Valentina Perniciaro

Sirio e i tetrabondi, sbilenchi ma felici

di Sara De Carli

Con "Sirio e i tetrabondi", mamma Valentina sta colmando la distanza che solitamente nella narrazione c'è fra disabilità e felicità. Perché - dice - la felicità è per tutti. Uno stile ironico e irriverente, che ribalta le parole solitamente usate, ma capace di affrontare temi cruciali. È una delle voci da non perdere sui social per chi vuole stare al passo su quali siano oggi i bisogni, le sfide e i pensieri di una famiglia che convive con la disabilità: tutti i nomi sul numero di luglio di Vita

Basta il colpo d’occhio sulla pagina Instagram per accorgersi di come le immagini dicano tutte di questa ricerca della felicità, #inculoallostatovegetativo e #ognunoamodosuo. Sono le parole centrali nella narrazione social della quotidianità di Sirio, un bambino di 9 anni con una diagnosi di tetraparesi spastica e paralisi cerebrale seguite a una “morte in culla” scampata a 50 giorni di vita. Dalla diagnosi di “stato vegetativo”, oggi Sirio corre in bicicletta: a modo suo. Valentina Perniciaro, mamma di Sirio e di Nilo, è una blogger da sempre legata al mondo dell’attivismo e dell’informazione indipendente. Con Sirio, nel 2013, la sua vita è cambiata: è diventata una caregiver. Sirio e i tetrabondi (@tetrabondi) è un’avventura social iniziata nel 2018, che nel 2021 è diventata anche una fondazione: il racconto è quello di un bimbo che vuole conquistare la sua libertà e che rivendica il diritto di ridere e di essere felice, ognuno a modo suo.

In questa presenza sui social, il video che ha cambiato le cose è del settembre 2020: immortala il rientro a scuola di Sirio, dopo i mesi del lockdown. Sirio come tutti i bambini d’Italia non andava a scuola da marzo: dalla scuola a febbraio era uscito con la sedia a rotelle e invece quel giorno ha voluto rientrarci a piedi, lasciando la sedia al cancello. Il papà lo ha ripreso in quell'emozione, «sbilenco ma felice», dice la mamma Valentina, che quel video lo ha condiviso con un tweet. «Per noi era un momento significativo ma normale, quotidiano e invece è diventato virale, siamo stati intervistati dalla Reuters e tradotti in tutte le lingue… È stato un salto anche per noi, perché a quel punto prendi coscienza di essere sotto enormi riflettori». Valentina, con Sirio e i tetrabondi, è uno dei cinque influencer che nel numero di VITA di luglio – in edicola e scaricabile online – abbiamo selezionato e raccontato, per la ventata di novità che portano nell’approccio alla disabilità e alla sua narrazione, proprio grazie ai social e al loro linguaggio.

Come sono nati i Tetrabondi e qual è la tua strategia digitale?

La strategia non c’è, non ne avrei il tempo! Non saprei come gestirlo un lavoro simile. Siamo molto naturali, anche molto improvvisati. Sicuramente siamo poco instagrammabili e infatti su Instagram abbiamo meno persone che ci seguono, non siamo capaci. Quello che ci interessa è fare contenuti che possano scalfire l’immaginario collettivo sulla disabilità. Il profilo è nato come una battaglia di presenza, anche giocosa. A scrivere sono sempre io, ma era molto un gioco di famiglia. Volevo far vedere la quotidianità di una famiglia in assistenza domiciliare che le procedure chiamano ad alta intensità, con macchinari e manovre salvavita continue. Persone che nell'immaginario comune sono sempre e solo allettate e invece possono avere una vita normale, se hanno l'assistenza necessaria e una società che sa accogliere. Poi le cose sono cambiate in corso d'opera, grazie alla risposta che abbiamo avuto: in primis, come era facile immaginare, da persone che vivono situazioni simili alla nostra ma quello che ci ha trascinato e fatto pensare di fare salto è stata la risposta da parte della gente che non ha disabilità in famiglia.

Cosa ha fatto breccia secondo te?

Io ho sempre scritto per denuncia, ma in questo caso no. È vero che anche qui si lotta costantemente per avere quel minimo che permetta una vita normale, ma il nostro racconto è più che altro ironico e partecipativo, per dire che non c’è una vita che possa essere esclusa dall’immaginario di felicità e socialità. Ogni contenuto di Sirio e i tetrabondi dice “Ehi, ci sono anch’io anche se parlo una lingua diversa”. Tant’è che "ognuno a modo suo” è diventato il nostro slogan. Quello che ci interessa è cambiare le parole che raccontano la disabilità per cambiare lo sguardo della società sulla disabilità. È successo tutto molto in fretta, dal video virale di settembre 2020 in un solo anno abbiamo creato una fondazione con una campagna di crowdfunding che ci ha permesso di ottenere in dieci giorni il risultato che avevamo previsto di raggiungere in tre mesi: anche qui c’è stata una risposta del tutto inaspettata, per noi è stato un salto nel vuoto ma è bellissimo che si sia costituita una comunità attorno a questo piccolo esercito sbilenco, abbiamo sempre avuto la voglia di non restare in una bolla social ma di toccare la vita delle persone. Ci sono state donate delle joëlette e con esse abbiamo organizzato iniziative nella città che unissero i mondi, portando persone con disabilità in luoghi solitamente preclusi, come i Fori Imperiali.

