Già Segretario Generale Aggiunto della Cisl confederale, politico di lungo corso, Pier Paolo Baretta è stato sottosegretario del Ministero dell’Economia e delle Finanze nei governi Letta, Renzi e Gentiloni, per i quali ha gestito i dossier più complessi. Oggi presiede ReS (Riformismo e Solidarietà), associazione che sta tentando una ricucitura del pensiero riformista, anche in vista delle prossime elezioni europee.
Una manovra a rischio
Per il Governo siamo alla prova del Def. Una prova difficile. Un suo giudizio tecnico e sociale?
La prima impressione è che si tratti di un azzardo. Nel senso che, prima ancora che l'Europa, il governo sta sfidando i numeri. Con una linea che, sul piano sociale, rischia di essere esclusivamente assistenziale.
Giudica negativamente questo punto?
Intendiamoci bene, l'assistenza è importante e, forse, uno dei limiti del precedente governo è stato mettere alla pari con altre questioni temi come la povertà e il disagio sociale. Ma dal punto di vista delle politiche di governo o questi provvedimenti sono accompagnati a una vera politica di espansione, che consenta di avere un'economia solida, oppure si tratta di una soluzione tampone che rischia di diventare un boomerang. Il governo sta, dunque, facendo un azzardo sui numeri per far fronte alle aspettative dell'elettorato. Ma questo, in sé, non è il problema. Si può condividere o meno il reddito di cittadinanza, ma l'approccio assistenziale non è in sé sbagliato. Il vero limite della manovra è che il reddito di cittadinanza rischia di essere l'unica misura individuata. Diventa una manovra elettorale per questo motivo.
Non vede altro nella manovra?
Dal punto di vista della struttura economica e della crescita e dello sviluppo, a oggi, non si vede niente. Il rischio è che l'impalcatura sia troppo fragile e non riesca a reggere il confronto con il quadro internazionale, con i mercati ad esempio, che non sono certo teneri.
Sul reddito di inclusione (REI), il Governo precedente aveva investito molto…
Il REI è stato un provvedimento molto, molto importante. Non a caso, anche nel dibattito delle attuali forze di governo, resta comunque un punto fermo. Il reddito di cittadinanza, per come lo intuiamo oggi, sembra un’espansione del REI.
Il REI, però, non era una manovra universalista…
Era agganciato a condizioni reali di disagio sociale, non era indifferenziato. Diventa rischioso il fatto che non si distingua più e si proceda con una sorta di automatismo. I presupposti devono essere sempre legati a un avvio al lavoro. Il lavoro deve essere il perno e il sostegno, l'innesco, altrimenti è rischioso.
Dove vede il rischio sociale più grande?
Nella non emancipazione. Il reddito di cittadinanza è una misura di emancipazione o no? Forse sì o forse no, ma con i forse non si fa molta strada. Per questo servono misure per permettere alle presone di emanciparsi, di formarsi, di crescere. Così si possono concretamente garantire autonomia e dignità. Bisogna insistere molto su questo passaggio. E bisogna insistere affinché un qualche criterio riequilibri logica assistenziale e logica lavorativa.
L'Europa non ha mai sciolto la riserva su ciò che vuole essere. Fino ad oggi, teneva però ben salda l'idea che il welfare fosse legato a una prospettiva di sviluppo. Oggi, il limite complessivo dell'Europa, quello che dà ai sovranisti il pretesto per attaccarla, è che, al di là dell'idea, non ha mai davvero deciso il proprio modello di crescita
Pier Paolo Baretta
Il reddito di cittadinanza, in questi anni, da strumento connesso alla jobless society è diventato un ibrido…
Negli ultimi dieci anni si sono sommati gli effetti complicati della globalizzazione che, da un lato, ha ridotto la povertà assoluta ma ha aumentato le disuguaglianze, dall'altro, questo fenomeno si è innestato in una crisi di sistema.
