L’economia dei paesi sviluppati ristagna. Al contempo, l’aumento del prezzo delle materie prime e dei beni di prima necessità ha alterato gli equilibri geopolitici non solo in Egitto e nel Maghreb, ma in tutta l’Africa. La vera crisi, che il mainstream dichiarava alla nostre spalle dopo l’effetto domino dei mutui subprime, probabilmente non è ancora arrivata. Eppure, anche in queste condizioni, viene da chiedersi se una crisi, una vera crisi, non possa diventare una buona notizia e, forse, l’unica vera notizia in una situazione che non pare offrirne altre, nel deserto di un’Europa lastricato di buone intenzioni, ma nulla più.
Per Serge Latouche, professore emerito di scienze economiche all’Università di Paris-Sud, principale ispiratore del movimento per la «decrescita serena» la risposta è evidentemente affermativa. Se “crisi” implica l’apertura di soglie, di varchi, di possibilità d’uscita da quello che, nei suoi scritti, descrive come un vero e proprio «totalitarismo del consumo». L’immaginario, osserva Latouche, deve essere decolonizzato, liberato da quella «megamacchina» che, con le sue frontiere, la sua burocrazia e il suo incedere tecno-economico tende a bloccare ogni alternativa possibile all’economia di mercato, vedendo in una crisi solo conflitti e catastrofi, mai opportunità per quel salto di paradigma che tutti reclamano, ma che pochi – forse – hanno il coraggio di rivendicare davvero.
Siamo governati da un’oligarchia mondiale, da una megamacchina funzionale alla società della crescita globalizzata. Una macchina che dà l’impressione di essere compatta, decisa e precisa, quasi monolitica. Ma non lo è
Serge latouche
Come uscire da una società che non solo “consuma”, ma sulle dinamiche di consumo ha orientato oramai quasi ogni sua politica pubblica? Serve uno shock?
È un’uscita, non una semplice deviazione. Come tale non può configurarsi altrimenti che nella forma della rottura. Sì, abbiamo bisogno di uno shock, di un urto drastico, radicale. Non si tratta pertanto di contrapporre a un modello “malato” di sviluppo un altro modello che presupponiamo o pretendiamo essere di sviluppo “virtuoso”, buono, moderatamente più equo o giusto. Bisogna scartare di lato, cambiare il software mentale, rovesciare il paradigma che informa le nostre esistenze. Al punto in cui siamo giunti, sembreremmo avviati verso una inevitabile catastrofe.
È davvero così? In fondo, parlare di catastrofe oggi è un molto à la page, ma nessuno sembra crederci davvero…
Gli antichi greci vedevano nella catastrofe la naturale – ma non per questo inevitabile – conclusione della tragedia. La catastrofe era conseguenza di un sentimento di sfida, di tracotanza, di supponenza da parte dell’eroe. Noi sappiamo, però, che non è mai un determinismo cieco a guidare il corso degli eventi. Esiste sempre un’altra possibilità, c’è sempre una breccia, un varco, un’occasione da cogliere a tempo debito (i greci stesso parlavano di kairos). La casualità degli avvenimenti può aprirsi a imprevedibili e non infausti orizzonti.
Perché non siamo ancora usciti da questo vicolo cieco, allora?
Siamo diventati dei tossicodipendenti. Abbiamo paura di perdere, abbiamo timore di cercare, deleghiamo tutto agli esperti, non sappiamo vedere l’altrove che è già qua, in un salto di paradigma tanto necessario quanto inevitabile. Non abbiamo paura di subire ciò che subiamo, ma temiam anche il più piccolo passo in direzione del cambiamento. La nostra dipendenza dai consumi è una vera e propria intossicazione, in parte volontaria, in parte involontaria Anche se intuiamo o a livelli più profondi elaboriamo la necessità di uscirne, la cura disintossicante non è una cosa da poco e non è, soprattutto, cosa facile. Richiede uno sforzo serio, presuppone l’esperienza di un limite. A livello individuale, tanti sono oramai persuasi della necessità di uscire dalla società dei consumi, ma è una questione che trascende il singolo. O meglio: li riguarda, li comprende, ma è poi a livello di sistema che le cose si giocano nella loro radicalità complessa. Credo che il timore della catastrofe o la minaccia della morte possa comunque imprimere al tutto una deviazione inedita e imprevista. Quello che gli antichi chiamavano clinamen, la deviazione improvvisa di atomi che, nella loro caduta, si incontrano…
Segni di questa caduta che unisce, di questo clinamen cominciano però a intravvedersi. Sono spaccature o brecce che si insinuano persino nell’immaginario di un’Europa che si sente e si crede sempre più “assediata”, dentro e fuori i suoi confini.
Però l’Europa è un progetto tutto, ma proprio tutto da ricostruire. E da ricostruire dal basso. Esistono ovunque resistenze allo spirito del tempo. Pensiamo alla Tunisia, all’Egitto, alla Libia e riflettiamo soprattutto sull’immagine che ci eravamo fatti di questi paesi. Avremmo mai immaginato, solo alcuni mesi fa, che sarebbe successo quello che è successo – e ancora sta succedendo e ancora succederà – sulle sponde del Mediterraneo? Molte persone si sono oramai convinte che si vivrebbe meglio, vivendo altrimenti. In Egitto e in Tunisia la gente ha ripreso la parola. Si sono ritrovate nelle piazze, per partecipare, per chiedere, per contare. Non solo per mendicare un pezzo di pane o di potere. Per contare, per scegliere, per parlare, per cogliere l’attimo propizio alla svolta.
Crede che i governi se ne rendano conto?