Che cosa vuol dire fare incontrare mondi?

Un esempio piccolo, ma efficace: nelle nostre attività mettiamo gli ausili a disposizione di chi è abile, con tecnici delle varie discipline sportive: la carrozzina spesso è vista come una costrizione – costretto in carrozzina, si legge ancora spessissimo – e invece è uno strumento di libertà e di autodeterminazione. Una delle prime cose che abbiamo immaginato è uno skatepark da fare in sedia a rotelle, per dire.

Volevo far vedere la quotidianità di una famiglia in assistenza domiciliare che le procedure chiamano ad alta intensità, con macchinari e manovre salvavita continue. Persone che nell'immaginario comune sono sempre e solo allettate e invece possono avere una vita normale, se hanno l'assistenza necessaria e una società che sa accogliere.

Cambiare le parole è sempre stato il tuo obiettivo dichiarato, perché?

Perché spesso le parole costruiscono muri invalicabili, le persone subiscono l'etichetta che il linguaggio costruisce, spesso si guarda alla diagnosi e non alla persona, quando invece la vita è vita a prescindere dalla condizione fisica o mentale. Parlare di orgoglio di corpi e menti non conformi va a raccontare proprio quello. Io sono partita dallo sbaragliare il concetto di “bambino speciale”, che si porta sempre dietro quello della “madre coraggio”: li detesto perché entrambi implicano un abbandono da parte della società. Sirio non è un bambino speciale, è un bambino normale con bisogni speciali e ai bisogni, se si vuole, c’è sempre una risposta: strumenti, professionisti. E poi dietro il bambino speciale non c’è mai un adulto… il bambino speciale diventa dritto dritto un uomo segregato… Noi diciamo cose dure e schiette usando parole simpatiche e ironiche e penso che piacciamo per questo. Non c’è finzione, siamo allegri e felici perché siamo i genitori di un bambino ironico, allegro e felice, ma è anche vero che tutto si regge su un equilibrio leggerissimo di cui tutti devono prendersi la loro parte di responsabilità, perché se salta qualcosa succede un cataclisma. Prima la mia battaglia era prettamente linguistica, adesso con la Fondazione possiamo mettere in campo iniziative e progetti. Sempre con l’obiettivo della felicità, di percorsi di gioia.

Sono partita dallo sbaragliare il concetto di “bambino speciale”, che si porta sempre dietro quello della “madre coraggio”: li detesto perché entrambi implicano un abbandono da parte della società. Sirio non è un bambino speciale, è un bambino normale con bisogni speciali e ai bisogni, se si vuole, c’è sempre una risposta: strumenti, professionisti. E poi dietro il bambino speciale diventa dritto dritto un uomo segregato… Noi diciamo cose dure e schiette usando parole simpatiche e ironiche e penso che piacciamo per questo.

C’è stato un contenuto che ha avuto particolarmente successo, sorprendendoti?

La nostra esplosione di visibilità è avvenuta con un video specifico, con numeri che non mi sarei mai aspettata: quasi un milione di visualizzazioni, siamo stati ritwittati da nomi incredibili. Era una giornata particolare perché era il primo giorno di scuola dopo il lockdown, a settembre 2020. Sirio non andava a scuola da marzo, era uscito in sedia a rotelle e invece quel giorno a scuola ha voluto entrarci a piedi, lasciando la sedia al cancello. Il papà lo ha ripreso, sbilenco ma felice. Io sono una blogger da quando esistono i blog, sono abituata a scrivere e raccontare: vero è però che puoi scrivere i testi più interessanti del mondo, ma se non c’è un’immagine o un video il contenuto gira molto molto meno. Soprattutto su Instagram, che infatti noi usiamo meno forse perché siamo meno capaci, forse perché lì per piacere un po’ devi filtrarti. Io mi sono sempre tolta, ho sempre dato voce a Sirio: è un bambino di 9 anni che si racconta, è una presenza strana per i social. Ma Sirio ha i suoi tempi, non possiamo fare 30 video al giorno per scegliere quello “più giusto” da mettere online. Forse per questo siamo meno allettanti di chi ha una quotidianità nella presenza sui social.

Qualche settimana fa hai scritto parole bellissime per dire l’emozione di Sirio nel salutare Jenny, la sua infermiera, che entra in congedo per maternità… L’ho trovato un modo del tutto nuovo e molto bello per far capire alle persone cosa sia l’assistenza domiciliare, un tema non così “social”.

Scrivo di ADM con rabbia perché molti non hanno tutto ciò a cui hanno diritto e insieme con devozione perché senza quella non avremmo fatto niente. Sirio ha tante mamme da questo punto di vista e quello che ho scritto di Jenny è meno di un miliardesimo della gratitudine che provo nei suoi confronti. La vita dei genitori di un bambino come Sirio non va avanti senza l’aiuto e l'assistenza di determinate figure e per noi Jenny è famiglia. Passa da lei la possibilità di Sirio di costruire relazioni (lo traduce) e autonomie, è un’assistenza importantissima. Ma anche qui c’è un mondo da cambiare perché spesso nei servizi si va avanti a pensare che assistenza domiciliare e cura significhino stare dentro casa, mentre l’infermiera deve seguire la quotidianità del bambino, che deve giocarsi il più possibile fuori casa.

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