Alessandro Rosina

Il futuro non invecchia, ma dobbiamo capire che è dei giovani

di Sara De Carli

Ci avviamo verso un mondo con sempre meno giovani e sempre più anziani. «La questione prioritaria da risolvere è quanto questo Paese crede nel proprio futuro e quale ruolo vuole assegnare alle nuove generazioni per contribuire a costruirlo. Dopo di che investiamo tutto quello che serve per consentire ai giovani di dare il meglio di sé in tale ruolo», afferma il demografo Rosina. Uno dei temi della copertina di questo mese

Come previsto, da un punto di vista demografico nel 2018 le cose in Italia sono andate malissimo. L’Istat ha appena certificato il fatto che siamo scesi per la prima volta sotto le 450mila nascite: 449mila, ossia altre 9mila in meno rispetto al precedente minimo storico registrato nel 2017. E dire che già ci sembrava di aver toccato il fondo quando nel 2015 il numero di nuovi nati era stato di 488mila bambini, il numero più basso di tutta la storia d’Italia, dai tempi dell’unità. In dieci anni (2008) risultano 128mila nati in meno, praticamente tutti gli abitanti della Valle d'Aosta. Il numero medio di figli per donna resta invariato a 1,32, ma l’età media in cui si diventa mamma per la prima volta tocca oggi la soglia dei 32 anni. Il saldo naturale nel 2018 è stato negativo (-187mila), il secondo livello più basso nella storia dopo quello del 2017 (-191mila). Nel 2018 si registra un nuovo aumento della speranza di vita alla nascita: per gli uomini la stima è di 80,8 anni, per le donne 85,2 anni. Ci avviamo verso un mondo con sempre meno giovani e sempre più anziani, ma il futuro – ricorda Alessandro Rosina – non invecchia. È questo il titolo che il professore di Demografia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha scelto per il suo nuovo libro (Vita e Pensiero): non invecchia a patto di stringere una alleanza tra le generazioni, valorizzando il potenziale di tutti i soggetti coinvolti, dall’infanzia all’età anziana, tenendo viva la tensione verso un futuro da costruire con fiducia. Il nodo decisivo di questo processo è la valorizzazione del potenziale delle giovani generazioni a cui andrebbe passato il testimone, riconoscendo davvero, attraverso adeguati percorsi formativi ed efficaci politiche del lavoro, il protagonismo che spetta loro di diritto. È uno dei temi che affrontiamo nella copertina di VITA di febbraio, dal titolo "Dalla parte dei bambini".

I dati sono noti e parlano di un declino ininterrotto delle nascite in Italia dal 2009. Voi demografi lo dite da tempo, anche se forse non ci si aspettava la velocità della discesa, frutto in particolare del rinvio della nascita di un figlio da parte di molte coppie negli anni della crisi, in attesa di tempi migliori, che ormai è diventata rinuncia definitiva per sempre più donne: probabilmente hanno ormai rinunciato a un figlio circa un quarto delle donne nate nel 1980. Questo più o meno il quadro. Ma cos’è che ci dicono esattamente questi dati? In che senso si tratta di un’emergenza? Perché non capiamo che davvero un Paese senza figli va verso un domani senza prospettive?
Possiamo sintetizzare le dinamiche negative della natalità in Italia e gli squilibri prodotti con cinque dati. Primo: le nascite di oggi sono meno della metà di quelle a metà degli anni Sessanta. Allora nascevano oltre un milione di bambini l’anno. Nello stesso periodo il numero medio di figli per donna è sceso da 2,7 a 1,3. Secondo: il numero di nati registrati nel 2018 è il più basso dall’Unità d’Italia in poi, compresi i due conflitti mondiali. Terzo: in altri Paesi questa diminuzione drastica non c’è stata. Ad esempio in Francia il numero medio di figli per donna è rimasto vicino a 2 (livello di equilibrio generazionale), con la conseguenza che l’ammontare delle generazioni nate nell’ultimo mezzo secolo risulta sostanzialmente stabile. Quarto: se si confronta il numero desiderato di figli tra ventenni italiani e coetanei europei i livelli sono del tutto simili e tale valore è in media attorno a 2. Questo significa che in Italia non solo si fanno meno figli rispetto alla media europea ma anche rispetto al numero desiderato dai giovani e dalle coppie italiane. Quinto dato: lo squilibrio strutturale della popolazione italiana è arrivato a livelli tali che oggi per la prima volta i nuovi nati sono meno degli ottantenni. Le persone residenti di 80 anni risultano infatti essere 482mila al primo gennaio 2018, contro 458mila nati nel corso del 2017. Se non si cambia drasticamente e urgentemente rotta questi squilibri porteranno ad una riduzione della popolazione attiva a fronte di un continuo incremento degli anziani, con conseguente rallentamento della crescita economica ed un aumento della spesa sociale sempre meno sostenibile.

