Più di un miliardo di persone nel mondo ha una disabilità: il 15% della popolazione mondiale. L’82% di esse vive in Paesi in via di sviluppo. Ma quanti progetti di cooperazione li riguardano? E soprattutto: con quale sguardo? La Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità ha cambiato l’approccio alla disabilità, ancorandolo al rispetto dei diritti umani, alla non discriminazione e alle pari opportunità. Dopo il 2006 così gli interventi nei confronti delle persone con disabilità hanno iniziato a cambiare linguaggio, metodo, strategia: inclusi quelli di cooperazione allo sviluppo. L’Italia nel 2010 ha elaborato delle specifiche linee guida per la disabilità e l’inclusione sociale negli interventi di cooperazione, che sono state aggiornate nel 2018. Dal 2013 abbiamo un “Piano di Azione Disabilità della Cooperazione Italiana” e nel 2014 è stato introdotto un nuovo “marker” per individuare non solo le iniziative specificamente rivolte alla disabilità, ma anche quelle di mainstreaming, ovvero che integrano la prospettiva della disabilità nelle pratiche e nei progetti, tout court. L’ultima mappatura dell’Agenzia per la Cooperazione allo Sviluppo su quanto fatto sul fronte disabilità (anni 2009-2014) attesta che il 2,68% dei finanziamenti a dono complessivi dell’Agenzia hanno finanziato iniziative dedicate alla disabilità, per un valore poco superiore ai 35 milioni di euro. Gli interventi vanno dai territori palestinesi all’Afghanistan, passando per il Kosovo, il Madagascar, l’Albania… per un totale di 23 Paesi. Circa i due terzi dei finanziamenti sono stati destinati ad iniziative ordinarie, non di emergenza.
Il 5 e 6 aprile un convegno internazionale metterà a tema il valore dell’inclusione delle persone con disabilità nei programmi di cooperazione allo sviluppo. Si intitola “Essere persona. La disabilità nel mondo: quali diritti, inclusione e riabilitazione?” (5-6 aprile 2019, Milano, Centro Congressi Fondazione Cariplo, Via Romagnosi 8) ed è promosso da Aifo, Fondazione Don Carlo Gnocchi e Ovci, tre fra le ONG storicamente più attive in questo settore (qui il programma dettagliato). «L’Italia ha molto da dire, può introdurre innovazioni a livello internazionale», afferma Giampiero Griffo. Classe 1952, Griffo ha diretto la sezione “diversità” della Biblioteca Nazionale di Napoli ed è l’uomo che ha rappresentato l’Italia nei lunghi lavori che hanno portato alla Convenzione ONU, di cui proprio quest’anno ricorrono i 10 anni dalla ratifica da parte del nostro Paese. Da poco è stato nominato coordinatore del Comitato Tecnico Scientifico dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, presiede la RIDS (Rete Italiana Disabilità e Sviluppo) – un’alleanza nata per valorizzare il patrimonio di esperienze e progetti che mettono al primo posto il rispetto dei diritti umani delle persone con disabilità nei programmi per i Paesi in via di sviluppo – è membro dello European Disability Forum e partecipa come formatore a diversi progetti di cooperazione internazionale: «l’obiettivo del nostro lavoro è quello di trasferire le buone prassi italiane nel dibattito intenzionale».
Ci dà innanzitutto qualche dato di cornice sulle persone con disabilità che vivono nei paesi in via di sviluppo?
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 15% della popolazione mondiale vive in una condizione di disabilità: significa un po’ più di un miliardo di persone. L’82% di esse vive in Paesi che a me piace definire “in cerca di sviluppo”. Le persone con disabilità rappresentano circa un quinto dei più poveri del mondo. A livello mondiale i servizi e i sostegni per loro sono pochi, grossomodo riguardano solo il 10% delle persone con disabilità, dal momento che in molti di questi Paesi non c’è welfare. Il tema vero non è il confronto tra la situazione delle persone con disabilità in Italia e in un Paese in cerca di sviluppo, ma il confronto in uno di questi Paesi tra le persone che già hanno una disabilità e quelle non ancora disabili (la dico in questi termini perché ormai sappiamo che tutti incapperemo nella disabilità nel corso della nostra vita, almeno temporaneamente). Il cambiamento di prospettiva è avvenuto con la Convenzione Onu, oggi ratificata da oltre il 91% degli Stati membri, che ha dato un nuovo standard internazionale per tutti gli interventi sulla disabilità, basato sul rispetto dei diritti umani. Il fatto è che in questi anni le disuguaglianze sono molto cresciute, i più poveri sono sempre più poveri e le persone con disabilità con loro: è un discorso complesso, i Paesi emergenti spesso hanno modalità di sviluppo con poco welfare ma d’altronde anche nei Paesi più ricchi il modello di sviluppo attuale sta erodendo gli interventi di inclusione. Per questo è significativo che negli obiettivi di sviluppo sostenibile (gli SDGs per il 2030) ci siano 11 riferimenti alle persone con disabilità, che spesso invece fino ad oggi non hanno beneficiato dello sviluppo al pari degli altri cittadini.
