“Altro che fare a meno del gas russo e dell'#ariacondizionata se risaliamo un po’ la classifica! Cominciamo con i pannelli su tutti gli edifici pubblici e le scuole…e poi nei parcheggi”, aveva tuittato l’economista Leonardo Becchetti, docente a Tor Vergata e uno dei pensatori riconosciuti dell’economia civile italiana, il giorno dopo alla conferenza stampa in cui Mario Draghi aveva fatto riferimento condizionatori, per esemplificare la dicotomia fra riduzione dei consumi energetici e necessità di sanzionare efficacemente la Russia. Becchetti s’era riagganciato alle dichiarazioni del premier e aveva aggiunto appunto una tabella che mostrava a livello mondiale l’incremento percentuale delle rinnovabili dal 1965 al 2019, in cui l’Italia mostrava un modesto 2,62%.
Professore, questa economia, che si annuncia "di guerra", può indurci comunque a qualche scelta virtuosa?
Ne sono convinto. E mi riallaccio a una dichiarazione del ministro Renato Brunetta, dei giorni scorsi. Rispondendo alla sollecitazione di mettere i pannelli solari su tutti gli edifici pubblici, Brunetta ha detto espressamente: “Purtroppo questa crisi ci ha fatto capire cose, sul mix energetico, che la miopia – parole sue – dei periodi precedenti ci avevano impedito di vedere”. Questa miopia la vediamo da anni e, da anni, stiamo richiamando all’urgenza di queste scelte.
Ricordiamo perché.
Stiamo dicendo che dobbiamo muovere verso un mix fatto prevalentemente di fonti rinnovabili, soprattutto per due motivi: la salute e il cambiamento climatico. Sappiamo infatti che la qualità dell’aria, ossia il suo inquinamento, è la seconda causa di morte nel mondo, e conosciamo, in termini di climate change, che le emissioni, da fonti rinnovabili sono molto inferiori.
Prima vi opponevano il tema della non convenienza della energia così prodotta…
Sì, che non era conveniente dal punto di vista del prezzo. Ricordo il dibattito, di circa 10 anni fa, in cui si guardava a questo mito della grid parity, e cioè di quando produrre energia solare sarebbe diventato conveniente quanto dalle fonti fossili. Bene, oggi siamo molto oltre la grid parity, nel senso che le economie di scala e la crescita della produzione a livello mondiale, hanno abbassato i costi e reso l’energia proveniente da fotovoltaico ed eolico la più conveniente in assoluto, se confrontata con quella proveniente da carbone, petrolio o gas naturale. E anche da fonte nucleare. Ma ci sono ormai anche altri motivi per i quali le rinnovabili sono da preferire.
Quali, professore?
Come ci insegna la guerra in Ucraina, sono quelli della volatilità del prezzo, ossia il rischio che il prezzo abbia escursioni enormi verso l’alto, ogni crisi mondiale, e poi quello delle questioni strategiche, dell’indipendenza strategica e della pace.
Quest’ultimo è quello oggi più compreso e che sembra togliere argomenti a molti scettici verso le rinnovabili…
Adesso siamo diventati impazienti per questo ultimo aspetto. Andrebbe fatta “domani”, a sentire molti, perché stiamo finanziando le guerre di Vladimir Putin, ed è vero: pensiamo di nuocergli con le sanzioni quando con la bolletta energetica gli stiamo dando quasi 700 milioni al giorno, con l’acquisto di gas. Per cui si dice: “Usciamo domani dal gas russo”.
Ragionevole?
Penso che con tutte le autorizzazioni sulle fonti rinnovabili da approvare, e con questi interventi sugli edifici pubblici, possiamo andare ben oltre il fabbisogno del gas russo, anche se non istantaneamente.
Perché?
Perché oggi abbiamo il 16% di energia prodotta da rinnovabili, escluso l’idroelettrico, e abbiamo Paesi, come la Norvegia, che stanno al 60%, quindi margini fare a meno del 19% russo ce ne sono assolutamente.
