Alessandro Messina si occupa di finanza d'impatto in Avanzi, società che accompagna le imprese in percorsi di innovazione nel campo della sostenibilità. Assieme a lui ci addentriamo nel decreto legislativo 113 che dal prossimo 22 agosto recepirà il regolamento europeo in materia di fondi di investimento dedicati alle imprese sociali. Le sigle sono quelle degli Eusef (dedicati agli enti di gestione dei fondi per le imprese sociali) e degli Euveca (dedicati al venture capital). Lungo la strada troveremo anche gli Eltif (dedicati agli investimenti a lungo termine per le piccole e medie imprese) e i più noti Pir. Sigle a parte, la questione è particolarmente interessante riguardo alle prospettive per l’imprenditoria sociale in Italia e in Europa.
Messina, che cosa cambierà con queste nuove regole?
Va precisato che da almeno otto anni l’Italia aveva recepito la normativa europea sugli Eusef e gli Euveca. Nel 2017, visto lo scarso successo ottenuto di questi strumenti, il Parlamento Europeo stesso l’aveva modificata per cercare di migliorarla. Il nuovo decreto italiano recepisce questi ulteriori cambiamenti, con tempistiche che svelano anche la complessità di certi processi e articolazioni.
Quali sono le considerazioni da fare?
In generale la normativa comunitaria del 2013 ha un obiettivo interessante in ottica di finanza sostenibile e d’impatto. Le modifiche introdotte semplificano il quadro regolatorio in modo positivo.
In che modo?
Anzitutto, per gli Eusef si supera il vincolo del sotto soglia, cioè di poter essere qualificati, appunto, come Eusef, solo se gestiscono meno di 500 milioni di euro. Questo può aiutare operatori più grandi a entrare in questo mercato e quindi anche a giovarsi di economie di scala che in queste attività sono sempre importanti.
Altri aspetti positivi?
Si introduce una ulteriore flessibilizzazione, con il superamento del vincolo a non includere negli Eusef le Pmi sociali quotate. Inoltre, c’è una semplificazione generale del quadro di regole nel coordinamento tra le autorità di vigilanza, evitando possibili “rimpalli” tra Consob e Banca d’Italia.
Al di là delle modifiche tecniche, sono davvero utili questi strumenti?
I freddi numeri direbbero di no. Oggi in Italia ci sono 22 Euveca e nessun Eusef e anche in Europa ne sono nati pochissimi. C’è dunque un chiaro tema di efficacia della normativa e di fluidità del funzionamento di questi fondi a livello europeo. I mercati nazionali, incluso il nostro, sono infatti troppo piccoli per giustificare la nascita di strumenti finanziari esclusivi, come gli Eusef che, per legge, devono gestire almeno il 70% del loro portafoglio in imprese ad impatto solidale.
C’è anche un problema dal lato della domanda?
Sì, le imprese sociali sono spesso lontane dalla cultura finanziaria che serve per valorizzare strumenti come questi. Restano ancora legate a logiche di finanziamento pubblico o comunque a funzioni finanziarie molto basiche con le banche: strumenti di equity, di bond più articolati o di debito, cartolarizzato o meno, sono orizzonti ancora piuttosto lontani.
Come superare questi ostacoli?
Il problema non è, ovviamente, il sottosoglia o le Pmi quotate di cui si occupa questo decreto. Dobbiamo chiederci perché, se tutti sono preoccupati di valorizzare queste forme di finanza alternativa, non si riescono a individuare degli incentivi specifici.
Quali potrebbero essere questi incentivi?
Oggi, ad esempio, non ci sono incentivi specifici per gli Eusef, ma solo per gli Eltif, i fondi di investimento europei a lungo termine dedicati alle Pmi, anch’essi previsti dalla stessa normativa comunitaria e già recepiti in Italia. Un incentivo fiscale simile a quello introdotto per i Pir e, appunto, gli Eltif, diretto sull’impresa sociale, potrebbe avere un valore.
Dal lato dell’investitore retail?
Molte persone sarebbero desiderose di investire in progetti di impatto sociale, anche in imprese non quotate. Creare strumenti che attirino questo risparmio, prevedendo un incentivo fiscale per farlo sviluppare sarebbe quantomai utile. Ma c’è anche un’altra questione importante.
Quale?
Gli incentivi dovrebbero essere indirizzati a qualsiasi strumento di finanza: ad esempio, oggi, se un’impresa sociale raccoglie capitali attraverso una piattaforma di equity crodwfunding, il sottoscrittore ottiene l’incentivo fiscale dedicato. Lo stesso non vale, invece, se un’impresa sociale raccoglie debito su una piattaforma di crowdfuning. Allo stesso modo, se una banca presta denaro a un’impresa sociale, può ricorrere al fondo pubblico di garanzia per le Pmi. Se lo fa un cittadino attraverso una piattaforma di crowdfunding no. Sono asimmetrie che varrebbe la pena risolvere.
Come si inserirebbero gli Eusef in questo cambiamento?
Un fondo Eusef che fa credito alle imprese sociali potrebbe riconoscere sgravi fiscali ai suoi sottoscrittori e al contempo avvalersi di una garanzia pubblica che ne copra i rischi.
Questo riconoscimento allargherebbe il discorso ad altri meccanismi di gestione dei rischi degli investitori?
Il quadro regolamentare europeo, oggi anche nazionale, da un lato tende a favorire gli investimenti sostenibili in materia sociale o ambientale, per la loro minore rischiosità. Poi, però, agli investitori istituzionali viene richiesto la medesima quota di assorbimento patrimoniale e anche questa è una contraddizione in termini.
Quale sarebbe il vantaggio complessivo per il sistema?
In assenza di incentivi – patrimoniali o fiscali – l’enorme sforzo regolatorio sulla finanza sostenibile messo in atto dalle istituzioni europee tende a generare solo una risposta di compliance, con una sorta di corsa degli intermediari a mettersi al riparo da eventuali sanzioni. Facendo anche nascere un tema di equa concorrenza tra gli operatori.
Perché?
Per un grande intermediario è più facile rispondere a nuove richieste regolatorie rispetto a una piccola banca o piccola compagnia di assicurazione. Oltre tutto, puntando solo sugli aspetti regolatori non genera alcun cambiamento di mentalità o di business model. Quanto accaduto nel settore delle energie rinnovabili insegna.
In definitiva, queste normative che entreranno in vigore potrebbero contribuire a rendere più centrale in Europa l’impresa sociale?
Certamente sì, tenendo conto delle problematiche esistenti e ricordando che l’accezione di “impresa sociale” usata in Europa è molto più ampia rispetto a quella usata in Italia. Se dunque l’Italia vuole accogliere lo stimolo che viene dall’Europa occorre uno sforzo di innovazione nel proprio quadro regolamentare, flessibilizzando ulteriormente il codice del Terzo Settore, che in parte va già nella giusta direzione. Dall’altro lato c’è la questione della trasformazione finanziaria che deve prevedere forme di incentivi dedicate.
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