Dopo gli interventi di Alain De Benoist e di Marco Tarchi continuiamo il nostro percorso di indagine sul “momento populista”parlandone con Marcello Veneziani, una delle grandi voci della cultura contemporanea, che ci offre un’analisi di taglio culturale e filosofico sulla genesi, l’essenza e il propagarsi del fenomeno.
In Europa e Stati Uniti si sta assistendo ad una crescita esponenziale del populismo. Quali sono, a suo avviso, le radici culturali in cui attecchisce tale fenomeno?
Il populismo è un'onda che sorge dalla realtà e dal disagio più che dalla teoria e dall'ideologia, e s'ingrossa strada facendo come un magma, un flusso polimorfo. E' una ribellione all'establishment politico,culturale ed economico, al dominio del politically correct, ai danni prodotti dall'egemonia delle oligarchie finanziarie all'economia reale dei popoli e alla vita singola delle persone e delle famiglie. Ma ciò non significa che sia un fenomeno puramente irrazionale, barbarico, incolto, un basic instinct che fa riemergere uno spirito primitivo. Ci sono radici culturali vicine e lontane. Negli Stati Uniti, prima del fenomeno Trump ci furono letture culturali e sociologiche come quelle di Cristopher Lasch sulla ribellione alle élite o di Paul Piccone e di alcune fondazioni che elaborarono studi e formarono intelligenze. Ma c'è una linea nell'America profonda che si riannoda alla tradizione, allo spirito delle origini, alla difesa della religione, dell'amor patrio, della famiglia e sfocia nella risposta populista. In quell'alveo profondo si riconosce il filo conduttore culturale meno caduco del populismo, che annoda alla radice i vari populismi.
In Europa il populismo si carica delle esperienze culturali nazionaliste del passato, fino a lambire il fascismo. Ma il fenomeno populista si diffonde in ambiti molto diversi: il suo carattere nazional-populista poi si ritrova a fare i conti da un lato con movimenti radicali come quello di Tzipras, degli Indignados e da noi il Movimento 5Stelle e dall'altro col populismo evangelico di Papa Bergoglio.
Il populismo è un'onda che sorge dalla realtà e dal disagio più che dalla teoria e dall'ideologia, e s'ingrossa strada facendo come un magma, un flusso polimorfo. E' una ribellione all'establishment politico,culturale ed economico, al dominio del politically correct
Marcello Veneziani
Da molti autori l’Italia è definita “laboratorio del Populismo”. Quali sono le caratteristiche sociali e culturali che ne hanno favorito lo sviluppo?
L'Italia è stata un grande laboratorio del populismo sia che si consideri la sua storia del Novecento e in particolare l'esperienza del fascismo, ulteriore al socialismo e al liberalismo; sia che si consideri la fine del Novecento e l'esperienza berlusconiana, sulle ali della Lega e della destra nazionale. Per restare al nostro tempo, Berlusconi che oggi si presenta come l'argine ai populismi, è stato il primo populista europeo andato al governo per volontà popolare. La matrice antica dei populismi è cattolica, e si riassume nell'antico detto vox populi vox dei; il populismo ne è la versione secolare. L'idea che il popolo sia depositario di una verità che affonda nel sentire comune precede ogni teoria democratica sulla sovranità popolare e nazionale. A questa impronta si unisce un tratto spiccato dei popoli latini, mediterranei e degli italiani in particolare: quella tendenza alla ribellione, all'insorgenza, unita al desiderio di autorità, di un principe paterno e provvidenziale che possa decidere per tutti.
La matrice antica dei populismi è cattolica, e si riassume nell'antico detto vox populi vox dei; il populismo ne è la versione secolare. L'idea che il popolo sia depositario di una verità che affonda nel sentire comune precede ogni teoria democratica sulla sovranità popolare e nazionale. A questa impronta si unisce un tratto spiccato dei popoli latini, mediterranei e degli italiani in particolare: quella tendenza alla ribellione, all'insorgenza, unita al desiderio di autorità, di un principe paterno e provvidenziale che possa decidere per tutti
Marcello Veneziani
Cola di Rienzo ne è in qualche modo il paradigma classico. Secoli di dominazioni hanno alimentato questa doppiezza tra ribellione e sottomissione; l'esperienza dei comuni ha composto questo fermento in un'organizzazione civica. E una letteratura vasta, che delineò Asor Rosa nel libro Scrittori e Popolo, ha dato dignità di pensiero e di mito a questa tendenza
Che relazione sussiste tra populismo e post modernità?