Tutto questo in un contesto continentale che, da qui a maggio, quando ci saranno le elezioni europee, rischia di essere altrettanto esplosivo…
L'Europa non ha mai sciolto la riserva su ciò che vuole essere. Fino ad oggi, teneva però ben salda l'idea che il welfare fosse legato a una prospettiva di sviluppo. Oggi, il limite complessivo dell'Europa, quello che dà ai sovranisti il pretesto per attaccarla, è che, al di là dell'idea, non ha mai davvero deciso il proprio modello di crescita.
Chi crede all'Europa deve cambiarla, ma dentro un modello e una prospettiva di sviluppo. L'Europa può essere addirittua l'antesignana di un nuovo modello di sviluppo. Non parlo solo di crescita e sviluppo, ma di inclusione. Amartya Sen ci ha insegnato che sviluppo e inclusione sono un'unica prospettiva
Pier Paolo Baretta
Lei cosa pensa a questo proposito? Va cambiata o ci attestiamo allo status quo?
Io penso che chi crede all'Europa deve cambiarla, ma dentro un modello e una prospettiva di sviluppo. L'Europa può essere addirittura l'antesignana di un nuovo modello di sviluppo. Non parlo solo di crescita e sviluppo, ma di inclusione. Amartya Sen ci ha insegnato che sviluppo e inclusione sono un'unica prospettiva.
Se fondiamo lo sviluppo sulla disuguaglianza e sull'esclusione, prima o poi ci si rovescia addosso. Non regge, perché la domanda sociale è molto forte. Sarebbe sbagliato pensare a un processo redistributivo senza accumulazione, ma è del tutto fuori dalla prospettiva possibile fondare una redistribuzione sulla disuguaglianza. Lo dimostrano le grandi tensioni del nostro tempo. Le forze di destra, paradossalmente, vincono proprio su questo problema irrisolto. Nel 2008, dopo la crisi, dovevamo pensare a un modello di sviluppo diverso, invece si è ricominciato con un'idea per la quale lo sviluppo prescinde dalla disuguaglianza. Al contrario, dobbiamo essere in grado di incorporare nell'idea di sviluppo il superamento delle disuguaglianze.
Liberismo, sovranismo o economia orientata al sociale
Liberismo, sovranismo… E nel mezzo la crisi della terza via…
L'esperienza ci dice che la linea liberista, quella che crede che il mercato si aggiusti da solo, non funziona. Ma neanche una linea tradizionalmente socialdemocratica, per la quale la redistribuzione viene prima di tutto, regge. Io credo che il tema della terza via, che al contrario di quanto si ritiene è stata snobbata in questi anni, andrebbe ripreso. Al di là delle etichette, è chiaro che abbiamo bisogno di pensare a un'economia sociale di mercato. Abbiamo bisogno di dare al mercato una prospettiva, ma all'interno di una visione sociale.
Non c'è alternativa, non si governa senza una struttura statale solida. Al tempo stesso, questo va detto, la burocrazia senza una forte struttura politica – forte anche della sua capacità di dialogo, ribadiamolo – è fredda e altrettanto sterile. La mia esperienza personale mi porta a dire che ci vuole pazienza: confronto, scelte, ancora confronto e ancora scelte. Sentirsi sempre alla pari, mai mostrare il fianco. Non sentirsi sotto, ma nemmeno superiori: ma questo è possibile solo se si matura competenza
Pier Paolo Baretta
Altrimenti?
Altrimenti non funziona lo sviluppo. A tutti coloro che ancora credono nella solidarietà e nella politica vera, dico che bisogna evitare di avere un atteggiamento perdente per forza. Oggi è chiaro che la maggioranza che governa gode di un forte consenso, però anche nei giorni scorsi abbiamo capito che la maggioranza dei cittadini non vuole uscire dall'Europa. Vuole cambiarla in meglio. Io penso che serva cambiare l'Europa per farne una migliore. I sovranisti pensano che non serva cambiare l'Europa, perché l'Europa è un albero malato e bisogna uscirne. Ma così facendo segano il ramo su cui tutti quanti siamo seduti. La differenza, quindi, è strategica: nessuno può pensare che l'Europa, così com'è, vada bene. Ma la prospettiva che una terza via dovrebbe assumere è radicalmente diversa. Le prossime elezioni europee non saranno quindi il confronto tra chi vuole lo status quo e chi vuole cambiare tutto. Ma tra chi vuole cambiare verso un'Europa finalmente inclusiva e sociale e chi crede che sfasciare tutto possa portare più vantaggio alla propria vis.