Il tema vero non è il confronto tra la situazione delle persone con disabilità in Italia e in un Paese in cerca di sviluppo, ma il confronto in uno di questi Paesi tra le persone che già hanno una disabilità e quelle non ancora disabili (la dico in questi termini perché ormai sappiamo che tutti incapperemo nella disabilità nel corso della nostra vita, almeno temporaneamente). Le persone con disabilità spesso fino ad oggi non hanno beneficiato dello sviluppo al pari degli altri cittadini
Giampiero Griffo
L’Italia è storicamente attenta alla disabilità nei suoi interventi di cooperazione allo sviluppo, ma qual è il nostro approccio caratterizzante? Quali sono le best practices di successo della nostra cooperazione?
L’Italia tradizionalmente ha un’attenzione al genere, ai minori, alla disabilità con delle Linee Guida specifiche, penso ad esempio al documento “Educazione inclusiva delle persone con disabilità e cooperazione allo sviluppo”. Il nostro intervento ha due aspetti, uno di riabilitazione e uno di abilitazione: la logica è che con le persone con disabilità non basta fare interventi sanitari, seppur necessari, ma bisogna anche intervenire sul fronte dell’educazione, dell’impiego, dell’accessibilità, offrire un intervento a tutto tondo, coerente con la Convenzione Onu. Il tema al centro del Convegno di aprile è che anche nella cooperazione allo sviluppo bisogna guardare le persone con disabilità come cittadini, non come pazienti. La cooperazione italiana è all’avanguardia nel mondo, le nostre ultime Linee guida sono molto innovative in questo senso. Per fare solo un esempio, dal 2015 tutte le costruzioni finanziate dall’AICS devono garantire l’accessibilità e questo lo facciamo solo noi, la Nuova Zelanda, l’Australia e in parte gli Usa. Nelle linee guida poi sono indicati due interventi che sono specificatamente italiani.
Non basta fare interventi sanitari, necessari: bisogna anche intervenire sul fronte dell’educazione, dell’impiego, dell’accessibilità, offrire un intervento a tutto tondo, coerente con la Convenzione Onu. Anche nella cooperazione allo sviluppo bisogna guardare le persone con disabilità come cittadini, non come pazienti. La cooperazione italiana in questo è all’avanguardia
Giampiero Griffo
Quali sono questi strumenti?
Uno è la ricerca emancipatoria, che è un modello per la raccolta dei dati partendo dalle stesse persone con disabilità, che diventano ricercatori che interrogano altre persone con disabilità per raccogliere non tanto dei dati quantitativi ma per conoscere ad esempio quali barriere incontrano nei loro diritti, nel mondo sono pochissime le informazioni di questi tipo. L’utilizzo di tale metodologia si è dimostrata essere uno strumento utile e innovativo. Questo è un elemento importante dei nostri progetti, è un modello teorico che nasce dall’idea che nessun ricercatore conosce la condizione delle persone con disabilità meglio delle persone con disabilità. L’abbiamo applicato in India, Palestina, Liberia, Mongolia, sono nate innovazioni importanti. L’altro è il peer counseling, cioè il protagonismo delle persone con disabilità che aiutano le altre persone con disabilità a crescere in consapevolezza, autodeterminazione e indipendenza: noi siamo quasi sempre oggetto di intervento, raramente soggetto, ma questo significa non lavorare affinché le persone con disabilità siano protagoniste della loro vita e della relazione con le istituzioni. L’advocacy, cioè la sensibilizzazione fatta dalle organizzazioni che si occupano di disabilità, va trasferita alle organizzazioni di persone con disabilità dei Paesi in cui andiamo. In Palestina ad esempio con RIDS abbiamo appena fatto una formazione innovativa con il peer counseling, formando 12 persone che ne hanno incontrate altre 500: è una visione della cooperazione che ha molto a che fare con ciò che dice la Convenzione, che parla di diritti umani e di libertà fondamentali.
Cosa significa unire riabilitazione e abilitazione?
Occorre far capire che parlare di persone con disabilità non significa solo parlare di salute, altrimenti quando la persona è stabilizzata finisce tutto. Accanto alla riabilitazione, che ovviamente è importantissima, deve esserci anche l’abilitazione: una volta portata la persona in una condizione stabile, devo metterla in grado di svolgere tutte le attività che lei vuole svolgere, sapendo che questo “essere in grado” è una questione ambientale e sociale dal momento che la disabilità è frutto della relazione della persona con l’ambiente in cui vive. In questo senso nulla è più come una volta, l’approccio della cooperazione alla disabilità è molto in movimento. Al Convegno ad esempio avremo Victoria Lee di Bridging the gap che parlerà proprio di come si possano coniugare gli aspetti di riabilitazione e quelli di abilitazione e il professor Jerome Bickenbach, che è un’autorità nel dire che la riabilitazione deve tenere insieme le due cose, riabilitare fisicamente ma anche mettere a disposizione interventi che diano la possibilità di essere o tornare ad essere protagonisti della propria vita.