Siamo governati da un’oligarchia mondiale, da una megamacchina funzionale alla società della crescita globalizzata. Una macchina che dà l’impressione di essere compatta, decisa e precisa, quasi monolitica. Ma non lo è. La crisi attuale è interessante, da questo punto di vista. Nel 2008, dopo il crack della Lehmann Brothers, con il più grande fallimento nella storia degli Stati Uniti e probabilmente dell’intero Occidente, la megamacchina ha percepito che il sistema era fragile. I governi hanno quindi immesso in quel sistema, a seconda delle fonti, tra i 14.000 e i 24.000 miliardi di dollari: una somma immane, che rappresenta un terzo del prodotto interno lordo mondiale. Nonostante queste misure, sono convinto che tra poco assisteremo a una crisi se possibile ancora più grande. Ecco il clinamen, ecco la possibilità, ecco la breccia che ci si apre per rendere “meno fatale” il nostro destino. Poco importa, a questo punto, se i governi se ne renderanno conto. Saremo pronti, noi, a cambiare le nostre vite? Se la sapremo cogliere questa sarà un’enorme opportunità per svoltare. Ci faremo sedurre ancora una volta dalle sirene del mercato? Le oligarchie tenteranno nuovamente di indirizzare il tutto, a seconda dei loro interessi, che sono interessi di pochi. Saremo pronti, stavolta? Pronti per cambiare, per uscire da una società dei consumi sempre più consunta e logora? Siamo pronti per cambiare i nostri governi e imprimere all’economia globale un nuovo corso? Pronti per una comunità più giusta e più umana?
Si aprirebbe un periodo di austeritas, per riprendere un concetto caro a Ivan Illich. Citando San Tommaso, infatti, Illich ricordava come Tommaso indicase nell’austerità una virtù capace di non escludere indiscriminatamente tutti i piaceri, ma solo quelli che degradano o ostacolano le relazioni personali.
Preferirei non ricorrere al termine austerità. La parola è oramai entrata nel lessico dei tecnici e degli economisti di governo che con essa, ovviamente, intendono indicare i sacrifici imposti a una parte, e solo a una parte. della popolazione. Ovviamente, l’austerità degli economisti e dei burocrati è cosa ben diversa come la intendevano Illich e Tommaso d’Aquino. Per sottrarci all’ambiguità, propongo un altro termine alla nostra discussione: frugalità. Il progetto della decrescita potrebbe essere descritto così: è il progetto di costruire una società di abbondanza frugale. Sembra una provocazione, ma non lo è. La nostra società, la società attuale è tutto, fuorché una società dell’abbondanza. I pubblicitari lo sanno bene: la gente felice non consuma. Per il consumo sfrenato è necessario creare un terreno di generale frustrazione. Il sistema deve creare un deserto di continue frustrazionio, sostituendo al desiderio tanti piccoli godimenti, tante pulsioni che indirizzino al consumo. Se siamo invece capaci di autolimitarci, possiamo trovare forme di abbondanza dentro la frugalità. Mettiamola in questi termini la frugalità è una condizione dell’abbondanza.
Questa frugalità lei la descrive come liberamente scelta, non passivamente subita. Coincide dunque con una rinuncia guidata da consapevolezza e libertà?
Per decrescere bisogna decredere, abbandonando il falso idolo del benessere in favore di un «ben vivere». Poiché, come ricordava Aristotele, la scienza della buona vita, della gioia di vivere, non è l’economia, ma semplicemente l’etica. La via delle decrescita è per l’appunto un’etica ha nel dono il proprio fondamento. Ivan Illich, che nel mio libro è a più riprese evocato, parlava della necessità di praticare un «tecnodigiuno». Non perché computer, tablet, telefonini e tutti gli aggeggi elettronici che ci circondano e ci facilitano la vita non siano in sé utili o belli. A volte ce la complicano, a volte no. Anche qui, però, dobbiamo però mettere un limite a tutto, anche al nostro desiderio di onnipotenza tecnologica. Per dimostrare che siamo capaci di rinunciare. Dovremmo praticare una sorta di ascesi, un’etica frugale, di semplicità. Un tecnodigiuno etico, per ritrovare le nostre radici
Quali radici?
Radici che precedono il Rinascimento, il capitalismo e la società mercantile. Radici plurime, greche, latine, arabe, persino pagane. Non si tratta, ovviamente, di regredire, ma di innovare radicando, di radicarsi nella contemporaneità raccogliendo i frutti migliori del passato. Il senso dell’ospitalità mediterranea, lo spirito del dono, l’amore per la comunità sono risorse che ci vengono dal passato e ci permettono di uscire dalla mercificazione del mondo. Attenzione, però. Quando parlo di comunità, intendo comunità di persone, non di individui intesi in quanto atomi sociali. Il filosofo Cornelius Castoriadis parlava a questo proposito di autonomia. L’autonomia, ricordava Castoriadis, non esclude la comunità. Persone dotate di una vera autonomia non temono la vita in comune. Al tempo stesso, una vera comunità non può ostacolare l’autonomia dei suoi membri. Aristotele affermava che la base della città non era l’interesse personale, ma la philia, l’amicizia.
Crede sia ancora possibile? Non è rischiosa questa aspirazione al ritorno alla comunità?
Una società che ha conosciuto l’individualismo, e in particolare l’individualismo sfrenato, non può può più tornare alla comunità come la concepiva e viveva Aristotele. Ma una forma di comunità nuova può riaffermarsi. Ivan Illich individuava il fondamento di questa comunità non più nella philia in senso forte, ma nella convivialità, che è una philia leggermente più debole. Partirei da qui, da una convivialità rinnovata. E che rinnova.
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