sono la risposta che la Lega del Filo d’Oro dà in particolare alle necessità dei più piccoli. «Sempre più spesso ci chiamano genitori di bimbi di un mese o di quindici giorni, ancora ricoverati in ospedale», racconta ancora Laura, mentre fa la spola fra gli edifici per incontrare tutti gli utenti. Appena i medici segnalano una malattia rara che implica un problema di cecità o sordità, ad esempio la sindrome di Charge, di Usher o la Norrie, appena ci si rende conto di quali complicazioni ha lasciato una nascita molto prematura, si cerca su internet e si arriva qui, perché la Lega del Filo d’Oro, nata per le persone sordocieche, è diventata anche il punto di riferimento per la pluridisabilità psicosensoriale, tanto che ogni anno il 30% dei nuovi bambini che segue presenta quattro minorazioni.
Dopo il primo trattamento, i bambini da 0 a 4 anni tornano a Osimo per tre settimane ogni anno, dai 4 anni in su ogni due. «Il nostro obiettivo è fare una foto del bambino che colga complessivamente la sua situazione reale in quel momento, ma che sappia anche intuire le sue potenzialità e abilità», dice Patrizia. «Serve un occhio allenato a vedere il “micro”. Ma non possiamo credere che questi bambini, anche i gravissimi, siano tabule rase: sono persone, noi partiamo da lì. Innaffiamo la terra, certi che sia fertile, e scrutiamo con attenzione per intuire dove si nascondono i germogli che poi sbocceranno».
«Non pensavo che anche Matteo può arrivare a togliere il pannolino»
Alessandra Sofia, Matteo e Agostino sono i cuccioli del gruppo. Li incontriamo dopo pranzo, mentre sono impegnati nelle loro attività pomeridiane. Sono tutti sui tre anni e sono al Centro diagnostico per un trattamento precoce. Agostino sorride radioso accoccolato sopra al pianoforte, mentre Fiammetta, la musicoterapista, suona alla tastiera: lui “sente” la musica attraverso le vibrazioni del pianoforte, per questo ci è seduto sopra. La stimolazione sensoriale è il cuore di della riabilitazione specifica della Lega del Filo d’Oro, sia per stimolare i residui visivi e uditivi sia per sviluppare gli altri sensi e creare una integrazione fra essi. «Insegniamo dei giochi sensoriali, perché attraverso il gioco il bambino apprende. Poi man mano che il bambino cresce e quando ce n’è la possibilità, lavoriamo sulla discriminazione degli oggetti, sulla comprensione del nesso causa-effetto, sui sistemi di comunicazione», spiega Patrizia.
Al piano superiore troviamo Matteo seduto davanti a un cerchio arancione e a una forchetta di plastica: Sonia gli mostra un cerchio arancione e gli chiede di trovare l’altro. Lui lo afferra e lo alza al cielo, trionfante, come se fosse una coppa, tra i baci di Sonia e di mamma Beatrice. Sono le 17,15, è passata un’ora dall’ultima pipì ed è ora di andare in bagno: «Non pensavo che anche Matteo può arrivare a togliere il pannolino», ammette la mamma, che è a Osimo insieme agli altri due figli. La pipì Matteo non la fa: «Ci riproviamo tra poco», dice Sonia. Mette davanti a Matteo una forchetta e un cerchio e questa volta gli chiede di riconoscere l’oggetto uguale a quello disegnato su un cartoncino che lei stringe in mano, in un passaggio dal reale all’astratto: tempo zero, Matteo si avvicina con il viso agli oggetti, mette a fuoco, prende le misure con le distanze e afferra la forchetta. «Lunedì, quando è arrivato, non lo sapeva fare; oggi è venerdì e ha già imparato», dice con soddisfazione Sonia.
«Si procede per piccolissimi passi, all’inizio interpretando dei segni che forse dicono qualcosa»
Nell’altra stanza Vania intanto lavora con Alessandra Sofia: ha una piccola tartaruga di peluche appoggiata sulla pancia, che a schiacciarla si illumina e suona. Quando smette, Vania sta ferma e aspetta che Alessandra Sofia faccia un piccolo «ahh»: a volte bastano pochi secondi, altre sembra che il tempo non passi mai. Allora Vania sorride con entusiasmo, «Brava amore!» le dice, la accarezza e fa partire di nuovo la tartaruga carillon. «Si procede per piccolissimi passi, all’inizio interpretando dei segni che forse dicono qualcosa», ammette. Poi però le ricorrenze trasformano quei forse in piccoli mattoni su cui costruire. «Riassumendo si può dire che tutti questi bambini sono educabili. Non sarebbe perciò giusto assisterli solamente, ma bisogna cercare di fare tutto il possibile per ciascuno di loro», c’era scritto nella relazione del primo anno di attività dell’Istituto, nel 1969. Tutti sono educabili. Bisogna fare tutto il possibile. Per ciascuno. Sulla collina di Santo Stefano, ogni giorno, questa scommessa diventa realtà.
Tutte le foto di questo articolo sono di Nicolas Tarantino.
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