«Il 73% dei nostri ragazzi sta male a scuola». Partiamo da qui. Daniela Lucangeli, professoressa di Psicologia dello sviluppo presso l'Università degli Studi di Padova ed esperta di psicologia dell'apprendimento, non ha dubbi: allo studente si chiede di imparare troppo, in poco tempo, senza passione, con l’ansia di doverne rendere conto. «Colpa e paura sono le emozioni alla base del nostro sistema educativo», spiega. «Ma tutto ciò tiene i ragazzi in costante allerta e produce un cortocircuito emozionale che genera malessere e inceppa l’apprendimento».
Con lo stile empatico-scientifico e la chiarezza e la passione che la contraddistinguono, nel suo ultimo libro, Cinque lezioni leggere sull'emozione di apprendere (Erickson, 2019), Lucangeli invita gli insegnati a concentrarsi di più sugli stati d’animo degli studenti mentre appendono: «A scuola, come nella vita, cresce ciò che semini». Se un bambino impara con gioia, nella sua memoria resterà traccia dell'emozione positiva che gli dirà: “Ti fa bene, continua a cercare”. Se un bambino impara con gioia, impara di più e meglio». Il bravo maestro, ergo, «è colui che aiuta, che dà fiducia e coraggio, non che ingozza e giudica, somministra e verifica».
Nel suo libro, lei scrive che gli studenti italiani stanno parecchio male…
Tempo fa è stata istituita una commissione ministeriale per lo studio del livello di benessere e malessere nelle scuole italiane, alla quale ho partecipato. Quando abbiamo cominciato ad analizzare i dati ci siamo agitati tutti. I numeri sono impressionanti: il 27% del campione italiano sta «così così» (non «bene»); il 73% sta male e, all’interno di quest’ultimo gruppo, il 60% non ha ricordo di essere mai stato bene in classe.
Perché secondo lei?
Sembra che una delle cause di questo malessere sia il carico richiesto ai ragazzi. I dati rilevano che allo studente viene chiesto di imparare troppo, in poco tempo, senza passione, con l’ansia di doverne rendere conto, la frustrazione di non riuscire, la sensazione di perdere tempo per cose più utili e piacevoli. Di fronte a tutto ciò il cervello è costretto a spendere energie per qualcosa che non provoca benessere, bensì allerta. Il problema, perciò, è duplice: il carico cognitivo è inadeguato per quantità (i nostri ragazzi vengono ingozzati) e per qualità (a loro chiediamo continue prestazioni). E’ la prima volta che questo aspetto viene identificato nella scuola italiana.
Allora che fare? Cancelliamo voti e pagelle?
Niente affatto. Io non sono paladina di una scuola «facile», semplificata, ma di un sistema di didattica e valutazione capace di ottenere autenticamente il meglio. Per fare questo non ci vogliono schede, non ci vogliono libri. Ci vuole una maggiore consapevolezza professionale e coscienza di come si insegna. Invece, purtroppo, quando si pensa a come accompagnare uno studente verso il successo scolastico, di solito ci si concentra su come presentare un determinato argomento, come favorirne la comprensione e la memorizzazione, ma non ci si sofferma mai a sufficienza sugli stati d’animo degli studenti mentre apprendono.
Dovremmo concentrarci di più sulle emozioni?
Assolutamente sì. Negli ultimi anni si è sviluppato un nuovo filone di ricerca scientifica, a cui è stato dato il nome di warm cognition, letteralmente «cognizione calda». Abbiamo imparato che le nozioni si fissano nel cervello insieme alle emozioni e quest’ultima, a loro volta, influiscono concretamente sui processi cognitivi, come attenzione, memoria, comprensione.
Io non sono paladina di una scuola "facile", semplificata, ma di un sistema di didattica e valutazione capace di ottenere autenticamente il meglio. Per fare questo non ci vogliono schede, non ci vogliono libri. Ci vuole una maggiore consapevolezza professionale e coscienza di come si insegna.
Cosa significa questo nel contesto scolastico? Che ruolo hanno le emozioni mentre impariamo?
Significa che se un bambino impara con gioia, impara di più e meglio. Se è sostenuto, guardato e incoraggiato da un insegnante che si pone come suo alleato, nella sua memoria resterà traccia dell’emozione positiva, portatrice del messaggio: «Ti fa bene, continua a cercare». Al contrario, tutto quello che il bimbo impara con paura, ansia, angoscia, genera delle memorie che lo tengono in costante allerta e produce un cortocircuito emozionale tale da inceppare l’apprendimento: lo studente si blocca e non riesce più a imparare. Peraltro lo stato di allerta attiva il cortisolo, l’ormone dello stress: quando aumenta eccessivamente e può portare a una crescita dei valori glicemici, un abbassamento delle difese immunitarie e persino alterazioni della risposta infiammatoria.
Ci può fare un esempio?
Se mentre imparo la tabellina del 7 sperimento la fiducia del mio insegnante nelle mie capacità, io metto in memoria sia quello che lui mi ha insegnato, sia la sua fiducia; ogni volta che «riapro il cassetto della memoria» che contiene la tabellina del 7, riprendo anche la sua fiducia, che mi dà incoraggiamento. Se invece la imparo con paura, ogni volta che dovrò ripeterla il mio cervello mi dirà «Scappa da lì!»
Come mai?
