A Milena «la cosa più importante era la scuola. Era il luogo dell’emancipazione e della libertà, perché se andavi bene potevi uscire dall’isolamento. Ho passato quegli anni a pensare di andarmene, e quando me ne sono andato a cercare il modo di tornare». Se ci nasci, in questo paesino di meno di tremila anime nell’entroterra siciliano più a meno a metà via fra Agrigento e Caltanissetta che porta il nome di una regina (Milena del Montenegro, madre di Elena, la sposa di Vittorio Emanuele III) o sei figlio di un agricoltore o, più raramente, di un artigiano del ferro o del legno. Hai il destino segnato. A meno di andare al liceo e poi magari all’università. Giuseppe (detto Peppe) è il secondogenito della famiglia Provenzano. Mamma insegnante e papà fabbro. Giuseppe Provenzano dal 5 settembre 2019 è il ministro per il Sud e la coesione territoriale nel Governo Conte II in quota partito democratico. Dopo il diploma a Caltanissetta si aprono le porte della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Laurea a dottorato. Ma proprio a Pisa, 1.277 chilometri più a nord dalla sua Milena, si riaccende l’antica fiamma: «Una passione meridionalista e sociale che mi ha portato prima a lavorare allo Svimez e oggi a occuparmi di Sud nelle vesti di ministro». Ma lo fa da Roma, ormai la sua città di adozione, tanto che il suo primo figlio «che quando era più piccolo si definiva siciliano, oggi si dichiara romano e romanista». I suoi genitori sono rimasti nelle campagne milenesi, dove il ministro torna appena può, a produrre olio e miele. Come lui, anche suo fratello maggiore oggi vive fuori dalla Sicilia. «La vita del Sud però mi manca», dice oggi Provenzano.
Cosa in particolare le manca?
Mi manca la campagna. Ma qui intendo qualcosa di più politico. Mi occupo ogni giorno del Sud, ma le politiche per produrre effetti profondi vanno seguite, in qualche modo vissute. Ecco, mi manca la possibilità di fare la differenza nel quotidiano, nella relazione con le persone che vivono nei paesi, con quelli che sono rimasti. È un destino che condivido con un pezzo della mia generazione. Negli ultimi 15 anni quasi mezzo milione di giovani ha lasciato il Mezzogiorno. Un vero e proprio esodo in termini di capitale sociale. Oggi però il mondo è cambiato. Grazie alle tecnologie e alla facilità di movimento è possibile immaginare percorsi di vita non esclusivamente stanziali, in cui i ragazzi possano andare e tornare, vivere almeno parte del loro tempo rimanendo al Sud, inframezzando questo tempo con esperienze di studio o professionali al nord o all’estero. È un processo in essere che va accompagnato da politiche coerenti.
Come centrare l’obiettivo in tempi di lockdown da Covid?
Creando le opportunità per far tornare i giovani, e garantire con occasioni di lavoro buono e di qualità il “diritto a restare”. Ma è emerso un fenomeno interessante durante la pandemia, quello del south working, di cui abbiamo ancora contorni incerti, che va proprio nella direzione che indicavo. Sui social esiste già una rete che conta circa 10mila aderenti. Di certo siamo di fronte a un fenomeno nuovo che va interpretato e accompagnato. E qui la politica ha un ruolo fondamentale. Di fronte a nuove forme di organizzazione del lavoro, servono nuove regolamentazioni e nuovi diritti.
A cosa si riferisce?