Il populismo sorge sul collasso della modernità ma ne coglie le eredità, perché è effetto e risposta al tempo stesso all'individualismo di massa, tipico frutto della modernità. Il populismo sorge però sulle rovine delle ideologie della modernità – il liberalismo, il progressismo, il socialismo – e sui suoi agenti, come il partito, la casta intellettuale, l'apparato burocratico, la tecnocrazia. Ma non solo: il populismo sorge sulla disintegrazione sociale, l'imborghesimento dei ceti proletari e la proletarizzazione della borghesia, la perdita di status della piccola borghesia schiacciata tra le elites e i nuovi poveri (in primis i migranti, che hanno un ruolo essenziale per il coagularsi del fenomeno populista). Nel populismo si perdono gli argini che distinguevano la classe operaia, la classe intellettuale, i ceti medi; c'è una riduzione indistinta a quell'individualismo di massa che è poi il lascito sociale della modernità. Si può in questo senso parlare della postmodernità come del suo bacino anche se il tempo del populismo – come ho cercato di spiegare nel mio recente libro Tramonti. Un mondo finisce e un altro non inizia (Giubilei Regnani, 2017) – è l'epoca dell'odiernità, in cui cioè la dimensione temporale si è ridotta al momentaneo, al presente. E la vertigine e l'angoscia di questa riduzione della contemporaneità a estemporaneità, questa precarizzazione universale che rende tutto labile, effimero, alimenta il rifugio nel ventre caldo e corale del populismo.
Nel populismo si perdono gli argini che distinguevano la classe operaia, la classe intellettuale, i ceti medi; c'è una riduzione indistinta a quell'individualismo di massa che è poi il lascito sociale della modernità
Marcello Veneziani
Che relazione intercorre tra il populismo e quella che lei ha definito, in uno dei suoi libri più fortunati, La rivoluzione conservatrice in Italia?
A voler semplificare, potremmo dire che la rivoluzione conservatrice sia il populismo nella sua consapevolezza più alta, il populismo che assume coscienza storica e civile di sé e si accorge che per attraversare la linea della modernità occorre saper portare a sintesi la tradizione e l'innovazione. La rivoluzione conservatrice di cui scrivevo io trent'anni fa era il frutto di quel che allora definì come l'ideologia italiana, ovvero un tratto specifico della cultura italiana che ripensa lo spiritualismo politico, l'eredità cattolica e la volontà di nazione nell'epoca delle masse e degli individualismi. La rivoluzione conservatrice è un populismo che assume coscienza comunitaria, riconosce radici al suo lievito, e si riconduce a una visione e a una cultura. E ripensa al punto debole del populismo: l'abisso che si apre tra il capo carismatico o provvidenziale e il popolo. Un vuoto da colmare. Per farsi proposta culturale, politica e sociale, l'onda populista ha bisogno di riconoscere un'élite di riferimento, un'aristocrazia che diventi classe dirigente e che guidi la rivoluzione conservatrice.
Altrimenti sfocia nella demagogia inconcludente, e perde i suoi tratti smaglianti che l'avevano caratterizzata quando era movimento d'opposizione per farsi al governo una mediocre pratica del compromesso di basso profilo, appena condita da esibizioni tribunizie. Sono questi i pericoli preminenti del populismo odierno, più che una involuzione autoritaria o addirittura dittatoriale.
Quali le differenze tra il populismo di Berlusconi, Grillo e Salvini, assunti a casi di studio dai cultori del fenomeno?
Il populismo berlusconiano ha due ambiti originari di riferimento: lo sport e la tv, il suo popolo è il pubblico, la sua politica è la continuazione dello spettacolo in altri modi, il suo plebiscito è l'audience, il suo governo è la squadra che scende in campo. Ma per farsi politico, il populismo berlusconiano accede al linguaggio, ai riti e ai simboli del populismo seppure in questa dimensione. Egli stesso si presenta attraverso un racconto confidenziale a lieto fine, come la gigantografia dell'italiano comune e il seduttore del popolo. Grillo cavalca invece la scontentezza, non c'è ottimismo ma rivolta contro la catastrofe; il suo canale espressivo parte anch'esso dalla tv, da cui sorge la sua notorietà e il suo primo seguito, ma cresce con la rete, con il popolo di internet, con qualcosa che sta a metà strada tra i social e scientology. Perché poi il populismo grillino, al di là delle declamazioni rousseauviane, è diretto da un ristretto gruppo, procede per campioni minuscoli elevati al rango di volontà popolare. E' un populismo non solo antipolitico ma anche antistorico, nel senso che rifiuta ogni eredità, afferma la sua estraneità rispetto a ogni tradizione e presenta il suo punto di forza in una specie di purezza incontaminata.
E Salvini?
Il populismo di Salvini è invece quello che aspira a darsi una storia: partito dalla mitizzazione di un'entità favolosa come la Padania, si è poi allargato a una dimensione di populismo nazionale, fondato sulla sovranità e sul conflitto d'interessi e valori tra i popoli e le oligarchie transnazionali, tra vita reale dei popoli e l'assetto contabile degli stati, tra la gente e lorsignori. Riprende per certi versi alcune tematiche che furono della sinistra di un tempo, quelli del basso contro quelli che stanno in alto, e li coniuga a temi che furono del nazionalismo di destra, noi contro loro, prima gli italiani, poi gli stranieri. Sono tre populismi diversi, difficili da far convivere: il primo è più duttile e pragmatico, il secondo è più integralista e salvifico, il terzo più identitario e “territoriale”. C'è po
i un quarto semi-populismo, quello della destra nazionale e sociale, che oggi si esprime soprattutto con la Meloni, e deriva dalla tradizione nazional-populista del novecento. Ai populismi manca una visione culturale in grado di trasformare il conato populista in movimento comunitario.
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