Cos’è lo sviluppo inclusivo su base comunitaria di cui parlano le linee guida?
È una strategia indicata dall’OMS che prevede il coinvolgimento di tutti gli attori responsabili dell’erogazione dei servizi essenziali e quindi dell’esercizio dei diritti delle persone con disabilità nei vari ambiti: salute, educazione, lavoro, servizi sociali. Negli anni ‘80 ci si rese conto a livello internazionale che nei Paesi in cerca di sviluppo non c’era un sistema di intervento riabilitativo adeguato e quindi si iniziò a ragionare su come fosse possibile offrire una risposta in un contesto in cui non esistevano competenze specifiche: si partì portando riabilitazione, fisioterapia, fornendo ausili e interventi medici, ma man mano si è andati ad includere varie tipologie di azione per favorire l’accesso delle persone con disabilità a servizi sanitari, sociali, educativi e di contrasto alla povertà. L’idea è stata quella di lavorare molto con la comunità ed è stato elaborato un modello che coinvolge tutte le componenti che hanno a che fare con la disabilità. Il passo successivo, maturato negli ultimi anni, è la consapevolezza che per parlare di inclusione occorre che le persone con disabilità siano beneficiarie dello sviluppo di una comunità al pari di tutti gli altri. Il tema, ben posto dagli Obiettivi di sviluppo sostenibile, è che le società devono organizzarsi perché tutti beneficino dello sviluppo.
Leaving no on behind…
Anche se, attenzione, quell’espressione non deve far intendere che noi persone con disabilità siamo quelli che rimangono indietro; in realtà noi non siamo vulnerabili, siamo discriminati e invisibili.
Per parlare di inclusione occorre che le persone con disabilità siano beneficiarie dello sviluppo di una comunità al pari di tutti gli altri. Il tema, ben posto dagli Obiettivi di sviluppo sostenibile, è che le società devono organizzarsi perché tutti beneficino dello sviluppo.
Giampiero Griffo
La cooperazione italiana sta facendo innovazione?
Sta applicando la Convenzione, introducendo i temi dei diritti umani in tutte le sue attività. Sta promuovendo azioni e progetti che applicano criteri innovativi, come il peer counseling o la ricerca emancipatoria di cui abbiamo già parlato. Il contributo che le persone con disabilità danno produce innovazione: questo è un cambiamento sostanziale, la partecipazione è innovazione. E ancora penso come la mappatura di quanto l’AICS investe sulla disabilità, con un marker di efficacia che consente di individuare le iniziative non specificamente dedicate alla disabilità, adottato nel 2014, che a livello mondiale è stato introdotto solo l’anno scorso.
L’ultimo dato dice che il 2,68% dei fondi della cooperazione è dedicato a persone con disabilità: come valutarlo?
È una percentuale analoga a quella dei Paesi scandinavi. È poco, ma siamo nella media. Spesso il problema è la difficoltà delle ong a occuparsi di disabilità, c’è stato negli anni un modello di “delega”, per cui di disabilità si occupavano solo alcune ong “esperte”, in Francia funziona tuttora così. L’Agenzia italiana invece si è dotata di questo nuovo marker che ci aiuta a fare una mappatura diversa, valorizzando non solo i progetti dedicati ma anche quelli mainstreaming, secondo un approccio che prevede l’integrazione trasversale delle tematiche della disabilità in tutte le politiche e le pratiche sociali, economiche, legislative, politiche e culturali e di conseguenza indicando l’inclusione delle persone con disabilità tra i beneficiari di tutte le attività di cooperazione internazionale. L’approccio che è stato scelto è quello “a doppio binario” o “twin track approach”, con la volontà da un lato di aumentare i progetti di cooperazione allo sviluppo che hanno le persone con disabilità come focus specifico ma dall’altro di fare della disabilità un tema trasversale a tutti i progetti. Stiamo lavorando per una sensibilizzazione maggiore di tutte le ONG sul tema e quando andiamo all’estero ad esempio come RIDS chiediamo sempre di incontrare tutte le ONG italiane che lavorano nel Paese per parlare loro di come si lavora sulla disabilità. La stessa Agenzia è interessata a promuovere la diffusione di questa competenza.
Tutte le foto sono di Julian Rizzon, ©Fondazione Don Carlo Gnocchi
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