Chi può dar gambe a questo processo?
Io dico le aziende. Stanno cominciando a muoversi, perché vedono quelle che avevano messo i pannelli sui capannoni, autoproducendo, energia, avere oggi un vantaggio competitivo. È di pochi giorni fa la dichiarazione della Confederazione nazionale artigianato-Cna di Treviso che ha chiesto al governo un credito d’imposta per voler mettere i pannelli sui capannoni di tutti i propri associati. E, sempre nel Triveneto, i consorzi per l’energia, quelli che aiutano le aziende a contrattare i prezzi delle fonti fossili per avere i i prezzi migliori, hanno chiesto alle imprese socie: “Affittateci i vostri capannoni, perché vogliamo mettere i pannelli fotovoltaici”. L’Unione europea è la prima a sollecitarci in questa direzione: con la riforma dell’Iva, pubblicata il 5 settembre, propone esplicitamente agli Stati membri di usare la possibilità di Iva super ridotta (fino all’esenzione) proprio per i pannelli fotovoltaici.
Il collo di bottiglia quindi diventerebbe quello burocratico, autorizzativo…
Assolutamente sì, e si tratta di un collo di bottiglia che dipende anche dall’ingolfamento e dai limiti di preparazione dei funzionari locali. Talvolta dipende anche da alcune questioni anche di strategia politica e di potere. In Sardegna, per esempio, in questo momento c’è una campagna del quotidiano L’Unione Sarda, che vuole difendere l’isola dalla “minaccia” dell’eolico, che deturperebbe il paesaggio. In realtà, temo che anche sia una campagna che vuol portare il metano in Sardegna, che significherebbe rimettere le lancette dell’orologio all’indietro.
Rigassificando, cioè. Sull’impatto “paesaggistico” insistono in molti, però…
C’è da trovare un punto di equilibrio, ovviamente. Non mi pare però che in Olanda i mulini a vento abbiamo un effetto turistico così disastroso. In ogni caso, va bene, ripeto: troviamo un equilibrio, soprattutto per l’eolico, perché non vedo che danno possa derivare dal fotovoltaico sopra i tetti. Ma ricordandoci però che l’energia deve essere prodotta. E ricordando anche che, entro la fine dell’anno, le Regioni si sono impegnate ad identificare le aree entro le quali non c’è bisogno di autorizzazione, ossia dove possono sorgere gli impianti. Un lavoro ex-ante per dire che, in certe aree, si può fare.
L’ho vista rituittare Francesco Ferrante, ex presidente Legambiente, con altri dati sulle rinnovabili, che mostrano il nostro ritardo…
Ci sono dati interessanti, a saperli leggere. In alcuni istanti di vento e sole, sia la California sia la Danimarca sono arrivati al 100% da fonte rinnovabile. Se prendiamo invece medie storiche, i livelli più alti sono quelli della Norvegia e Islanda, la prima al 66%. Ora, non pensiamo di arrivare al 100% di rinnovabili domani ma sappiamo che bisogna muovere in quella direzione. La stessa Unione europea ci ha chiesto di arrivare intorno al 40% intorno al 2030 come media europea, si tratta quindi di accelerare, intanto. Dove arriveremo si vedrà.
Professore, ma qual è la cornice legislativa in cui operare il più rapidamente possibile? La decretazione d’urgenza?
Intanto liberalizzare sotto una certa soglia: che non ci sia bisogno di autorizzazione per mettere impianti rinnovabile a casa propria, nei parcheggi e via dicendo. Per gli impianti più grandi, una volta identificate le aree dove non si deve chiedere autorizzazioni, questo aiuta molto. A quel punto tutto sarà agevolato.
