Florindo Rubbettino

La Cultura come ecosistema per la ricostruzione del Paese

di Maria Pia Tucci

La cultura come strumento economico che guarda all’ innovazione non solo aziendale, ma sociale e infrastrutturale del Paese e ancor più del Mezzogiorno, è un teorema più volte affermato e praticato dalla casa editrice calabrese. Ma, dice Florindo Rubbettino: «Agli stati generali per il SUD, convocati dal Ministro Carfagna, è mancata la cultura»

250 nuovi titoli l’anno, 100 dipendenti e una traiettoria in costante evoluzione. Il mondo dell’ editoria e dell’ industria grafica del gruppo Rubbettino nasce quasi mezzo secolo fa, nel 1972, a Soveria Mannelli, provincia di Catanzaro, comune di circa 3000 abitanti della Calabria centrale.

Un’ impresa che il fondatore Rosario lascia in eredità ai figli Marco e Florindo. Quest’ ultimo dal 2000 è amministratore dell’ azienda, ma anche Docente di Editing nel Corso di Laurea di Scienze della Comunicazione all’Università del Molise.

La cultura come strumento economico che guarda all’innovazione non solo aziendale, ma sociale e infrastrutturale del Paese e ancor più del Mezzogiorno, è un teorema più volte affermato e praticato dalla casa editrice calabrese.

All’ indomani del tavolo tecnico convocato dal Ministro per il Sud Mara Carfagna, Florindo Rubbettino si era detto «Stupito che avendo, il Ministro, convocato gli stati generali per capire come il mezzogiorno potesse inserire le proprie istanze nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) tra voci intorno al tavolo mancasse clamorosamente quella della Cultura. Che non è solo un ambito – continua – un codice ateco, come potremmo dire, che concorre alla ricchezza con la sua propria attività, ma che è una infrastruttura trasversale come lo sono le reti di trasporto e le autostrade. Se non si riesce a capire questo: che la cultura la conoscenza l’ istruzione, la formazione sono infrastrutture il nostro Paese non potrà mai fare il salto di qualità».

Quanto tutto questo è particolarmente significativo per il Sud Italia?

«Questa cosa è ancora più vera per il mezzogiorno per mille ragioni, due su tutte: il patrimonio immateriale, i beni culturali, il Know-how, il capitale culturale dei giovani che abitano il mezzogiorno e che spesso sono costretti, non trovando un ecosistema favorevole alla cultura a portare la loro conoscenza fuori e il secondo motivo è il fatto che se si innesca cultura, conoscenza, ricerca nelle realtà economiche esistenti su un territorio è dimostrato che si costruisce anche ricchezza, perché il grande equivoco quando si ragiona di cultura è immaginarla come un bene che può solo nobilitare l’animo. Ecco così non è. E lo dimostrano i numerosi studi effettuati che dove cresce il tasso culturale cresce l’ economia e quindi il valore economico e sociale di un territorio. Ecco perché quando si ragiona di futuro, mi piacerebbe, non si trascurasse la voce Cultura».

Qual è stato il suo esordio alla guida della Rubbettino e quale innovazione ha dettato ?

«Ho respirato profumo di libri da sempre e subito dopo la Laurea sono entrato in azienda. Il nostro è un mondo in cui l’ innovazione è pane quotidiano. Ciò di cui mi ero reso conto da subito è che in Italia ci fossero ampi spazi per un editore che volesse indagare campi inesplorati, soprattutto nella saggistica. La prima innovazione, vent’ anni fa, è stata quindi quella di aprire il catalogo a voci che nel mercato italiano non erano ancora arrivate: i grandi classici delle scienze sociali, la scuola austriaca, ma anche tutto il filone del liberalismo e del cattolicesimo liberale che per vari motivi in Italia erano stati trascurati. Portando aria nuova, a più ampio raggio, nel mondo dell’ editoria italiana ».

Qual è la oggi, secondo lei, la sfida dell’ editoria?

«La sfida dell’ editoria è quella antica e sempre attuale: continuare a produrre contenuti di qualità, la selezione e la ricerca sono fondamentali e dopo questo viene la capacità di declinare questi contenuti attraverso quelle che oggi sono le innumerevoli piattaforme. Se per 5 secoli il ruolo dell’ editore è rimasto invariato, e l’ unico device era il libro cartaceo, oggi il confine tra i molti canali di comunicazione e l’ibridazione sempre crescente tra gli strumenti, ci impone la capacità di saper individuare e affrontare la sfida del digitale».

Qual è il ruolo di un editore del Sud?

«Un editore parla al Paese intero, pur senza trascurare le specificità dei territori. Io ho sempre pensato che in un Paese angusto come l’ Italia, il mercato è decisamente ristretto, perché ci rivolgiamo ad una platea di italofoni non vastissima come per altre culture, infatti l'italiano si parla molto poco fuori dai nostri confini rispetto ad altre lingue nazionali. Per questo pensare in chiave nord-sud è ancor più riduttivo. Certo senza trascurare i territori che sono un punto di forza importantissimo per l’ Italia, e i nostri, mi riferisco a quelli del mezzogiorno, hanno bisogno di un po’ di voce in più. Ed è quello che noi facciamo».

Cosa chiederebbe invece alla politica regionale?

Chiederei di ragionare facendo autocritica su se stessa, ma non sui singoli, perché ognuno darebbe la colpa all’ altro. Un’ autoanalisi che guardi cosa hanno prodotto gli ultimi 50 anni di regionalismo. In un momento drammatico e tragico come quello che stiamo vivendo necessita un’ autoanalisi collettiva e corale della classe politica per dire: abbiamo fallito, e credo che questo sia un dato di fatto di cui qualcuno ne avrà la colpa. Non per sterile retorica, ma perché questo serva ad immaginare traiettorie diverse in cui si sappia guardare al bene comune, in cui si costruisce il futuro, in cui si rompano le catene clientelari, in cui si da spazio allo sviluppo di questa Calabria. Basterebbe abbandonare quello che è stato fatto fino ad ora e già sarebbe un grande passo avanti».

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