In Italia c’è una «congiura del silenzio» sugli affidi sine die. I servizi vanno ripetendo che l’affido è uno strumento temporaneo, ma nella realtà in Italia il 60% degli affidi è sine die: sono affidi che non terminano mai perché non ci sono le condizioni per un rientro dei minori nella loro famiglia di origine. Lo si sa, eppure tutti fanno finta di nulla. Mentre questi bambini, questi ragazzi e queste famiglie avrebbero il diritto di non vivere in una condizione di perenne precarietà. Marco Chistolini, psicologo e psicoterapeuta, lavora da molti anni su affido e adozione e ha ora deciso di esporsi in maniera esplicita contro questa situazione. L’ha fatto con il libro “Affido sine die e tutela dei minori. Cause, effetti e gestione” (edizioni FrancoAngeli), che sta destando molto dibattito fra gli addetti ai lavori.
Dottor Chistolini, la provocazione qual è? Dinanzi al fatto che in molti casi, se si è onesti, già si sa che l’affido sarà sine die, tanto vale dichiararlo e quindi in qualche modo “istituzionalizzarlo”?
Al contrario. Io sono contro gli affidi sine die, che per me dovrebbero tutti o quasi trasformarsi obbligatoriamente in adozioni. La provocazione è innanzitutto quella di dirci che ci sono numeri elevatissimi di affidi sine die in Italia e che questo dato di fatto non è casuale né è conseguenza solo del mancato lavoro di recupero sulla famiglia di origine, ma è piuttosto il riflesso delle scelte e del modus operandi di noi operatori. Gli affidi sine die sono il sintomo di diversi fattori e anche di diversi vuoti legislativi a cui porre rimedio. Far finta che l’affido sine die non esista, come si fa oggi, non è una soluzione.
Quanti sono gli affidi sine die?
Ufficialmente il 60%, anche se io sono convinto che siano molti di più. Ci sono molti affidi registrati come temporanei, che quindi non vengono contati nelle statistiche, ma sappiamo tutti che ci sarà proroga. Nelle statistiche rientrano gli affidi con un decreto senza termine di scadenza e quelli che prevedono che l’affido duri fino alla maggiore età. Ma ripeto, il dato è sottostimato, in molte realtà che conosco di persona la percentuale di affidi che non termineranno si avvicina o addirittura supera il 90%. Quindi non parliamo di una piccola percentuale, di una eccezione: no, in Italia questa è la regola. Possiamo dire che in Italia l’eccezione sono i rientri in famiglia.
Quali sono le cause di questa larghissima diffusione degli affidi sine die?
Ci sono molte situazioni in cui non vi è possibilità di recupero delle capacità genitoriali della famiglia d’origine, ma questa cosa non viene dichiarata e ufficializzata. Tutti sanno che è inverosimile che il bambino possa rientrare nella sua famiglia in tempi utili per lui e per la sua crescita e di conseguenza avrebbe bisogno di un’altra famiglia: per diversi motivi però non si fa la dichiarazione di adottabilità. Ci sono difficoltà a sancire l’irrecuperabilità di una famiglia, una scarsa attenzione a quello strumento invece centrale che è la relazione di valutazione della capacità genitoriale della famiglia d’origine, il timore diffuso fra gli operatori, anche sul piano dell’incolumità personale e una forte cultura che porta molti operatori a pensare che per un bambino la cosa più importante sia rimanere connesso alla sua famiglia biologica. Molti ritengono interpretano la legge come se questa sancisse il diritto del minore a crescere nella propria famiglia, e quindi a fare di tutto per impedire che venga allontanato. E siccome l’adozione oggi in Italia recide legami con la famiglia biologica, c’è una enorme ritrosia a dichiarare un minore adottabile. Io direi piuttosto che il minore ha diritto di crescere ed essere educato nella propria famiglia a patto che questa sia sufficientemente adeguata. Bisogna intendersi: se la propria famiglia funziona bene, è il luogo migliore per crescere. Se però da mezzo questo diventa il fine, a quel punto siamo autorizzati a chiudere gli occhi di fronte alla sofferenza del minore pur di mantenerlo in famiglia. Quindi: il nostro obiettivo è mantenere o far tornare il minore nella sua famiglia di origine o quello di assicurargli un contesto familiare adeguato in cui crescere?
In molte realtà la percentuale di affidi che non termineranno si avvicina o addirittura supera il 90%. Non parliamo di una piccola percentuale, di una eccezione: no, in Italia questa è la regola. Possiamo dire che in Italia l’eccezione sono i rientri in famiglia.
Cioè secondo lei c’è un eccessiva attenzione culturale e di conseguenza di prassi operative sull’importanza della famiglia biologica?