Si tratta di un sistema di protezione: siamo strutturati in modo che il nostro organismo abbia una memoria capace di riconoscere il dolore subito, così da evitare ciò che ci nuoce e ci mette in pericolo. Quando ho paura, mi spavento, mi ritraggo perché ricordo esperienze che ho classificato come negative, perché le ho provate un prima persona, oppure perché ho conservato, senza esserne consapevole, a livello filogenetico, le paure dei miei antenati. Il circuito legato all’emozione di paura è regolato infatti da un sistema ancestrale della nostra specie detto cervello limbico: sono strutture del cervello antichissime che regolano reazioni che abbiamo da milioni di anni. Forse gli studi più impressionanti in questo ambito concernono i sopravvissuti di Auschwitz e i loro figli e nipoti.
Cosa ne pensa del nostro sistema educativo?
Purtroppo a me sembra che la colpa e la paura siano emozioni alla base del nostro sistema educativo: un sistema basato sull’avere paura degli errori, dell’insegnante o della verifica. Nella scuola che vorrei, invece, i bimbi non consumano energia biopsichica sulla base di un alert costante, anzi, gli insegnanti puntano a ridurre questi stati incoraggiando le emozioni positive che nutrono l’apprendimento, che stimolano l’interesse, la curiosità, il senso di completezza di sé, la percezione di affrontare una sfida commisurata alle proprie possibilità, la consapevolezza, la voglia di impegnarsi.
Il nostro sistema educativo è basato sull’avere paura degli errori, dell’insegnante o della verifica. Nella scuola che vorrei, invece gli insegnanti puntano a incoraggiare le emozioni positive che nutrono l’apprendimento, che stimolano l’interesse, la curiosità, il senso di completezza di sé, la percezione di affrontare una sfida commisurata alle proprie possibilità
Come è secondo lei un buon maestro?
A scuola, come nella vita, cresce ciò che semini. Quindi un insegnante che vuole far crescere l’intelligenza deve seminare l’intelligenza; se vuol far crescere il benessere, deve seminare il benessere; se vuol far nascere la fiducia, deve seminare la fiducia. Un bravo maestro, insomma, è colui che aiuta, che dà fiducia e coraggio, non che ingozza e giudica, somministra e verifica.
Come fa un buon maestro a sostenere l’apprendimento?
Basta una scintilla di emozione positiva su una stanchezza sostanziale — un sorriso, una barzelletta, una storia appassionante, una carezza — ed ecco che si avvia un meccanismo emotivo che riattiva il circuito dell’apprendimento e lasciano libera la funzione cognitiva di continuare a imparare. Molti studi dimostrano che già dopo 20 secondi che abbracciamo qualcuno, nel nostro copro inizia ad aumentare il livello dell’ossitocina.
Quindi, quando gli alunni sono stressati, in ansia, in pena… basta abbracciarli?
Se un insegnante vuole creare alleanza con un bimbo, non ci riuscirà con una nota sul diario o facendogli ripetere 20 volte l’esercizio che ha sbagliato e nemmeno dicendogli un generico e distaccato "bravo". I bambini, come gli adulti, quando sono in pena cercano un abbraccio, che può essere fisico, ma anche psicologico, simbolico. Uno sguardo può «abbracciare», la voce con la sua intonazione può fare altrettanto, e perfino un gesto fatto da lontano.
I bambini, come gli adulti, quando sono in pena cercano un abbraccio, che può essere fisico, ma anche psicologico, simbolico. Uno sguardo può abbracciare, la voce con la sua intonazione può fare altrettanto, e perfino un gesto fatto da lontano.
A proposito degli errori dei ragazzi, lei nel suo libro distingue tra errori «a matita» o «a penna»?
È importante che l’insegnante sappia riconoscere se l’errore di fronte al quale si trova è il segnale di un sistema inceppato – che non si può recuperare – oppure se, al contrario, c’è la possibilità di cambiare la traiettoria di apprendimento, con interventi idonei. Questi ultimi sono gli errori a matita: quelli che si risolvono facilmente se si offre un aiuto che sia in linea con i processi coinvolti nel compito.
Vale anche per un bambino cui è stato diagnosticato un Disturbo Specifico di Apprendimento?
Nel caso di un DSA bisogna essere consapevoli del fatto che se il disturbo c’è, non si guarisce, però lo si può compensare. Chi insegna deve impegnarsi a trovare strategie e soluzioni perché chi fa fatica trovi i supporti, le facilitazioni e i percorsi attraverso cui superare l’ostacolo, correggere gli errori e trarre il meglio dai propri talenti.
Eric Kandel vinse il premio Nobel per la medicina nel 2000 proprio per aver scoperto che i neuroni si modificano se stimolati, fornendo conferma alla teoria secondo la quale l’esperienza interviene sul cervello. Nel corso della nostra vita, in effetti, l’esperienza ci modella incessantemente: si può dire che l’apprendimento scolpisca il cervello, creando continuamente nuove connessioni neurali.
A proposito di plasticità del cervello, nel libro scrive che nei prossimi due anni si verificherà un numero di cambiamenti nei processi di sviluppo dei nostri bambini paragonabile a quello registrato nei precedenti otto. Che cosa significa?
Nel giro di pochi anni i ragazzini arriveranno in classe con strutture mentali e delle sollecitazioni sociali, tecnologiche, culturali che non hanno più nulla a che vedere con il mondo a cui siamo abituati noi adulti. Perciò le traiettorie dello sviluppo tipico che noi abbiamo assunto come parametro non saranno più valide.
Dovremo modificare il nostro modo di intendere la scuola e l’educazione?
È auspicabile. Continuando a pretendere che passino cinque ore a scuola in apprendimento passivo e cinque ore a casa a fare compiti sul quaderno, li stiamo indirizzando verso una situazione di ulteriore malessere. Già adesso ci rendiamo conto che fanno fatica a seguire una lezione frontale e a stare per molte ore seduti fermi nel banco.
Foto di copertina Unsplash
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