Lo smart working non può ridursi a un telelavoro con meno diritti. Specie per le donne, in qualche caso, diventa una doppia fatica perché si somma a quelle domestiche. Poi c’è il tema enorme delle infrastrutture. In primis quelle digitali. Che è un nodo che riguarda tutti. Le periferie delle grandi città e le aree interne ci sono al nord come al sud. Il diritto alla connessione oggi è un diritto fondamentale. E occorre creare spazi comuni dove i giovani possano lavorare insieme, connessi al resto del mondo, ma che oltre a co-working siano anche presidi di comunità, in cui con le startup convivano per esempio corsi di alfabetizzazione digitale nei quartieri, per gli anziani. In questo modo valorizzeremo questi giovani “di ritorno” non solo in termini economici, per far crescere i consumi, ma anche in termini di trasformazione, di modernizzazione e apertura delle comunità. L’innovazione non dev’essere fine a se stessa, ma deve avere ricadute sociali, tangibili su persone, lavoratori e comunità. In questo senso diventa fondamentale l’ascolto delle reti sociali attraverso e con le quali creare le premesse per lo sviluppo. Io credo molto in questo, l’ho tradotto in iniziative del mio ministero. La sfida è liberare il potenziale di tutte le persone in tutti i luoghi. È questo il senso del Piano Sud 2030.
L’infrastrutturazione digitale e sociale che lei richiama necessita di risorse…
Nei prossimi 7 anni fra risorse nazionali ed europee al Sud arriveranno 140 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi. Si tratta di uno stock senza precedenti che servirà a raggiungere gli obiettivi di cui abbiamo parlato: digitalizzazione, infrastrutture sociali, scuole, presidi sanitari di assistenza. Tutte precondizioni e leve per lo sviluppo. In più nella legge di bilancio avremo una fiscalità di vantaggio a favore del lavoro al Sud. Da questo punto di vista mi lasci citare l’enciclica “Fratelli tutti” in cui al paragrafo 162 dice che: “Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare — perché promuove il bene del popolo — è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze”. Il lavoro è il tema centrale. Ma la politica, le istituzioni da sole non bastano.
In che senso?
Abbiamo messo sul tavolo risorse e strumenti senza precedenti, compresi quelli che guardano specificatamente al Terzo settore. Ora questi strumenti vanno imbracciati dalla società meridionale. Dalle sue forse vive nell’impresa, nel lavoro, nelle reti e nelle comunità che devono diventare protagonisti di questo percorso e dei processi di cambiamento che saprà innestare. La verticalità della politica nazionale deve accendere il protagonismo della società. Altrimenti si cade nella de-responsabilizzazione.
A proposito, una misura come il reddito di cittadinanza non è altamente de-responsabilizzante?
Nessun progetto di “liberazione” individuale o di un territorio può convivere con la fame e la povertà. Chi ha liquidato questa misura come la volontà di dare soldi alle persone per restare sul divano mostra non solo una lontananza dai bisogni sociali ma anche un certo disprezzo verso fasce della popolazione che soffrono. Detto questo è una misura da migliorare coinvolgendo maggiormente i Comuni e il Terzo settore che sono quelle realtà che davvero conoscono la marginalità. Poi c’è un equivoco di fondo da sciogliere nell’impostazione. Il RdC non serve e poteva servire a trovare lavoro. Vanno separate e fortemente migliorate le politiche attive, altrimenti rischia di diventare alternativo al lavoro e questo non può essere accettato. Credo ci siano le condizioni per lavorare già in questa legislatura per migliorarne tutti i limiti, preservando la natura di misura universale contro la povertà.
In questi giorni il gruppo VITA ha alzato il sipario su “Vita a Sud”, un nuovo progetto editoriale che ha l’obiettivo di raccontare proprio l’innovazione sociale ed economica di cui lei ha parlato in questa intervista. Ha qualche suggerimento da darci?
Io non sono credente ma ho una grande curiosità, attenzione e direi passione per il cristianesimo. L’augurio che voglio farvi lo riprendo da una lettura di Gilbert Keith Chesterton in cui racconta che Cristo quando è venuto tra di noi non ha mai avuto timore di nascondere le sue lacrime, non ha mai avuto timore di nascondere la sua collera, ma ha tenuto segreta una cosa, una cosa troppo grande — dice Chesterton — per condividerla con gli uomini e che secondo lui è il segreto del cristianesimo: la gioia. Quando si parla di Mezzogiorno, spesso ci si mettono le lacrime, altrettanto spesso la collera. Capita anche a me. L’invito che vi faccio nel raccontare il Sud è di non dimenticare mai la gioia.
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