Le relazioni con la famiglia biologica sono fondamentali, non ho dubbi. Però ritengo che proprio perché tanto importanti queste relazioni possono fare tanto bene o tanto male: dipende dalla qualità del rapporto. La “famiglia biologica” non è buona e utile al bambino indipendentemente dalla sua qualità e dalla qualità delle relazioni che genera. Proprio perché è così importante deve funzionare bene. Per questo l’adottabilità non deve essere un tabù. Insomma, nei servizi vedo anche troppa attenzione per la tutela del rapporto con la famiglie d’origine, una eccesiva tolleranza a condizioni familiari gravemente pregiudizievoli per la crescita dei minori: proprio il contrario di quell’idea diffusa per cui i servizi ricorono con facilità e leggerezza all’allontanamento dei minori… L’Italia è fra i Paesi in Europa che allontana meno, 3 minori ogni mille residenti: in Gran Bretagna sono quasi sei, in Francia 8, in Germania 8,5 ogni mille.
L’adozione in effetti è una scelta irreversibile…
È chiaro che la recissione del legame con la famiglia d’origine ha dei costi e non sempre è la soluzione migliore. Bisogna mettere tutto sui piatti della bilancia, inclusi i costi che il bambino paga non venendo allontanato. Capisco che sia molto difficile assumersi una responsabilità del genere. L’affido è per definizione il territorio della reversibilità, intanto facciamo così e poi vediamo. Guardi, esco ora da un incontro con un servizio: si per deciso per l’affido proprio per queste ragioni, per un paio d’anni facciamo così e poi vedremo, tutto è aperto. Quando sappiamo che per lavorare bene con bambini in difficoltà è vietato navigare a vista.
Sta dicendo che nei servizi ci sono professionisti che non lavorano bene quanto dovrebbero?
Tanti servizi hanno dei modus operandi tali per cui anche un buon operatore, se inserito in un cattivo contesto, lavora male: questo è un problema. Poi c’è il fatto che ci sono molte incrostazioni ideologiche, assiomi che sembra impossibile mettere in discussione, come l’idea che l’affido sia temporaneo… È un dogma guai a dire che non è così, negli incontri informativi tutti sottolineano che l’affido è temporaneo quando sappiamo tutti che non è vero. Questo porta a lavorare male anche persone molto capaci. Poi devo dire che in campo psicosociale c’è una minore attenzione che in altri ambiti alle competenze che l’operatore deve avere per affrontare casi estremamente complessi, che comportano un carico professionale, emotivo. Non accetteremmo mai che un giovanissimo chirurgo faccia – da solo – un’operazione molto complessa eppure accettiamo che situazione psicosociali molto complesse siano messe in mano a giovani assistenti sociali, soli, senza nemmeno il conforto e il confronto con una equipe.
La “famiglia biologica” non è buona e utile al bambino indipendentemente dalla sua qualità e dalla qualità delle relazioni che genera. Proprio perché è così importante deve funzionare bene. Per questo l’adottabilità non deve essere un tabù.
Nel libro lei afferma che una parte del problema sta nell’adultocentrismo dei servizi, in cui i minori non vengono abbastanza ascoltati per cui alla fine il punto di vista degli adulti è più presente agli operatori di quello dei minori stessi. Non è paradossale?
È paradossale ma verissimo, noi incontriamo pochissimo i bambini. Non è raro vedere casi di minori seguiti da anni dai servizi dove gli operatori non hanno mai incontrato il bambino se non perché la mamma lo ha portato per caso al colloquio. Non si parla con i bambini, perché si ritiene di non essere formati per farlo, si ha paura di fare danni. Faccio molta supervisione, i colleghi mi parlano di mamma, nonna, zio… Ma del bambino cosa mi dite? Non è conosciuto. Oppure mi dicono “questa mamma, poverina, già le abbiamo tolto un bambino, come si fa a togliergliene un altro?”. Domanda legittima, emotivamente forte, ma il focus dell’operatore dovrebbe essere sui sentimenti e i bisogni del bambino, non su quelli degli adulti.
Qual è il problema centrale degli affidi sine die?
La precarietà cronicizzata, il fatto che il ragazzo non può investire su nuove relazioni stabili ma deve rimanere sempre per così dire “disponibile” al rientro in famiglia secondo i tempi dei genitori. Inoltre è poco tutelante: se dopo 10 anni di affido succede qualcosa, lui non è protetto e non ha diritti, non è un figlio di quella coppia e loro non hanno doveri nei suoi confronti. Se a 16 anni un ragazzino inizia a comportarsi male e lo vogliono mettere alla porta, l’affido finisce, quella coppia non ha nessun dovere nei confronti del minore. È una grossa controindicazione: una struttura temporanea non dà garanzie.
Le famiglie affidatarie cioè non sanno che l’affido sarà sine die?
Alcune lo sanno altre no, molte in effetti si sono impegnate per un’esperienza a termine e poi si sono ritrovate obtorto collo ad andare avanti. Si legano a un minore per senso di responsabilità, ma se l’avessero saputo non l’avrebbero fatto: in qualche modo “le abbiamo incastrate” ed è ingiusto. Per loro come per il bambino, che si ritrova con dei genitori che non avrebbero voluto essere tali, non avrebbero voluto un figlio in più.
Lei cosa propone?
