Farsi voce delle minoranze, nella consapevolezza che esse rappresentino una ricchezza. Questa potrebbe essere definita la mission delle professoressa Emanuela Del Re, specialista di Medio Oriente, Balcani e Caucaso, direttrice e fondatrice di Epos, agenzia operativa internazionale di mediazione e negoziazione, oltre che ideatrice del progetto per i rifugiati siriani My Future, realizzato con il contributo anche del ministero degli Affari esteri.
Nell’intento di dare voce alla comunità cristiana irakena e a quella yazida Emanuela Del Re sul canale Youtube di Epos presenta una serie di documentari e filmati che cercano di mostrare accanto alle iniziative in corso con il progetto anche la vita di queste minoranze prima e dopo gli attacchi di Daesh e soprattutto facendo parlare i diretti protagonisti, i cristiani e gli yazidi.
«Cerco sempre di veicolare nelle mie ricerche la voce delle persone per far sì che siano loro stesse a raccontarsi, evitando le interpretazioni del loro pensiero» spiega Del Re. «Il mio interesse, infatti, è quello di far trasparire la realtà nel modo più diretto possibile».
Professoressa Del Re (a sinistra nella foto) perché ha scelto di puntare l’obiettivo sulle minoranze?
Non l’ho fatto per etnocentrismo. Per molti oggi queste minoranze sono importanti perché sono al centro di fatti eclatanti. Ma quando si osserva la realtà parlare di queste popolazioni è fondamentale perché aiuta a comprendere il valore della diversità, aiuta a capire come si dovrebbe muovere la maggioranza. I gruppi minoritari non sono folklore, ma sono realtà sociali come le nostre e ci aiutano a capire noi stessi. Anzi, le nostre società senza la presenza delle minoranze andrebbero alla deriva perché perdiamo di vista l’altro, il diverso da noi.
Come realizza i suoi documentari?
Mi reco sul posto, la mia è una ricerca sul campo e cerco sempre di partecipare da dentro agli eventi e per esperienza mi accorgo che questo modo di procedere provoca empatia. Partecipo agli eventi, alle feste, ai momenti storici, partecipo anche delle difficoltà e cerco di farmi tramite delle istanze e delle circostanze delle persone che vado a rappresentare. Credo che in questo modo chi riprendo si fa voce di quello che accade e chi guarda i documentari è invitato a farsi una sua idea propria. Cerco di dare la sensazione di penetrare in quel modo.
Nel suo documentario sui cristiani dell’Iraq, rifugiati nel Kurdistan irakeno copre un ampio arco di tempo (agosto 2013 – giugno 2015), si passa dalla speranza dell’inaugurazione di una nuova chiesa, alla disperazione nei campi rifugiati e dalle testimonianze emerge in modo vivo il dramma della persecuzione.
Attraverso i telegiornali arrivano spezzoni di verità. Ma troppo spesso si rappresenta il dolore senza spiegarne l’origine. Ed è importante capire da dove arriva e quali sono le conseguenze reali per chi sta vivendo questo dolore e disperazione
Arrivare in questi luoghi non è molto semplice…
Il difficile non è tanto recarsi in questi luoghi, ma creare delle relazioni che abbiano un senso profondo e che possano aiutare a comprendere la realtà. Per questo il mio lavoro richiede tempi lunghi e anche un impegno emotivo oltre alla difficoltà di entrare in punta di piedi nella vita degli altri. Se mi guardo indietro mi rendo conto di aver trascorso moltissima parte della vita in zone di conflitto.
La sua tecnica di lavoro consiste innanzitutto nell’ascolto?
In un certo senso sì, ma anche in un modo diverso di rappresentare la realtà. Ho iniziato a studiare la situazione di cristiani, Yazidi e Shabak prima dell’arrivo di Daesh. Ho un’esperienza più che ventennale perché tendo a voler conoscere queste popolazioni anche nei momenti positivi. Non a caso il mio documentario sui cristiani ora rifugiati nel Kurdistan irakeno inizia prima della grande crisi conseguente all’arrivo dello Stato Islamico e come tutti quelli che studiavano in modo approfondito l’area ero consapevole della loro importanza, come di quella delle altre minoranze per il Medio Oriente. Dopo l’arrivo di Daesh questi argomenti sono stati molto frequentati. Io ero in grado di monitorare i cambiamenti, nei documentari si vedono i cambiamenti nello sguardo delle donne, prima erano sorridenti, poi costernate.
