Quando penso alla professione del fundraiser e alla sua evoluzione, penso alla tanta strada fatta ma a quanta se ne deve ancora fare per essere ritenuti credibili e degni di considerazione.
Ho letto con interesse un veloce post di Valerio Melandri sul suo blog a proposito del lavoro a percentuale. So che ne ha parlato al #fundraisingday lo scorso 22 ottobre a Forlì. Non ho avuto il piacere di ascoltarlo ma sono certa non saranno mancate le argomentazioni e i toni decisi. Di quando in quando, serve quindi tornare sul tema e prendere una posizione ferma rispetto a chi si muove con disinvoltura nel nostro Mercato.
Qualche tempo fa, io stessa in un mio post su Vita (Di solo nonprofit si può anche vivere) ho provato a riflettere sul lavoro a percentuale del fundraiser. Lo rifaccio ora perché, nonostante sia abbastanza chiara la posizione per chi mi conosce e il mio nome abbastanza familiare nella raccolta fondi, c’è chi ci prova ancora e io ricado sempre nel medesimo imbarazzo: e quindi ti dico no ancora una volta, non guadagno a percentuale, e no, non mi interessa che la tua sia una buona causa. Ti dirò: lo sono tutte, o quasi.
Quindi, la buona causa non è una ragione sufficiente. Questo è il punto 1.
Punto 2. Il rischio d’impresa non è del fundraiser. O, almeno, non può esserlo totalmente. Troppo facile riversare su una persona la riuscita di un lavoro così complesso e delicato come quello di un’operazione di negoziazione finanziaria. Perché se questo è l’approccio, di questo sostanzialmente stiamo parlando: di negoziazione. Con buona pace di tutti i valori che ci dovremmo portare dietro e dei processi di costruzione della relazione che sono alla base del fundraising. Ma il fundraising è un processo di negoziazione lungo il più delle volte, in particolare se l’oggetto negoziato ha un valore specifico considerevole. Tutto questo richiede tempo, molto a volte. E pazienza, tanta.
Ma tempo e pazienza sono concetti che inizialmente si comprendono. Poi, quando il tempo passa, be’… le cose cambiano. E questo è il punto 3. Ma se le cose sono fatte con criterio, i risultati arrivano e se l’organizzazione non si dà il tempo e non paga il fundraiser, potremmo trovarci idealmente di fronte a due scenari:
Il primo: l’organizzazione di avvantaggia dei risultati ottenuti grazie al lavoro svolto dal fundraiser che nel frattempo non c’è più. E allora che si fa?
Il secondo: l’organizzazione finisce con il vanificare gli sforzi fatti dal fundraiser perché di fatto non valorizza e non riconosce, che è peggio, il lavoro svolto dal fundraiser che, nel frattempo, avrà finito di lavorare, sarà un po’ frustrato e certamente un po’ più povero.
Ma la lista è lunga. Sì perché l’organizzazione che non valorizza né sostiene il lavoro che il fundraiser fa per lei, avrà anche poco chiaro il concetto dell’investimento. Questo sta a significare che ogni centesimo da tirar fuori sarà considerato un costo e, quel che è peggio, soldi sottratti ai progetti.
Se si vogliono raccogliere i soldi, quelli veri intendo, quelli che ci fanno fare grandi cose, quelli che ci danno soddisfazione, quelli che ti fanno fare la differenza, quelli che ci ricompensano dalla fatica, ci vogliono soldi. Punto 4: senza soldi, i soldi non si raccolgono. O meglio, si raccolgono monetine, come scriveva poco tempo fa il collega Raffaele Picilli sulla sua pagina Facebook.
Vanno ribilanciati gli asset: senza perdere di vista le priorità sociali, occorre valutare quanto queste priorità abbiano da guadagnarci dall’uso sistematico e strutturato di una politica di fundraising come si deve.
Punto 5. Per fare quanto racconto qui sopra, non ci vuole troppo (o troppi soldi). Ci vuole il giusto. Un fundraiser che sa fare il suo mestiere avrà “prudente” come parola d’ordine ma allo stesso tempo chiederà alla sua organizzazione tempo, budget e fiducia. Chiederà alla sua organizzazione di provarci, se può. Perché chi non risica, non rosica.
Punto 6. Al fundraiser dico: se guadagni a percentuale, inquini il mercato nel quale hai deciso di lavorare.
Sì, perché a me fai del male relativamente ma a molti tuoi colleghi che ci stanno provando a fare bene, ne fai molto. Alcuni la chiamerebbero “concorrenza sleale”. Esagero, forse? Pensaci un attimo. Se tutti, a partire da ora, smettessero di accettare o proporre guadagni a provvigione, la domanda collasserebbe in un attimo. È la legge de mercato, ti dirò. E altra cosa: non sei un fundraiser; sei un procacciatore di fondi. Ma attenzione: se non vali, potrai anche proporti a percentuale ma alla fine sarai escluso ugualmente. Non lo dico io, ci mancherebbe. È sempre il mercato che, per sua natura, si autoregola. Ognuno, poi, si faccia i propri conti rispetto a costi/benefici. Un compromesso si può trovare. Un piccolo fee per iniziare magari, in cui il rischio è contenuto, partecipato e che in qualche modo misura la voglia di fare fundraising seriamente.
Il fundraising è una questione culturale. Questo è il punto 7 della questione.
Occorre educarsi a pensare in modo programmato, un po’ come avviene nei progetti che le nostre organizzazioni portano avanti. E alla stregua di un fiscalista o di un avvocato (non me ne vogliate se appartenete a queste due categorie) è necessario valorizzare il tempo che investiamo perché per essere un fundraiser abbiamo studiato, abbiamo speso tempo ed energie, abbiamo fatto esperienza e svenderci così è davvero un peccato.
Quindi no, non guadagno a percentuale. Ti prego, non propormelo più. Se ti informi su di me, come io ho fatto su di te, ci risolviamo i problemi e non perdiamo tempo, né tu, né io.
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