Innanzitutto convincerci che tutelare un bambino significa garantirgli un contesto familiare in cui crescere, non “aggiustare” la sua famiglia a tutti i costi. Quando è possibile la sua famiglia sarà la scelta numero uno, ma se ci rendiamo conto che questo non è possibile – e questo dobbiamo capirlo in tempi ragionevoli – la priorità è trovare per quel bambino un altro contesto adeguato. Questo significa dargli un’altra famiglia, cioè renderlo adottabile. Io propongo che nel caso di un minore sotto i 14 anni, trascorsi 24 mesi dall’allontanamento (o al massimo 36) il minore sia obbligatoriamente dichiarato adottabile e inserito in una nuova famiglia. A questo punto si pone tema delle relazioni con sua famiglia di origine: io non escludo che una relazione possa essere mantenuta, in date situazioni. Per questo la mia proposta è quella introdurre nel nostro ordinamento l’adozione aperta, quando valutiamo che per crescita del minore sia utile mantenere dei legami (si vedrà di caso in caso quali e come) con la sua famiglia d’origine. In Italia questa possibilità non esiste se non nella forma dell’adozione mite, che fa riferimento all’art 44 d della legge: a mio parere andrebbe introdotta. Perché finora noi ragioniamo al contrario, per lasciargli mantenere i rapporti con la famiglia d’origine non prendiamo la decisione di dichiararlo adottabile. Invece al primo posto ci dovrebbe essere la sua esigenza di avere una famiglia.
Io propongo che nel caso di un minore sotto i 14 anni, trascorsi 24 mesi dall’allontanamento (o eccezionalmente 36) il minore sia obbligatoriamente dichiarato adottabile e inserito in una nuova famiglia. A questo punto si pone tema delle relazioni con sua famiglia di origine: io non escludo che una relazione possa essere mantenuta, in date situazioni.
Quindi la vera provocazione da parte sua è questa: se dopo 24 mesi di affido non vi è la possibilità di rientro in famiglia, il minore è obbligatoriamente dato in adozione.
Non dobbiamo essere frettolosi, ovvio, però nell’arco di 2/3 anni è possibile dire se un minore può tornare o no in casa sua in tempi utili per la crescita del minore stesso. La mia proposta è provocatoria, ma ci credo molto.
Perché l’obbligatorietà?
Significa non dare la responsabilità di decidere ai servizi, diciamo che i servizi dovranno avere dei buoni motivi per non farlo, non per farlo. Rappresenterebbe la concreta applicazione del diritto del minore a una famiglia, si rispetterebbero i tempi del minore anziché lasciarlo in situazioni indefinite per anni, sarebbe un messaggio potente per i genitori, si ridurrebbe la portata emotiva e di conseguenza le resistenze connesse alla decisione di procedere all’adottabilità.
Che differenze ci sarebbero fra questa adozione aperta e l’adozione mite di Occhiogrosso?
Occhiogrosso ha fato un lavoro utile, lavorando sull’articolo 44 d) ovvero sulle adozioni in casi particolari. Lui ha utilizzato questo articolo per sanare un gran numero di affidi sine die. In casi particolari quindi si può fare un’adozione che non rescinde i rapporti con la famiglia d’origine, di cui il minore mantiene anche il cognome. La differenza è che questa soluzione surrettizia mette una pezza, andrebbe superata perché questi bambini potessero avere un’adozione pienamente legittimante, che al tempo stesso non impedisca la relazione con la famiglia d’origine. Con l’adozione aperta avremmo bambini adottati con tutti i crismi, che manterrebbero rapporti con alcuni membri della famiglia d’origine. Quella che propongo io è una adozione legittimante aperta: di fatto, fra l’altro, con internet e i social network in molte adozioni chiuse anche internazionali sta accadendo che figli e genitori o fratelli biologici si ritrovino. Questo mito della chiusura è già stato messo in crisi dalla realtà: meglio governarlo piuttosto che opporsi. Ricordando che a volte è utile, a volte no.
Affido e adozione sono in questi giorni al centro del dibattito, per via della stepchild adoption. Dal punto di vista del minore, a suo parere, qual è la proposta più tutelante?
La stepchild adoption, non c’è dubbio. O proibiamo a una coppia omosessuale di crescere un bambino, ma gli studi ci dicono che i bambini che crescono in una coppia omosessuale non hanno uno sviluppo meno positivo degli altri o, se accettiamo che cresca in quella coppia, i bambini hanno bisogno di garanze e sicurezze. L’adozione da parte del genitore “acquisito” sarà con previa valutazione della sua idoneità, come si fa per le coppie eterosessuali. Se questa idoneità c’è, non vedo perché impedirlo per il solo fatto dell’orientamento sessuale: non ci devono essere automatismi, come non ci sono oggi nell’adozione eterosessuale. Inoltre l’adozione deve essere nell’interesse del minore. L’affido rafforzato invece è un escamotage, un’ipocrisia, per salvare le apparenze.
Foto JEFF PACHOUD/AFP/Getty Images
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