Lo squilibrio strutturale della popolazione italiana è arrivato a livelli tali che oggi per la prima volta i nuovi nati sono meno degli ottantenni. Se non si cambia drasticamente e urgentemente rotta questi squilibri porteranno ad una riduzione della popolazione attiva a fronte di un continuo incremento degli anziani, con conseguente rallentamento della crescita economica ed un aumento della spesa sociale, sempre meno sostenibile

Qual è la sua valutazioni delle misure prese in legge di bilancio 2019 e del Reddito di Cittadinanza per arginare la bassa natalità e invertire la tendenza?
L’Italia sta andando da tempo nella direzione sbagliata e l’ultima manovra varata, purtroppo, risulta tutt’altro che un cambio di rotta. Nonostante tanta retorica, l’ultima legge di Bilancio offre ben poche speranze di una inversione di tendenza, visto che contiene misure che non cambiamo approccio e impostazione rispetto a quelle timide, occasionali e frammentate degli anni precedenti, come anche sottolineato dal Forum nazionale delle famiglie. Crescita della popolazione anziana e diminuzione della popolazione attiva continueranno quindi a caratterizzare in modo più accentuato il nostro Paese rispetto alle altre economie avanzate.

«Per far crescere il tasso di fecondità è necessaria la combinazione tra clima sociale favorevole e politiche davvero incisive e inclusive», ha detto più volte. Che cosa fare? È una domanda a cui avrà risposto decine di volte… Che succede se continuiamo a restare fermi alle analisi senza mai fare azioni concrete? C’è un punto di non ritorno?
A fronte di una manovra poco coraggiosa e incisiva sulle politiche familiari, ma in linea con il poco che si è fatto in passato, la situazione è però oggi ancor più grave. Il rischio è che chi ha congelato i propri progetti familiari durante gli anni acuti della crisi rinunci definitivamente. Inoltre la denatalità passata sta oggi riducendo le donne che entrano al centro della vita riproduttiva. Questo significa che anche lasciando inalterati i livelli attuali di fecondità le nascite tenderanno comunque a decrescere per via della diminuzione delle potenziali madri. Non si tratta di un punto di non ritorno, ma siamo entrati in una spirale negativa che si autoalimenta in assenza di interventi in grado di riposizionare verso l’alto le scelte di autonomia e formazione della famiglia delle sempre meno consistenti nuove generazioni. Che però questo non sia un destino ineluttabile lo mostra la Germania che, partendo da squilibri demografici peggiori dei nostri, ha invertito recentemente la tendenza. Ma ancor più la provincia di Bolzano. La ricetta è semplice: l’attenzione verso le nuove generazioni e le politiche familiari diventano una priorità, con impegno al continuo miglioramento; la cultura della conciliazione tra lavoro e famiglia è consolidata nelle aziende come valore condiviso, comprese le piccole imprese alle quali è fornito supporto qualificato per sperimentare soluzioni specifiche e innovative; l’offerta dei sevizi per l’infanzia è versatile e diversificata, stimolando anche l’iniziativa privata, ma con garanzia di qualità certificata dal pubblico. Quello insomma che serve all’Italia, più che togliere o aggiungere bonus e singole misure, è un approccio diverso, un cambio di paradigma sul modo in cui sono intese le politiche per le nuove generazioni e le scelte familiari.

Non si tratta di un punto di non ritorno, ma siamo entrati in una spirale negativa che si autoalimenta in assenza di interventi in grado di riposizionare verso l’alto le scelte di autonomia e formazione della famiglia delle sempre meno consistenti nuove generazioni.

Il tema della bassa natalità è un pezzo importante della questione, ma più in generale c’è in Italia il problema di un’intera generazione bloccata, a cui non viene dato spazio, che ha pagato più di altre il conto della crisi. E di un peso che stiamo caricando sulle spalle dei (pochi) bambini. Se il ruolo delle nuove generazioni è andare oltre il presente e il compito della società è incoraggiarle a farlo con strumenti adeguati, l’Italia che cosa sta facendo per questo?
L’Italia è carente di strumenti che negli altri Paesi avanzati consentono alle nuove generazioni di essere ben formate, ben inserite nel mercato del lavoro, ben valorizzate nel sistema produttivo, in modo da diventare il motore principale della produzione di crescita e benessere del Paese. L’unica cosa che i nostri giovani hanno in più rispetto ai coetanei degli altri Paesi è l’aiuto dei propri genitori, che però diventa spesso passivo e deresponsabilizzante. Ma – come scrivo nel mio libro – la mancanza di misure adeguate è soprattutto la conseguenza di un approccio culturale debole verso le nuove generazioni. I giovani non sono figli da intendere come costo privato a carico dei genitori, ma come bene pubblico su cui tutta la società ha convenienza a investire, dal punto di vista qualitativo e quantitativo, per costruire un futuro migliore. La questione prioritaria da risolvere è quindi quanto questo Paese crede nel proprio futuro e quale ruolo vuole assegnare alle nuove generazioni per contribuire a costruirlo. Dopo di che investiamo tutto quello che serve per consentire ai giovani di dare il meglio di sé – con gli strumenti più adatti e avanzati – in tale ruolo.

Photo by Anna Samoylova on Unsplash

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