Le parole del papa – non solo di Francesco, ma anche dei predecessori – le aveva ascoltate tante volte. Per lavoro (è stata per oltre vent’anni la vaticanista del Tg5), in piazza san Pietro c’era già stata mille volte.
Ma lo scorso 4 settembre, le parole del pontefice che canonizzava Madre Teresa sono risuonate nuove e insieme incancellabili alle orecchie di Marina Ricci, giornalista romana oggi in pensione ma ancora attivissima, che dalla santa di Calcutta ha ricevuto un dono assolutamente unico: suo figlio Govindo, il quinto, adottato in India (ma lei preferisce dire “concepito nel cuore”) nel corso di un viaggio di lavoro e scomparso nel 2010 a Roma causa della grave malattia degenerativa di cui soffriva dalla nascita.
A quel bambino, che tutti in famiglia chiamavano Gogo, Marina ha dedicato un libro commovente che si legge tutto d’un fiato – Govindo il dono di Madre Teresa (San Paolo) – oltre a notti insonni, pensieri, dubbi, risate, lacrime ma soprattutto tanto, tantissimo amore. «Il titolo che avevo in mente era un altro», racconta oggi Marina riannodando il percorso di dodici anni unici, aiutata da una delle sue irrinunciabili sigarette. «Avevo pensato a: “Govindo, o dell’Amore”, come i trattatelli didascalici di una volta. Perché, anche se non sapeva parlare se non con gli occhi e col sorriso, mio figlio mi ha insegnato tanto. È stato un maestro».
Partiamo dall’inizio. Com’è che una giornalista in carriera come te, con già quattro figli naturali, decide all’improvviso di adottare un piccolo indiano disabile?
Questa storia mi si è srotolata davanti come il disegno di qualcun altro. Tutto è successo in modo così inaspettato e insieme naturale, che è difficile da spiegare. Lo scrivo anche nel libro: è stata una specie di complotto. Comunque. Era il novembre del 1996 e Madre Teresa si era ammalata, soffriva di cuore, e il mio direttore Enrico Mentana mi aveva mandato a Calcutta a seguire gli sviluppi della situazione. Il primo impatto con la città, che Kipling ebbe a definire «la città tremenda», non fu dei migliori: lo scrittore inglese aveva ragione. Calcutta dà repulsione, quasi nausea. E io non facevo eccezione.
Vedere le consorelle di Madre Teresa accogliere tanti bambini orfani mi fece desiderare di adottarne uno. Ma lo sguardo di una suora mandò in pezzi le mie buone intenzioni
Insomma non ti piacque per niente?
Per niente. Ma lo shock da disgusto si tramutò in shock da tenerezza quando entrai in una delle case di Madre Teresa: vidi queste donne in sari bianco e azzurro girare in silenzio tra i letti dei moribondi e degli ultimi tra gli ultimi, dei poveri, dei bambini malati, senza alcuno scopo se non quello di farli sentire accolti e amati. Fu un trauma positivo, che mi provocò una reazione immediata: volevo aiutare uno di quei bambini, portarlo via con me. Tanto che telefonai a mio marito e gli parlai della mia intenzione di adottare… a pensarci adesso ho la sensazione di essere stata un po’ matta.
E lui?
Stranamente non si oppose, non cercò di farmi ragionare. Insomma non disse di no, e io lo presi come un sì. Tanto che corsi dalla suora che si occupava di adozioni e le dissi che volevo prendere un bambino.
E lei?
Mi colpì molto il suo sguardo, tra il duro e l’ironico. Indicò una pila di faldoni, documenti di aspiranti genitori adottivi, e mi disse che per adottare quei bambini c’era la fila. Insomma, mi ributtò in faccia le mie buone intenzioni di cattolica occidentale: non aveva nessun bisogno di me.
E tu?
Ci rimasi male. Confesso, pensai: ma guarda questa…. Piccata, risposi: non importa, tanto io ho già quattro figli. Se ha quattro figli, riprese lei, il Signore le chiede qualcosa di più: prendere un bambino che nessuno vuole. Capii subito che cosa intendeva: mi stava invitando ad adottare uno dei bambini disabili che avevo già visto poco prima, in una stanza attigua. In particolare uno, piccolo e molto malmesso, mi aveva colpito: era Govindo, anche se io non lo sapevo.
Cosa hai fatto, quindi? L’hai preso?
