Verità, bellezza, bontà. Sono queste, secondo Howard Gardner, le tre virtù da«mantenere vive nel futuro, per il futuro». Psicologo all’Università di Harvard, condirettore di Project Zero, un programma sperimentale sui meccanismi dell’apprendimento, Gardner è noto soprattutto per le sue ricerche sull’intelligenza multipla, la creatività dei bambini e le dinamiche dell’insegnamento.
Molti i suoi lavori, tradotti in Italia da Feltrinelli, a partire da Forma mentis del 1987, fino a libro, intitolato appunto Verità, bellezza, bontà (2011). Un libro interessante, laddove propone una rivisitazione delle virtù al tempo del cinismo postmoderno e dell’egemonia del mercato.
«Verità, bellezza, bontà – osserva Gardner – anche se sotto attacco restano essenziali per l’esperienza umana e, soprattutto, per la sua sopravvivenza. Per questo non devono essere abbandonate e non lo saranno».
Piccoli inquisitori crescono
Oggi si ha il sospetto che il primo verbo che non abbia a che fare con cose fisiche e che i bambini americani imparano con estrema rapidità sia "to sue", fare causa. È una spia, minima se si vuole, ma non meno allarmante di una tendenza generale che sovrappone responsabilità e diritti, interesse personale e incapacità di astrarre da questo interesse. Non c’è gruppo sociale o professionale che non rivendichi sacrosanti diritti. Eppure proprio questa inflazione dei “diritti” apre problemi di non poco conto. Uno su tutti: è possibile fondare un’etica che non sia esclusiva, ma responsabile?
Mi piace richiamare qui una nozione, quella di cittadino etico.
Il cittadino etico non va semplicemente per la propria strada. Non si alza al mattino chiedendo unicamente il rispetto dei propri diritti. Al contrario, si impegna con un senso di responsabilità sempre nuovo e sempre più grande.
Una posizione genuinamente etica è una posizione di responsabilità, il che non preclude ovviamente la necessità di far valere o rivendicare i propri diritti.
Ma credo che il cittadino e il lavoratore etico debbano in qualche modo alzarsi al mattino senza iniziare la giornata con la fatidica domanda “Che cosa mi è dovuto?”, bensì con una più articolata: “Poiché sono un professionista, poiché chiedo ed esigo rispetto, poiché ho una certa dose di autonomia e risorse da gestire, quali sono le mie responsabilità?”.
È relativamente semplice essere “etici” se questo non confligge con il nostro interesse personale. Tutto si complica quando questo interesse entra in conflitto con la cosa giusta da fare in quel momento, in quel contesto e rispetto al proprio ruolo e alla propria professione. L
Io credo in una moralità di vicinato e nell’etica dei ruoli.
La moralità di vicinato è un insieme “locale” di principi e comportamenti che evolvono molto lentamente e possono avere una base biologica.«Ama il prossimo tuo» è una regola tutto sommato semplice da rispettare in un universo di vicinato, dove il prossimo ha un volto noto e famigliare.
Siamo qui nel campo di quel mutuo riconoscimento che deriva dall’appartenenza a qualche comunità locale definita. Ma questo non basta, non basta intendo dire in una società complessa, dove le relazioni tra individui non sono solo locali, ma sempre più globali. Ecco allora la necessità dell’etica. Una necessità che comporta capacità di astrazione.
Se nell’ambito della moralità di vicinato, ciascuno pensa a se stesso come individuo (io mi chiamo Giovanni) e agli altri per nome, nell’etica si pensa per ruoli. E per pensarsi tali occorre una capacità di uscire dalla proprie intereazioni quotidiane, pensandosi come lavoratore, come professionista e come cittadino.
Pur nella sua concisione e nell’apparente semplicità, “buono” è quindi un termine che racchiude una notevole complessità. Quel che è «buono» o è «bene» attiene alle relazioni umane. Da centiniaia di anni, anzi da millenni il senso di ciò che è bene o male fare o di ciò che è buono accompagna le nostre relazioni.
La crescente complessità di queste relazioni, nella crescente complessità del nostro mondo ha però reso difficile orientarsi usando solo relazioni “locali” (in questo senso parlavo di un “prossimo” immediato, vicino), rendendo necessario un approfondimento della nozione.
Noi non possiamo più dirci “buoni” solo rispetto ai nostri vicini, ma anche relativamente a responsabilità di ambiti che prevedono una competenza e un dominio tecnico, dalla cittadinanza alla professione.
Etica e responsabilità
Siamo davanti al dilemma della globalizzazione, già descritto da Balzac nel suo famoso "apologo del mandarino cinese" : se l'Altro è lontano, così lontano che non vedrò, né sentirò la sua sofferenza e nessuno. io per primo, si accorgerà mai del male che eventualmente gli faccio, cadono le barriere tradizionali dell'etica. L'animale che uccido, non lo devo nemmeno più guardare negli occhi… Ecco la globalizzazione.
Per questa ragione, a partire dagli anni Novanta ho impegnato parte delle mie ricerche in un progetto denominato "G", ossia Good Work, volto a riflettere e sviluppare lenti interpretative del sociale e della società non unicamente legate al “mercato”. Il mercato può essere un test di prova necessario, ma non si può delegare tutto – valori compresi – alle leggi della domanda o dell’offerta, pena un decadimento dell’etica.
Dopo numerose interviste, io e i miei colleghi abbiamo quindi estratto un concetto di “buon lavoro”, ossia un “lavoro buono” basato su tre componenti. Un buon lavoro è eccellente, ossia deve rispondere a criteri professionali e rispondervi. Un buon lavoro è coinvolgente sul piano personale, anche se alla lunga può presentare notevoli difficoltà. Un buon lavoro è etico, ossia eseguito in maniera responsabile. Un buon lavoratore deve sempre riposizionarsi rispetto a questa responsabilità, chiedersi come migliorare, dove ha sbagliato se ha sbagliato, cercare di lavorare per accrescere, non per diminuire il tasso etico del proprio impegno.
L’etica della responsabilità ci rimanda al concetto classico di vita buona e di società giusta. Etica che ci dovrebbe spingere a fare la cosa giusta, anche quando il nostro interesse (magari dettato da ragioni di vicinato: pensiamo a un medico che improvvisamente debba lasciare la cena che sta facendo con la moglie per un’emergenza) ci direbbe il contrario.
Una persona buona lo dovrebbe essere a 360°, ma non sempre una buona persona è un buon medico, inteso come un medico responsabile, ma è vero anche il contrario (un medico esemplare che ha una pessima morale di vicinato e magari picchia la moglie).
Lei ha sviluppato il concetto di allineamento, ci può spiegare cos’è?
Quando i valori classici di una professione, gli obiettivi di chi la pratica, la domanda che proviene dal mercato, i proprietari e gli stakeholders vogliono la stessa cosa allora parliamo di allineamento. In certi ambiti di ricerca questo è stato possibile, ma se pensiamo al campo del giornalismo, questo ci rivela come l’allineamento sia una cosa alquanto difficile.
Anche in difetto di allineamento – quando non tutti remano nella stessa direzione – va pur detto che è all’individuo che spetta l’ultima parola. È su di lui che, pur nel contrasto e nella dissonanza, che grava il peso dell’ultima scelta. Quella etica, appunto.
Immagine di copertina di Roland Tanglao
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