Bisogna scrivere bene questa norma, sennò ci areniamo ai Tar…
Eh sì. A proposito, il Tar della Sardegna ha dato torto a un gruppo privato che voleva installare pale eoliche e aveva fatto ricorso contro l’opposizione della Regione: l’organo della giustizia amministrativa ha ribadito che la competenza su questa materia è regionale. Questo vuol dire che saremo esposti a una pluralità di interpretazioni.
Becchetti, oltre all’energia, che cosa la guerra potrebbe indurci a fare per cambiare tout court la nostra economia, possibilmente senza decrescere felicemente?
La lezione della guerra è che l’energia è una variabile strategica e quando le risorse strategiche sono concentrate nelle mani di pochi, sono appetito di poteri, di guerre, di conflitto. Pensiamo alla “Maledizione delle risorse naturali”, un famoso lavoro di Jeffrey Sachs, che dimostra che i Paesi ricchi di risorse naturali vivono poi una vera e propria maledizione, perché attirano mercenari, guerre, conflitti. Ricordiamoci del Congo.
Abbiamo un’età, professore, che ci consente di ricordare il Biafra. Come evitarlo?
Andando verso una soluzione in cui queste concentrazioni strategiche siano sempre minori. Il modello comunità energetica è vincente perché vuol dire un’energia diffusa, partecipata, dove non è possibile prendere in ostaggio un Paese, minacciandolo, a causa dell’energia. O non ci sono quei timori o terrori legati a disfunzioni, in relazioni a possibili manovre belliche intorno a centrali nucleari. Nessuno può minacciare l’umanità asserragliandosi attorno a un pannello solare! La comunità energetica, anziché produrre rischi di guerra, produce appunto comunità, aiuta le persone a condividere iniziativa economica.
Tra l’altro arrivano le comunità energetiche da noi: ora Regione Lombardia si è dotata di una legge. Le comunità giungono nel momento storicamente migliore?
Ci sono un po’ di nodi da sciogliere. Perché ci sono diversi modelli. C’è quello delle Fondazioni di Comunità, come Fondazione per il Sud, che si fanno carico dell’investimento.
L’esperienza di San Giovanni a Teduccio (Napoli), di cui VITA ha parlato.
Esatto. E poi c’è il modello dei comuni sardi, che prendono loro l’iniziativa o, ancora, il modello delle imprese di settore, che trovano palazzi e famiglie di cui possono aumentare l’autoconsumo per gli impianti che hanno creato. Ora però il Governo ha deciso di allargare la comunità energetica e consentire “l’accesso alla cabina primario”, significa arrivare fino a 30mila contatori, e giungere quindi fino alla produzione di un megawatt.
Che cosa manca?
C’è bisogno dei decreti attuativi, attesi fra maggio e giugno, altrimenti si crea una situazione di incertezza che può frenare gli investimenti. E il modello dovrebbe continuare a essere quello del premio all’autoconsumo, ossia la comunità fa tanti più ricavi quanto più l’energia prodotta viene consumata in loco, dai membri della cooperativa. Ha un senso: significa immettere meno energia nella rete che, in questo periodo, rischia un congestionamento, data la crescita degli apporti dati dalle rinnovabili.
Ricordo, pochi anni fa, una sua "gagliarda" battaglia a difesa delle banche popolari. Che cosa insegna la guerra al sistema del credito?
Le banche devono far bene ai territori. Non c’è preclusione alle dimensioni. Si tratta di capire se, crescendo, sono in grado di servire i territori, aiutare l’accesso al credito anche dei non bancabili per esempio. E sui comportamenti si giudicano. Non interessa quanti profitti facciano ma quanti clienti riescono a servire e quanto credito e servizi finanziari riescono a offrire ai territori. E se vogliamo, nell’ottica della nuova frontiera della generatività della finanza che inizia a guardare sempre di più non solo ai profitti ma all’impatto sociale ed ambientale delle proprie azioni, una banca la misuriamo da quanto i progetti che finanzia sono generativi e hanno impatti positivi su persone, territorio e bene comune
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