Macché. Sono scappata via farfugliando delle scuse, e cercando di schivare i frammenti delle mie buone intenzioni andate in pezzi. Peccato che ero già rimasta incinta…
Scusa?
Noi donne siamo capaci di un evento straordinario: il concepimento nel cuore. Io avevo visto quel bambino, e mentre dicevo alla suora che non potevo adottarlo, ce l’avevo già in mente. È stato lui a chiamarmi, a volermi, nonostante me. È vero: si può concepire nel cuore e amare profondamente un figlio che non hai generato dal tuo grembo, ma che paradossalmente ti genera, cioè ti cambia. Ti entra nel cuore, allargandolo. Non diventi più buono, almeno io non sono diventata più buona, anzi. Mi sono solo scoperta capace di un amore più grande, senza misura. È bastato un attimo, ma non potevo più prescindere da quello che mi era capitato.
Si può concepire nel cuore e amare profondamente un figlio che non hai generato dal tuo grembo, ma che paradossalmente ti genera, cioè ti cambia. Ti entra nel cuore, allargandolo
Così sei tornata sui tuoi passi, e Govindo è entrato a far parte della vostra famiglia, nonostante tutti i suoi problemi di salute. Come è andato il ritorno a Roma?
Ci sono stati due piani distinti. Da una parte i parenti e gli amici preoccupati che ci riempivano la testa di buoni consigli. Ci dicevano “come farete, siete fuori tutto il giorno, e poi il lavoro, la carriera, gli ospedali….”. Dall’altra c’erano i miei figli, che hanno fatto il loro mestiere di bambini: le tre sorelle grandi erano entusiaste, mio figlio Luigi, che aveva allora sette anni, uno in più del nuovo arrivato, era geloso come tutti i fratelli normali. Mi hanno aiutato molto, facendomi dimenticare velocemente com’era la vita prima di Govindo. E mi hanno fatto capire una cosa: che il peggior nemico di noi mamme è il pensiero.
Cosa intendi?
È sbagliato continuare a pensare che succederà, ce la farò, come reagirà, non capirò, non capirà. Non bisogna pensare, bisogna vivere. Ora per ora, minuto per minuto. Ringraziare Dio del giorno che è trascorso, chiedendo la forza di affrontare quello successivo. È meglio vivere che pensare.
Govindo è morto nel 2010 a 18 anni, un ragazzo in un corpo da bambino. Sapevate dall’inizio che la sua malattia non gli avrebbe permesso di diventare grande?
Sapevamo che era malato, ma i dettagli, compresa l’aspettativa di vita, ce li hanno detti qui in Italia. In ogni caso, dentro di me era tutto chiaro: non lo adottavo per guarirlo, ma per volergli bene, per dargli un padre e una madre e permettergli di vivere dentro a una famiglia. Scalcinata, inadeguata, ma una famiglia. Volevo solo che avesse un tappeto tra sé e il pavimento.
Te la senti di ricordare i giorni più difficili, quelli successivi alla sua morte?
Quando Govindo è morto ho reagito come qualsiasi madre che perde un figlio: sono stata malissimo. La differenza è stata forse la consapevolezza che lui non mi era mai appartenuto, perché era sempre stato un dono, e che la nostra storia non poteva finire: per questo ho la speranza di poterlo un giorno riabbracciare. È stato Dio a metterci insieme, e Lui avrà l’ultima parola su di noi.
Come questa storia con Govindo ti ha cambiato?
Non so se mi ha cambiato; sicuramente mi ha lasciato la coscienza della mia incapacità. Il cambiamento è stato capire che da soli non si va da nessuna parte, e che l’unica cosa da fare è dire sì quando Dio ti tende una mano. Questo bambino è stato per me la possibilità di una conversione, nel senso di un cambio di guardo nei confronti della vita e delle persone. Con il passare degli anni accade che il desiderio d’amore e di felicità che domina la giovinezza si rattrappisca, si atrofizzi. A Calcutta, vedendo Govindo si è riacceso in me quel bisogno, quel desiderio di pienezza: per questo ho detto sì alla proposta di prenderlo con me. È bastato quel semplice sì per riaccendere il mio cuore. Non pretendo che per tutti sia la stessa cosa, ma sicuramente nella vita di tutti accadono fatti che hanno il potere di riaccendere il desiderio del cuore. Basta seguirli, e la vita cambia.
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