Nel documentario “La festa negata” al centro dell’attenzione vi è la popolazione yazida e il filmato è stato ripreso al tempio di Lalish, definita la Mecca dello Yazidismo. Perché l’ha intitolato in questo modo?
Il fatto è che già prima dell’arrivo di Daesh nel 2014, nel 2013 la festa era stata cancellata per motivi di sicurezza. Dal video emerge una situazione molto complicata anche se si può definire positiva perché si vive in un’apparente tranquillità, ma emerge la precarietà della vita e solo pochi mesi dopo vi è stata la vera persecuzione.
Con il progetto My Future lei però non si ferma allo studio accademico delle minoranze. Si occupa direttamente di aspetti di cooperazione. Perché?
Considero la vita dell’accademico non solo contemplativa, alla fine per me è importante dare un contributo, da un lato con Epos, il cui nome si ispira all’epica, alla narrazione che è un’agenzia, ma con My Future cerchiamo di dare un contributo alla ricostruzione delle società. Il nostro campo d’azione sono i rifugiati all’interno dei loro stessi Paesi e in quelli vicini. Ma all’azione sono interessati anche i membri del Paese di accoglienza. Ai vertici del triangolo ci sono l’accoglienza, i servizi e i contributi. Al centro abbiamo sempre la persona.
Quale è il vostro obiettivo?
Offrire ai rifugiati nei campi profughi l’opportunità di ricostruirsi una visione del futuro cogliendo l’occasione di vivere in un mondo globalizzato. L’idea è quella di far nascere un movimento con il coinvolgimento delle comunità e smuoverle dalla noia e dall’apatia, l’annichilimento della volontà che assale le persone. La formazione non è finalizzato solo alla capacity building, ma anche a disseminare principi, nozioni e pratiche che sono alla base della società civile, per una coesistenza pacifica e per fare riconciliazione.
Il nostro non è un intervento spot e a oggi abbiamo formato e professionalizzato circa 6mila persone, tra i 18 e i 35 anni, soprattutto in Iraq e poi in Europa e Giordania rivolgendoci ai rifugiati siriani. Il nostro prossimo passo è realizzare i nostri corsi in Siria nei campi per i rifugiati interni. I nostri corsi sono rivolti anche a formare tutor ed educatori nelle emergenze
Il problema rifugiati in Italia e in Europa è vissuta come un’emergenza…
È una questione da affrontare tenendo conto delle diverse istanze che ogni persona porta con sé. Ci sono quelli che hanno perso ogni speranza, una premessa da fare è che nessuno vuole andarsene, noi siamo parlando di rifugiati obbligati Ci sono poi quelli che sono consapevoli che venire in Europa non è la soluzione ma tentano la sorte e ci sono quelli che nonostante la situazione non vogliono andarsene dal proprio Paese, vogliono rimanere per non perdere la propria identità.
Stiamo parlando di minoranze, di una parte di popolazione che è sempre stata minoritaria nei Paesi del Medio Oriente…
E infatti le migrazioni non sono dovute solo all’avanza di Daesh, ma è un problema generalizzato. Stiamo parlando di popolazioni come gli Yazidi e i cristiani che sono lì da duemila anni. Per esempio i cristiani iracheni hanno sempre avuto difficoltà e continuando a non avere speranze e a non avere possibilità di accedere a posizioni migliori e di leadership puntano a emigrare per avere delle opportunità di vita diversa. Il nostro atteggiamento ci porta a parlarne nella emergenze, ma è un problema cronico che è peggiorato con gli anni 2000. Basti pensare che i cristiani in Iraq erano 1 milione e mezzo nel 2003, nel 2015 erano rimasti in circa 800mila.
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