Siamo all’inizio della Fase Due. Ma i punti di domanda restano. Gli esperti (e anche i non esperti) si interrogano sugli errori, formulano ipotesi, si lanciano accuse e agevolano l’innescarsi di quel meccanismo un po’ sterile, esercitato da entrambe le parti, che rimette al centro quella contrapposizione, che è sempre stata inutile – e lo è ancora di più oggi – tra il nord Italia e il sud Italia. Al netto di tutti gli errori, che sicuramente sono stati fatti, l’assessore alle politiche sociali del comune di Milano Gabriele Rabaiotti dice una cosa onesta: «Nella tragedia è stata una fortuna che i focolai di Coronavirus siano scoppiati in Lombardia. Meglio Milano che Napoli o Palermo».
«Non voglio semplificare», sottolinea Rabaiotti, «ma la mia idea è che in una città internazionale come Milano gli scambi con l’esterno siano più frequenti. E da amministratore ho avvertito la mancanza di una struttura capace di gestire lo shock che è arrivato. Io, ci tengo a precisarlo, sono un democratico fino all’osso, ma nelle emergenze la risposta deve essere rapida e comune. Le discussioni invece hanno portato via tempo che si è dimostrato essere letale».
Possiamo dire che la città in qualche modo abbia “tenuto”?
Credo di sì. È stata una città ferma, ma sempre accesa, dove il tessuto sociale si è rimboccato le maniche. Lo scordo 28 febbraio il Comune di Milano ha chiamato a raccolta le aziende e il privato sociale per attivare una rete di aiuto
agli over 65, alle persone affette da patologie croniche o immunodepresse che rappresentano i soggetti più a rischio in caso di contagio da Coronavirus e ai quali è stato raccomandato di rimanere a casa per quanto possibile. Il contagio si è diffuso con una forza violenta e noi dovevamo intervenire. Abbiamo messo su questa rete “Milano Aiuta” per venire incontro alle esigenze della fascia più fragile della popolazione istituendo un indirizzo mail milanoaiuta@comune.milano.it e un call center dedicato 020202 per raccogliere tutte le richieste da parte dei cittadini e metterli in contatto con le iniziative solidali e i servizi delle realtà, circa 350, che hanno aderito alla nostra iniziativa. Siamo passati dai diecimila contatti settimanali e un picco di oltre 15mila.
A potenziare gli interventi di prossimità della piattaforma Milano Aiuta anche la Fondazione di Comunità di Milano, nata sotto la spinta di Fondazione Cariplo che ha aperto il bando #MilanoAiuta. La fondazione tramite il bando raccoglie e poi raddoppia, così com’è nella natura delle fondazioni di comunità, le donazioni per sostenere i servizi inseriti nel nostro catalogo.
Molto è stato fatto in termini di supporto alle persone, la piattaforma “Milano Aiuta” rappresenta una buona pratica. Ma cosa l’amministrazione pubblica da un lato e il privato sociale dall’altro devono portarsi a casa dopo questa esperienza?
In questa emergenza abbiamo capito che dobbiamo ripensare alla relazione tra l’ente pubblico e il privato sociale. Innanzitutto il servizio pubblico ha risposto a domande e bisogni che potevano essere affrontati tra le persone. Abbiamo per troppo tempo, e in questa emergenza è emerso, relegato tutto ad una dimensione di domanda e offerta e questo ha impoverito il sistema sociale. Le persone non hanno interpellato i loro vicini perché di fatto non li riconoscevano. Credo sia fondamentale ritornare a reti piccole, dense, verticali. Dobbiamo costruire combinati disposti, miscugli. Mi spiego meglio: non può bastare l’assistenza al disabile. Per rispondere davvero a un bisogno devo entrare in relazione e devo conoscere la famiglia, la scuola, il centro sportivo del quartiere della persona che si rivolge a me. Non può più bastare ridurre il servizio alla risposta alla persona disabile.
Quali sono le azioni da intraprendere per concretizzare questa visione?
Dobbiamo uscire fuori dal welfare assistenziale, bisogna che la co-progettazione, la modalità di relazione tra enti pubblici e terzo settore, che trova nella città di Milano un tessuto fertile, torni ad essere al centro.
L’articolo 48 del Decreto Cura Italia prova a fornire un indirizzo in merito alla rimodulazione del sistema dei servizi sociali afferenti le attività diurne socioassistenziali e sociosanitarie nello specifico per persone con disabilità e pone l’attenzione sui Centri Diurni Disabili, Centri Socio Educativi, Servizi di Formazione all’Autonomia e i Centri di Aggregazione Disabili…
Sull’articolo 48 del decreto Cura Italia voglio essere chiaro: è stato fatto per arginare i disastri sanitari. Non appoggerei su quell’articolo la necessità, che esiste, di ripensare a modelli di co-progettazione che mettano sullo stesso livello amministrazioni pubbliche e enti del terzo settore. L’emergenza Coronavirus ha dimostrato che la relazione tra amministrazione ed enti del terzo settore c’è ed è solida, ma si ha bisogno di stimoli nuovi. Il terzo settore si muoveva un po’ in base a quelle che erano le direttive dell’amministrazione pubblica. Questa emergenza ci ha insegnato il modello non funziona più. Gli enti devono tornare ad essere territoriali. Saranno così riconosciuti come aggregatori di risposte. Il terzo settore deve essere il terzo abitante del luogo che abita.
La soluzione?
Torniamo a mettere al centro la relazione sociale tra i vicini come parte della risposta sociale per la comunità. L’errore è stato quello di delegare la domanda solo all’apparato pubblico che ha iniziato a gestire le richieste nella sola dinamica di “domanda-offerta”. Questo ha impoverito il tessuto sociale e ha appesantito la macchina pubblica. Dovremmo invece tornare a reti più piccole, territoriali. In modo da accorciare le distanze tra i cittadini. E questo spetta a noi, all’amministrazione pubblica che dobbiamo ritornare ad agevolare la costruzione di combinati disposti, miscugli, entrare dentro i quartieri. E non occuparci appunto solo della persona disabile per esempio, ma della sua famiglia. Della scuola del quartiere in cui vive, del centro sportivo di riferimento.
E il terzo settore?
Si è organizzato in base alle indicazioni dell’amministrazione pubblica. Si è specializzato in modo da rendersi mono funzionale. E invece il terzo Settore deve scegliere un territorio, lavorare su quello, farlo suo in qualche modo affinché venga riconosciuto come un punto di riferimento. Il terzo settore è fondamentale per la riuscita del Paese. E la co-progettazione è lo strumento che dobbiamo sfruttare per intraprendere un percorso di riorganizzazione che parte sì dalla scala centrale ma che poi deve necessariamente, se vuole riuscire, caratterizzarsi il base al territorio di riferimento.
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