Capita non di rado che le riforme non piacciano ai diretti interessati. E forse è normale che sia così. Anzi potrebbe essere addirittura un indicatore “d’impatto”. Perché se di riforma si tratta, allora sorprende fino a un certo punto che siano proprio i soggetti toccati più da vicino a esprimere atteggiamenti critici di fronte a un quadro che cambia. Il loro di quadro, non solo normativo ma anche culturale, che per quanto fosse in precedenza problematico era comunque quello nel quale erano nati e vissuti.
La riforma del terzo settore, da questo punto di vista, non sembra fare eccezione rispetto ad altri provvedimenti normativi diversi per oggetto ma simili nell’impostazione. Se in sede di lancio era filato tutto liscio (anzi lo slogan renziano “da terzo a primo” aveva raccolto molti consensi) e se in sede di discussione le schermaglie sembravano essere tutte di natura tecnica e quindi pane per i denti dei lobbisti, in sede di implementazione la musica sembra cambiare, virando su note più cupe. Man mano che i decreti attuativi vengono emanati, escono i primi manuali interpretativi e si moltiplicano i seminari di presentazione, il “popolo” del terzo settore – volontari, imprenditori, operatori e altri addetti ai lavori –comincia a intravedere su se stesso i possibili segni del cambiamento. E, con essi, sale l’onda della critica. Un mormorio di fondo per ora, ma sempre più diffuso: dalle cooperative sociali ai centri servizi per il volontariato, dall’associazionismo culturale alle fondazioni d’impresa.
E’ un momento critico accentuato anche dal contesto politico. Le elezioni nazionali imminenti che, inevitabilmente, esasperano le posizioni. E inoltre un governo in carica solo “per gli affari correnti” certo non aiuta, ad esempio, a mettere in campo azioni di natura informativa e promozionale. Iniziative importanti che peraltro latitano in questo paese, nella convinzione, tutta sbagliata, che le riforme, e non solo questa, si autoimplementino, un po’ come quando si carica una nuova release del sistema operativo sullo smartphone.
Servirebbe più accompagnamento quindi. O, con l’ennesimo termine inglese, più azioni di capacity building per fare in modo che la riforma non venga subita – esasperando quindi la sua rappresentazione negativa – ma adattata a necessità di crescita e quindi su questa base valutata ed eventualmente corretta.
Per fare tutto questo serve quindi una leva diversa. Quella che con un altro termine importato (in questo caso dall’innovazione digitale) viene definita “ecosistema”, ovvero un complesso di attori che in forme e modi diversi agisce a supporto delle organizzazioni di terzo settore e dei loro ambiti di attività. Corpi intermedi, società di consulenza, gruppi editoriali, enti di formazione, soggetti finanziari, ecc. Un contesto che, soprattutto negli ultimi anni, si è ampliato e diversificato catalizzando gran parte del dibattito rispetto alle opzioni di sviluppo e quindi, inevitabilmente, influenzando non solo i contenuti ma anche il “mood” della riforma. Semplificando con una metafora naturalistica: la maggiore biodiversità di attori, approcci e strumenti ha arricchito ma anche destabilizzato la situazione di relativo equilibrio che dovrebbe caratterizzare gli ecosistemi.
Quali sono quindi gli elementi di frizione e come, lavorando sulla riforma, si potrebbe tentare di risolverli aumentando quindi la coesione e l’efficacia dell’ecosistema? Ecco di seguito alcune proposte.
- Mettere in secondo piano i giudizi generali, catastrofici o entusiastici che siano. La riforma è troppo articolata e complessa e poco si presta a una valutazione complessiva che rischia solo di radicalizzare le posizioni. Meglio invece concentrarsi sull’individuazione di fil rouge che raggruppano dispositivi normativi su temi di strategia comune: ad esempio gli investimenti sociali nel terzo settore, il coinvolgimento degli stakeholder nella gestione organizzativa, l’innovazione di prodotto pescando nel “mare magnum” dei nuovi settori di attività.
- Focalizzare le sfide paese, i problemi che si vogliono affrontare e risolvere. E’ questa la miglior misura, quella dell’impatto in un quadro di forte disgregazione, per comprendere qual è il potenziale del terzo settore non solo come aggregato “muscolare” (numero di organizzazioni, volontari, addetti retribuiti, ecc.) ma come agente di trasformazione sociale, ad esempio su temi di sostenibilità ambientale e di coinvolgimento dei millennials. Un approccio inoltre utile per valutare, seppur non nell’immediato, la bontà o meno della riforma anche su aspetti come l’assunzione della qualifica di ente di terzo settore e di impresa sociale oggi rappresentati come vessazioni burocratiche ma che in realtà si potrebbero inquadrare come azioni di ricostruzione di una nuova società civile e di una nuova economia sociale.
- Una maggiore consapevolezza dei bug del settore, trattandoli non come eccezioni alla regola (le “mele marce” in un contesto di per sé positivo), ma come elementi strutturali di debolezza sui quali intervenire, in particolare su due fronti: la gestione delle partite commerciali negli enti associativi e le modalità di coprogrammazione e cogestione con la Pubblica Amministrazione. Temi sui quali la riforma prova a fornire indicazioni per una migliore gestione in termini tecnici, ma dai quali scaturiscono importanti riflessi a livello di opinione pubblica.
- Infine serve una conoscenza in grado di alimentare una cultura del terzo settore basata non solo sulla separazione, sia interna tra le sue diverse espressioni sia verso attori esterni, ma soprattutto sull’apprendimento reciproco e sulla contaminazione, in particolare rispetto a segmenti dell’economia dove si manifesta in modo sempre più evidente, anche se ambivalente, l’attenzione per la produzione di valore sociale.
Percorsi non semplici ma per certi versi inevitabili se davvero ci si vuole fare carico – e forse questo è il dilemma di fondo – della valenza più autenticamente politica e non solo normativa della riforma. Le implicazioni di questo approccio di policy sono molto concrete. Basta guardare agli esiti del bando che finanziava “iniziative di rilevanza nazionale di enti di terzo settore”. Una buona parte dei fondi è rimasta inutilizzata, mentre tra coloro che invece ne hanno beneficiato pescando dalla lista dei nuovi settori di attività spicca l’innovazione culturale. Sono le prime avvisaglie di un nuovo terzo settore?
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