Eppure, oggi, tutto ciò che sta nel mezzo è sotto attacco. Dovremmo forse considerarlo più che un argine, come acceleratore di inclusione… Parlo della cosiddetta società civile. E dico "cosiddetta" perché, a forza di sentirla pronunciare e nominare o addirittura evocare dai balconi, sembra che di civile questa società di mezzo abbia conservato ben poco…
L'intera democrazia è oggi sottoposta a una riflessione di fondo. La democrazia è lenta, rispetto ai fenomeni economici accelerati che stiamo vivendo. Ma proprio per questa sua lentezza ha bisogno di una rete di rappresentanza e di rappresentanti molto forti. Credo serva una cittadinanza attiva, ma in una democrazia fortemente rappresentativa. I sindacati e le associazioni di rappresentanza degli imprenditori devono fare una forte riflessione su di sé, ma non c'è dubbio che l'intermediazione sociale è fondamentale. La disintermediazione è ciò che ci ha portati all'attuale confusione.
Corpi intermedi, Stato, deep state
Come uscirne?
Va pensata una rete di relazioni che, come dice lei, diventi acceleratore dei processi. Trovando un punto di equilibrio tra sviluppo e eguaglianza. Ma se si pensa che ci sia un canale diretto tra un qualsiasi leader e un presunto popolo in quanto tale si fa un errore di fondo. Un errore strategico, non tattico. La domanda volete Gesù o volete Barabba è sbagliata in sé.
Lei ha una lunga esperienza tanto dei corpi intermedi, quanto del cosiddetto Stato apparato. In termini generali, come legge le attuali polemiche sui tecnici del Ministero dell'Economia e delle Finanze?
Lo Stato è una macchina complessa, amministrarla è molto difficile. Richiede delle scelte e la prima scelta che un politico deve fare è provare ad essere competente. Penso che quello tra la politica e la burocrazia sia un rapporto che se diventa fertile permette di fare cose notevoli. La burocrazia, in Italia, ha una tradizione e una competenza straordinaria. La forza della politica sta nell'avere idee convincenti anche su questo piano, non solo sul piano del consenso elettorale. Il consenso popolare deve essere incanalato in idee convincenti e in una capacità di dialettica e discussione con corpi, come quello burocratico, che tutto sono fuorché estranei allo Stato. Io credo fermamente alla dialettica fra politica e burocrazia. Non c'è alternativa, non si governa senza una struttura statale solida. Al tempo stesso, questo va detto, la burocrazia senza una forte struttura politica – forte anche della sua capacità di dialogo, ribadiamolo – è fredda e altrettanto sterile. La mia esperienza personale mi porta a dire che ci vuole pazienza: confronto, scelte, ancora confronto e ancora scelte. Sentirsi sempre alla pari, mai mostrare il fianco. Non sentirsi sotto, ma nemmeno superiori: ma questo è possibile solo se si matura competenza.
Come orientare questo percorso?
Attraverso il processo dialettico trasparente. Il cuore del dibattito, molto delicato, a cui abbiamo assistito in questi giorni su tecnica e politica è un problema di trasparenza. Il confronto fra le linee politiche e le competenze tecniche deve essere conosciuto e conoscibile, tutte le ragioni devono essere spiegate e lo stesso cittadino deve aver chiare le ragioni che portano una parte della burocrazia e dei tecnici a sostenere posizioni che, giudicate con superficialità, possono apparire di mero contrasto. La democrazia è pluralismo e in quanto pluralismo è un gioco tra tanti soggetti in campo. La burocrazia è uno di questi soggetti. Serve capacità di sintesi, dove per sintesi intendiamo la forza di chi governa di affermare con la ragione le proprie buone ragioni. Non è un processo facile, ma l'arte di governare non è facile.
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